NINO MARTOGLIO E IL CINEMA MUTO: DALLA “CINES” ALLA “MORGANA FILMS”

Alla fine dell’800 s’avvia in grande stile la carriera artistico-letteraria dell’intrepido “moschettiere” belpassese Nino Martoglio, figlio di un giornalista ex garibaldino. Licenziato capitano di lungo corso dall’Istituto nautico di Catania ed ex mozzo, tornato a terra dopo quattro anni d’errabonda vita marinara, rientrato a Catania nel 1889 fonda la rivista satirico-politico-letteraria “il D’Artagnan”, dalle colonne della quale a dimostrazione d’un fulminante e fatale interesse annunci l’arrivo del cinema nel capoluogo etneo…

    Infaticabile, nel 1901 crea una prima Compagnia Drammatica del Teatro Mediterraneo, dando vita in pratica al teatro siciliano, scrivendo egli stesso a fiotto continuo divertenti pieces teatrali ed esortando, con successo, gli amici scrittori (primo tra tutti Pirandello, ma anche Capuana, Verga, De Roberto, Rosso di San Secondo) a fare altrettanto.

    Entrato in affari con la Cines per la grande casa romana scrive due soggetti cinematografici. Il primo, Il gomitolo nero (1913), che la critica definisce “un dramma sensazionale a forti tint”, dipana la burrascosa odissea di Nina, nata da un matrimonio osteggiato che la madre, scacciata dal padre e rimasta vedova, è costretta ad abbandonare in una casa di maternità. Fuggita da una coppia di mendicanti a cui viene affidata che la costringono ad elemosinare, Nina si nasconde su un peschereccio ben accolta dall’equipaggio. Ma l’imbarcazione naufraga. Raccolta stremata dal giovane Pietro, Nina ritrova la madre risposata, che per l’emozione muore dopo averle donato un gomitolo nero. Insidiata dal patrigno viene segregata in una torre sul mare, chiusa da una porta che si apre solo dall’esterno. Pietro la raggiunge e Nina, impadronitasi della chiave della torre la porge al giovane srotolando il gomitolo nero al cui interno trova il testamento della madre, che la nomina sua erede. Il cattivo patrigno finisce in galera e i due giovani convolano a nozze. Leda Gys (moglie di Gustavo Lombardo fondatore della Titanus e madre di Goffredo), per la prima volta protagonista, interpreta Nina e Amleto Novelli è Pietro; fotografia di Roberto Danesi (secondo altre fonti anche regista), da lì a poco socio e coregista insieme allo stesso Martoglio. Trama altrettanto rocambolesca dispiega il secondo soggetto, Il tesoro di Fonteasciutta, sempre del 1913, di cui resta ignota la regia e del quale si conosce un solo interprete (Augusto Mastripietri), un film con accensioni horror (così ne parla la critica americana). Un vecchio barone ricchissimo e avarissimo viene ucciso accidentalmente da Pietro, il cameriere, che, arrestato, è condannato ai lavori forzati. Le eredi (figlia e nipote) non riuscendo a trovare l’oro e il denaro del barone, sono costrette, succubi d’un usuraio, ad ipotecare la villa ereditata. Pietro intanto salva la figlia del direttore del penitenziario e viene graziato. Tornato alla villa svela il nascondiglio del tesoro, risolvendo guai finanziari e sentimentali.

    Nel 1913 esce anche Il salto del lupo, tratto dal dramma La castellana di Ninfa dello stesso Martoglio, prodotto dalla Cines, di cui però si sconosce la regia (forse dello stesso Martoglio), ma non il soggetto che il belpassese riduce senza indugio per lo schermo. Ambientato nei pressi di Catania, a Torre del Grifo (percepito dalla vulgata come Turuliffu) e interpretato da Amleto Novelli (Giovanni, il “lupo”) ed Enna Saredo (la castellana), il film è la storia d’un uomo coraggioso e leale, amato dalle donne ed ovviamente odiato dagli uomini, segretamente innamorato della bella figlia d’un vecchio barone. Ingiustamente accusato dai compaesani d’aver commesso crimini inesistenti, il poveretto, braccato, si rifugia in una grotta, ma resta intrappolato. La castellana lo raggiunge ed egli, prima di gettarsi nel vuoto, implora gli inseguitori inferociti di salvarla. Poi spicca il salto uccidendosi, sicché da quel giorno quella triste località viene chiamata “il salto del lupo”. Non dissimile da quello, sempre altezzoso, dei letterati del tempo il giudizio di Martoglio su questo cinema melenso e melodrammatico, al quale tuttavia il belpassese si piega prima di rinunciarvi definitivamente nel 1915 pur disprezzandolo profondamente, come risulta da molti suoi articoli sulle riviste del tempo, tra cui L’Argante.

    Promosso velocemente e spavaldamente metteur en scène, Martoglio gira per la Casa di produzione romana Il romanzo (1913), con la già diva messinese Pina Menichelli (Armanda Varaldi) e il semisconosciuto Paolo Sersale (Giorgio Villadoro), “un gentiluomo della buona società partenopea”, Carmine Gallone (qui attore nei panni dell’ing. Varaldi), Soava Gallone (Maria), Augusto Mastripietri (Paolo Farneti), Eduardo D’Accursio (Renzo). Tratto ancora da un soggetto dell’impetuoso belpassese, Il romanzo è il “cine-dramma passionale” di uno scrittore (Giorgio) che riesce a diventare famoso, ma le cui fortune (donna compresa) sono vanamente insidiate da un ex compagno di collegio (Paolo), fallito e invidioso, che (recita la pubblicità della Cines) “andrà incontro a un esemplare castigo” (ogni trasgressione alla morale corrente è sempre punita). Curiosamente, tuttavia, mentre Martoglio inizia a spron battuto la carriera cinematografica, lo stesso non rinuncia a lanciare contestualmente strali acuminati contro l’amato-odiato mondo del cinema – ritenuto fonte di perversione del gusto e in concorrenza con quello del teatro – denunciando anche gli svarioni lessicali delle strapagate “divine” e il non proprio eccelso livello culturale degli attori (Cfr. Il Maggese Cinematografico, Anno I, n. 15).

    Il sodalizio con la Cines dura però l’espace du matin e già nel settembre del 1913 l’inquieto Martoglio – che evidentemente ha già in mente la creazione di una propria Casa di produzione – lasciata la Cines qualche mese dopo fonda una nuova “Morgana Films” con sede a Roma (l’altra fallimentare “Morgana” da lui stesso creata e della quale avrebbe dovuto far parte Angelo Musco, era stata quasi subito abbandonata a Catania). In estate, nel clima effervescente creatosi in quegli anni, si diffonde la notizia che lo stesso Martoglio stia per fondare a Catania una nuova Casa cinematografica. Un altro annuncio appare il mese successivo sul Maggese Cinematografico, che non manca di apprezzare il generoso slancio dello scrittore verso il cinema, che tenta di coinvolgere nella nuovo impresa anche Giovanni Verga.

La “Morgana Films” di Roma

    Le notizie della creazione di una nuova casa cinematografica appaiono qualche mese prima della fondazione Morgana Films di Roma, che ufficialmente nasce di fatto nel gennaio del 1914. Probabilmente falliti i contatti con il “re dello zolfo” catanese, l’industriale Alfredo Alonzo che sta per fondare l’Etna Film, ad evitare perniciose collisioni concorrenziali, Martoglio decide prontamente e accortamente di abbandonare del tutto Catania e trasferire a Roma l’attività produttiva con la quale inizia immediatamente una frenetica quanto brevissima attività. Poco dopo, infatti, prodotto dalla sua Morgana Films romana, il versatile drammaturgo-narratore-poeta-giornalista e ancora regista-soggettista-sceneggiatore dirige il drammatico Il Capitan Blanco (1914, proiettato all’Olympia, distribuito anche in vari paesi europei), in co-regia con il socio Roberto Danesi (“che ha voluto sovrintendere personalmente al lavoro di inscenatura e di ripresa”, ma spesso non ricordato), traendolo dal suo lavoro teatrale drammatico “U paliu” e spostando le location tra il paese rivierasco di Aci Castello, zone limitrofe e la Libia, divenuta due anni prima a coronamento del sogno imperiale di Sua Maestà colonia italiana. Un insostituibile Giovanni Grasso, già accreditato “esponente morale ed estetico della razza siciliana” (il sostantivo “razza”, forse al di la delle intenzioni di chi lo usa, si commenta da sé) nei panni del vecchio lupo di mare Matteo Blanco, che però non sbudella la moglie fedifraga con coltello a serramanico come vuole la tradizione ma la perdona, secondo la stampa ne “resta diminuito dalla sottrazione della parola” con la quale a teatro incanta gli spettatori.

    Grasso-Blanco, tragico ed esagitato, serpente incantatore in teatro, per quanto privo di parola, ma sovraccaricando come si soleva fare nel muto la gestualità, riesce ugualmente a sedurre anche il più numeroso pubblico cinematografico e sulla sua performance gli aggettivi di una parte della critica si sprecano in un impetuoso fiotto di encomi: “strabocchevole”, “impressionante”, “incredibile”. Non tutti però cadono in trance di fronte alla recitazione del “commendatore”. Fuori dal coro c’è anche chi storce il muso perché, a suo dire, il film non inscena “qualcosa di veramente grande, di fortemente siciliano…”. Altri più cautamente ne ammirano i valori naturalistici, compresi quelli nature delle donne. Non siamo lontani da una visione della Sicilia (qui anzi non delle più funeste) terra felix, tutta bollori carnali, effluvi di zagara, selvaggia natura e finalmente perdoni coniugali. Almeno in questo (e non è poco!) Martoglio non asseconda i luoghi comuni e dalla Morgana, che inaugura anche un proprio Teatro e qualche tempo dopo riceve l’attenzione di organi governativi, per bocca di Clemente Levi (indicato come comproprietario) parte anche l’idea di istituire un Museo Cinematografico, presso la Direzione Generale delle Belle Arti, a seguito della visita allo stabilimento del sottosegretario di Stato alla Pubblica Istruzione Rosati, al quale viene offerta una “copia delle films della serie Giovanni Grasso” , appunto quale prima copia della collezione museale.

    Nutrito e gradito l’intero il cast del secondo film martogliano: da Giovanni Grasso (Capitano Matteo Blanco), ai conterranei Virginia Balistrieri (Marta Santoro, la moglie fedifraga), il militellese Totò Majorana (Mauro Saitta), Rocco e Rosalia Spadaro, Micio Quartarone,i catanesi Pietro Sapuppo e Giuseppe Trovato, fino allo stesso Giulio Martoglio, attore non professionista e fratello di Nino. Mutatis mutandis… Insomma, non a caso, il top in assoluto del teatro isolano d’allora, di cui l’intrepido Martoglio ne era stato il fondatore. Alla tragica conclusione teatrale, dove anche Blanco muore, la versione cinematografica contrappone però quella molto più accomodante del perdono di Marta, rimasta comunque accidentalmente gravemente ferita da uno scoppio provocato dall’uomo tradito che comunque, consoliamoci, ammazza il doganiere con cui Marta amoreggia. L’infedele consorte, alla fine redenta da “un’esemplare condotta”, riabbraccia felice l’evangelico compagno e l’unità familiare è ricomposta, ma a scanso d’equivoci il capitano decide di portarla via dal paese natìo. Giovanni Grasso, centro di gravità su cui ruota il film, con comprensibile dolus bonus così viene esibito in una scrosciante nota pubblicitaria(v. Chantecler Siciliano, 1914).

    L’avventura cinematografica martogliana, breve come la sua vita, si concluderà appena l’anno successivo, nel (spesso non citato) 1915, dopo la direzione ancora in co-regia con Roberto Danesi di Sperduti nel buio (1914), forse l’opera più mitizzata del cinema muto italiano, tragica contrapposizione di due classi sociali drammaticamente a confronto, della quale Martoglio appronta una riduzione apprezzata dallo stesso Bracco (definito “l’Ibsen di Piedigrotta”), che ne ha già prontamente ceduto i diritti di trasposizione già l’anno prima, il quale per parte sua prudentemente evita di entrare nel merito dell’esecuzione tecnica “perché di fotografia e cinematografia sono assolutamente ignaro”. Mentre, nonostante l’annuncio dato l’anno precedente, non sarà Martoglio a produrre e dirigere Assunta Spina che nel 1915 verrà realizzato, con grande successo di pubblico, dalla Caesar Film di Roma e diretto da Gustavo Serena (anche attore nei panni di Michele, il fidanzato di Assunta), protagonista Francesca Bertini, non accreditata co-regista come risulta dalle stesse dichiarazioni di Serena. Come è d’uopo, strappalacrime la sinossi di Sperduti nel buio: due derelitti, una povera trovatella ed un cieco, uniscono i propri tragici destini e quando sembra che il ricco e dissoluto padre di lei assalito dal rimorso per averla abbandonata in gioventù, ormai vecchio, stia per ritrovarla.

    Da un dramma dello scrittore, saggista, critico letterario e fotografo Émile Zola, Martoglio porta sul grande schermo (dopo la morte improvvisa e prematura di Danesi nel 1914) Teresa Raquin, sempre del 1914, truculenta storia di sesso sfrenato, sangue e rimorsi nella solita girandola a tre (moglie-marito-amante), ma costruita intorno al personaggio della vecchia paralitica, implacabile accusatrice della nuora e dell’amante colpevoli d’assassinio; interpreti: Dillo Lombardi, Maria Carmi e la grande attrice teatrale Giacinta Pezzana (la madre paralitica), alla sua ultima interpretazione, sepolta per sua volontà ad Aci Castello (Catania) dove ha vissuto gli ultimi anni di vita. Anche Luigi Pirandello, da sempre legato a Martoglio da affettuosa amicizia e da lui sollecitato come altri scrittori (primo tra tutti Verga, il quale però si legherà alla Silentium di Milano), scrive per la Morgana il soggetto Nel segno, che avrebbe dovuto essere interpretato da Giovanni Grasso, ma che non vide mai la luce per la brusca cessazione nel 1916 della Casa cinematografica fondata dal belpassese, dovuta alle sfavorevoli condizioni venutesi a creare con lo scoppio della prima Guerra mondiale, ma altresì dal disgusto del belpassese per il mondo del cinema. Irrealizzate restano altresì le proposte che Luigi Capuana sottopone a Martoglio per la riduzione di Giacinta, Lu paraninfu e varie novelle.

    L’avventura di Martoglio nel cinema si concluderà nel 1917 dopo la produzione di San Giovanni decollato regia di Telemeco Ruggeri, tratto da una suo commedia, con Angelo Musco che sarà strapazzato dalla critica al punto da provocare la rescissione unilaterale del contratto da parte del produttore milanese, conte Alessandro Panzuti e una lunga lite giudiziaria (vicenda di cui si parlerà a parte).

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