RITRATTO DI PINA MENICHELLI, CELEBRE DIVA DELL’EPOCA DEL MUTO

«Flessuosa, armoniosa, sensuale, è forse la più conturbante tra le vedettes preferite. È bella, di una bellezza inquietante e provocante. Sottile, alta, vestita sontuosamente, ieratica negli atteggiamenti e lenta nei gesti, essa è nata per i film dell’amore insaziabile e crudele. È nata per essere adorata, e seguire soltanto il proprio piacere, è nata per dar forma a tutte le barbarie di un’amante; la visione di lei evoca tutta la febbre, tutto il desiderio, tutti i terrori deliziosi degli amori eternamente insaziati…».

    È questa la descrizione che – con un linguaggio un po’ retorico ed altisonante, tipico dell’epoca – un articolo anonimo del 1917, comparso sulla rivista francese «Le Film» (non su una rivista italiana, ma francese, si badi bene!) fa di Pina Menichelli, che può rendere bene l’idea non solo delle caratteristiche fisiche e della sensualità dell’attrice, ma anche della sua celebrità.
Eppure, nonostante ciò, i “natali” di Pina Menichelli erano rimasti incerti per moltissimo tempo, tanto che tutte le Enciclopedie e i repertori cinematografici, a proposito del suo dato anagrafico, fino a qualche anno, in maniera molto incerta ed “approssimativa”, recitavano: «nata a Roma nel 1893»; qualcuna, più genericamente, «nata in Sicilia, nel 1893»; per non parlare di quelle che ne indicavano l’«origine levantina» o la «provenienza russa»: anche perché le caratteristiche somatiche di Pina Menichelli (bionda, con gli occhi azzurri e la carnagione chiara) la facevano apparire tale, discostandosi alquanto dalla “visione” che si aveva allora (e, spesso, si ha anche oggi) del “tipo siciliano”, e dimenticando che in Sicilia, coacervo di razze diverse nell’arco della sua storia millenaria, accanto al “tipo arabo” (o meglio “mediterraneo” in senso lato), esiste anche il tipo “normanno”, alto, biondo, con gli occhi azzurri e la carnagione chiara. E fu per questo che Luigi Pirandello, nel proporre ad Anton Giulio Bragaglia, nel 1918, di portare sullo schermo il suo romanzo Si gira (divenuto poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore, il primo romanzo che abbia per soggetto e oggetto il cinema, in cui compare anche la prima descrizione letteraria di una diva), ritiene che l’attrice più indicata per interpretare la protagonista, Varia Nestoroff, «una russa (…), donna fatale, ecc.», sia proprio Pina Menichelli, le cui origini siciliane egli ovviamente ignorava.

    Questi dati anagrafici sono stati successivamente “sistemati” in seguito a una “scoperta” (una “piccola” scoperta, ma pur sempre una “tessera” che viene rimessa al posto giusto, in quel complesso e tormentato mosaico, così difficile da ricostruire, fitto di errori ed imprecisioni, che è la storia del cinema muto italiano), da parte dello scrivente, di cui, a suo tempo, egli stesso ha dato notizia, per la prima volta, in un articolo pubblicato sulla terza pagina di un quotidiano di Messina (Pina Menichelli, siciliana di Castroreale, in «Gazzetta del Sud», 7 marzo 1989) e, successivamente, in una rivista specialistica («Ciemme – Comunicazione di Massa», A,. XXI, nn. 93-94, Venezia, settembre-dicembre 1990).

    Quindi, Menichelli Giuseppa Jolanda (questo il nome preciso, come si evince dal Certificato di nascita e dall’Estratto per riassunto), di Cesare e di Francesca Malvica, era nata a Castroreale (in provincia di Messina), in via Sant’Agostino, alle ore 19,30 del 10 gennaio 1890 (e non nel 1893), da genitori siciliani, che appartenevano ad un’antica famiglia di teatranti girovaghi, che si fa iniziare, addirittura, nel Settecento, con Nicola Menichelli e con il figlio Francesco, entrambi attori; e pure le sorelle di Pina, Lilla e Dora (nata a Monteleone Calabro, attuale Vibo Valentia), e il fratello Alfredo furono attori teatrali e cinematografici. Muore a Milano, il 29 agosto 1984, all’età di 94 anni.

    E vediamo le tappe principali della sua breve, ma intensa e prestigiosa carriera. Data la propensione artistica della sua famiglia e l’ambiente in cui cresce, fin da bambina comincia a recitare in varie Compagnie Teatrali. Fra il 1913 e il 1914, la troviamo a Roma, dove lavora presso la Casa Cinematografica «Cines», in numerosi film, con importanti registi (come Enrico Guazzoni, Nino Oxilia, Augusto Genina, ecc.), ma sempre soltanto in parti di “contorno”, in piccoli ruoli.

    Si racconta che, però, una sera, mentre, in una saletta della torinese «Itala Film», il produttore Giovanni Pastrone (che allora – come regista – usava ancora lo pseudonimo di Piero Fosco, con cui aveva girato Cabiria), stava visionando, un po’ annoiato ed assonnato, i film delle Case cinematografiche concorrenti, in una pellicola napoleonica della «Cines» (Scuola di eroi di Enrico Guazzoni), vide qualcosa che attirò immediatamente la sua attenzione: una tamburina «bionda, dall’occhio freddo e chiaro», che picchiava sul suo tamburo guardando “in macchina”, contro tutte le regole. Pastrone tagliò il fotogramma e lo mandò al suo corrispondente di Roma, chiedendogli di rintracciargli la giovane attrice.

    Così recita la “leggenda”! Vera o falsa che sia, sta di fatto che la grande intuizione di Pastrone, la scrittura immediata da parte del corrispondente romano dell’«Itala», con un ingaggio di mille lire al mese, e la conseguente partenza dell’attrice per Torino, crearono ben presto una “diva”, un mito destinato a resistere per molto tempo. Esso ebbe inizio, nel 1915, con Il Fuoco, film impregnato di un acceso dannunzianesimo, anche se non aveva alcun rapporto con il romanzo di D’Annunzio, con cui Pina Menichelli, per il suo sex-appeal ed il fascino che esercitava sugli spettatori, venne salutata come la «nuova Borelli», cui era accostabile anche per una certa somiglianza fisica; proseguì l’anno dopo con Tigre reale (tratto dal Verga “prima maniera”, che molto si avvicinava, per l’appunto, ai moduli decadenti che saranno tipici di D’Annunzio), e qui la Menichelli era Natka, una seducente polacca sterminatrice di cuori (che nel romanzo si chiama Nada).

    Questi due film (entrambi diretti, con lo pseudonimo di Piero Fosco, da Giovanni Pastrone ed interpretati accanto al messinese Febo Mari) conquistano alla Menichelli un posto di rilievo nell’«Olimpo delle dive», imprimendole quel marchio di donna fatale ed affascinante, che caratterizza la sua personalità artistica e quella di molte altre attrici dell’epoca. Infatti, a partire dai primi decenni del Novecento, nell’Italia giolittiana, nel periodo in cui i giovani sacrificano la loro esistenza nella Grande guerra, il desiderio di evasione si concretizza nelle donne fatali, nelle dive che, sullo schermo, si aggrappano alle tende e fanno strage di cuori e di amanti, rappresentando, «sui palcoscenici e nei film, quell’Italia che Gramsci rifiuta con tutto il suo essere: l’Italia di D’Annunzio, di Sem Benelli, di Guido Da Verona, di Marinetti. L’Italia che giustifica ed esalta la bella morte, che vive nel culto del gesto, che scrive in Mimì Bluette, fiore del mio giardino, forse il romanzo più tipico di Guido Da Verona, in francese: “Aujourd’hui chantent les belles mitrailleuses”, oggi cantano le belle mitragliatrici».

    Sono Italia Almirante Manzini, Hesperia, Gianna Terribili Gonzales, Elena Makowska, Lina Cavalieri, Diana Karenne, Soava Galloni, Leda Gys, Maria Jacobini, Carmen Boni, Rina De Liguoro e tante altre: tutte dive, tutte belle e fatali; ma il primato spetta a Francesca Bertini, seguita a ruota da Lyda Borelli e – per l’appunto – da Pina Menichelli, che lo studioso Ado Kirou così definisce: «La Menichelli era la personificazione della crudeltà femminile. Questa “Tigre reale” fu la prima donna del cinema che confuse i sentimenti del pubblico. La sua insensata capigliatura, la perversità del corpo malfatto, le arie sdegnose, la cattiveria dello sguardo, ne fecero la donna ambigua per eccellenza. Essa non cercava di attirare la simpatia ma l’antipatia del pubblico. Cercava l’avversione dello spettatore. La donna fatale che non ha mai un sentimento, un pensiero tenero, calmo, semina l’odio, il lutto, e ne è fiera e appagata. Era impossibile amarla ma era talmente attraente che si desiderava essere straziati da quella belva dagli artigli acuminati. Sovrastava gli uomini che si rotolavano, piccoli e miseri, ai suoi piedi, sperando al massimo di sfiorare l’orlo del suo vestito».

    Indipendentemente dalla veridicità di queste affermazioni, sicuramente “sopra le righe”, non è certo un fatto casuale, però, che molti suoi film abbiano avuto seri problemi con la censura: da Il Fuoco a Chioma d’oro (che, pronto nel 1915, uscì tre anni dopo, sforbiciato e con il titolo cambiato in L’Olocausto); da Il giardino delle voluttà (che divenne un meno “compromettente” Giardino incantato), a La Biondina (che subì notevoli modifiche) e a La Moglie di Claudio (censurato perché, a dire della stessa Menichelli, l’attrice fu trovata «troppo… affascinante»!).

    Dopo l’importante esperienza all’«Itala» di Torino, di fronte ad un’offerta molto più allettante, l’attrice decide di passare alla «Rinascimento Film», sorta a Roma, nel 1918, ad opera del barone Carlo Amato; il quale, oltre a cercare di valorizzare al massimo le sue qualità artistiche, intreccia con lei una duratura relazione, sposandola, però, solo nel 1930; in precedenza, dal 1909 fino alla separazione avvenuta qualche anno più tardi, la Menichelli era stata sposata con il napoletano Libero Pica (dal quale ebbe due figli).
Alla «Rinascimento» la Menichelli ha occasione di girare parecchi film, soprattutto con Amleto Palermi, tra cui due feuilleton romantici, come Il Padrone delle ferriere e Il Romanzo di un giovane povero: insomma, non solo la donna “fatale”, tipica interprete di film come Il Fuoco e di Tigre reale, ma «una donna altera e ribelle, che apriva la via alle emancipate del Dopoguerra».
Ma vi è di più: dimostrando una notevole ed encomiabile versatilità, la Menichelli s’impegna anche in ruoli comici e brillanti, precisamente ne La Dame de Chez Maxim (1923) e in Occupati di Amelia (1924, ma realizzato nel 1923), che è anche il suo ultimo film.

   Infatti, Pina Menichelli si rende conto che è meglio abbandonare la scena al culmine della carriera, quando è ancora giovane (aveva poco più di trent’anni), piuttosto che intraprendere, come tante altre sue colleghe, il malinconico viale del tramonto: tant’è vero che quando il noto studioso del cinema muto italiano Vittorio Martinelli, all’inizio degli anni Ottanta, riuscì a rintracciarla telefonicamente nel suo “rifugio” milanese, trovò una donna riservata, ostinatamente chiusa nel suo silenzio, che rifiutò qualsiasi incontro, dicendogli che – giunti a una certa età – si aveva solo «il dovere di dimenticare».

GALLERIA FOTO