NINO MARTOGLIO, DEL TEATRO E DEL CINEMA

Nino Martoglio ebbe tutte le effervescenti qualità di una personalità che fu multipla e trascinante, capace di spaziare in più campi, esempio ante litteram di uomo di cultura e di spettacolo quale sempre più esigono gli odierni multi-media, quanto di vedere cosa effettivamente resta di un autore che la più recente critica tende ad ignorare, sia perché legato a un repertorio piuttosto localizzato, sia perché legato alle prestazioni di alcuni grandi attori del passato.

Ad esser sinceri è più la critica cinematografica oggi a tener conto di Martoglio, grazie a un film mitico come Sperduti nel buio (1914), che quella teatrale. Basterebbe pensare al giudizio di uno storico della statura di Georges Sadoul che ritiene Sperduti nel buio «iI miglior film realistico del cinema mondiale, realizzato alla vigilia della prima guerra mondiale, che sotto diversi aspetti preannunciava il neorealismo». Sadoul ancora – dopo aver lamentato la scomparsa della pellicola dal Centro Sperimentale di Cinematografia, dovuta all’occupazione nazista – osserva che «le fotografie che sopravvivono colpiscono per la loro modernità, la sicurezza dell’inquadratura e la potenza espressiva della loro sobrietà. L’operatore sa sempre cogliere l’essenziale, con un senso perfetto delle espressioni».

Il bilancio positivo di Sperduti nel buio sul piano critico è molto più ampio. Eugenio Ferdinando Palmieri in Vecchio cinema italiano lo ritiene un capolavoro per la sua intensità aspra e notturna e per la recitazione dialettale cruda. E poi Umberto Barbaro, di cui era noto il rigore (quindi niente sospetto per essere figlio della stessa terra) ne elogia le stupefacenti inquadrature, il rilievo plastico, l’assunto etico, la scelta del materiale visivo e soprattutto la prova del montaggio parallelo (nei contrasti che offre la storia), tale da anticipare il Griffith di Intolerance (1916).

Forse per il Martoglio del cinema, autore di tre film: Capitan Blanco (1914), Sperduti nel buio e Teresa Raquin (1915), se si esclude il minore Salto del tempo (1913), girato alla Cines, e i vaghi Il divo, realizzato a Catania nel 1909; e la prima edizione di San Giovanni decollato, girato nel 1917 con Angelo Musco, che non si sa se attribuire a lui o a certo Telemaco Ruggeri, il problema critico non sarebbe molto complicato. Gli sarebbe sufficiente Sperduti nel buio, film-chiave che soprattutto gli storici non si dimenticano mai di citare («Un presagio – sostengono Franco Berutti e Pietro Bianchi nella loro Storia del cinema – che a distanza di trent’anni si sarebbe chiamato neorealismo. Sperduti nel buio gettò una pietra nello stagno e mosse le acque: le onde sono ancora oggi percettibili»).

L’aspetto più complicato resta quello del teatro, dei suoi limiti. Non si può leggere e riflettere la sua produzione drammatica senza legarlo ai suoi attori. Pure il cinema, tutto sommato, gode di tale privilegio se vi si ritrovano, sia in Capitan Blanco che in Sperduti nel buio, elementi a lui legati quali Giovanni Grasso e Virginia Balestrieri. Si capirà a questo punto come il discorso sull’attore sia in Martoglio fondamentale, indipendentemente da tutti gli altri interessi. Non si dimentichi che I’espressione teatrale allora condizionava moltissimo le realizzazioni filmiche. Ne è un esempio I’utilizzazione di un’attrice drammatica come Giacinta Pezzana in Teresa Raquin. «Forse – non hanno difficoltà ad ammetterlo quanti hanno scritto per questo film – se si potesse rivedere Teresa Raquin apparirebbe sotto taluni punti leggermente arcadico, fatto dovuto in special modo alla recitazione. Nelle fotografie appaiono fortissimi i segni delle leggi “teatrali” nell’espressione del gesto; d’altra parte, tutto il cinema europeo a quel tempo peccava di una certa sottomissione alle regole dello spettacolo teatrale».

Una teatralità, comunque, che si ritrova puntuale (ma più per pigrizia che per rispetto della teatralità) nella riduzione filmica delle commedie di Martoglio stesso, restando fedele alla presenza e al rendimento di attori particolarmente umorali. L’aria del continente di Gennaro Righelli, del 1935, fu film legato ad Angelo Musco, che aveva portato al successo la commedia; Il marchese di Ruvolito, del 1939, di Raffaello Matarazzo, fu inteso in funzione di Eduardo De Filippo nella parte del marchese; Troppo tardi t’ho conosciuta, del 1940, di Emanuele Caracciolo (da Il divo) venne visto soltanto in funzione di quell’ottimo attore che era Alfredo De Sanctis; San Giovanni decollato, de1 1940, di Amleto Palermi (che aveva figurato a lungo “cavallo di battaglia” di Angeto Musco) costituì una grande occasione per Totò, che da poco si era avvicinato al cinema; e, infine, Sempre più difficile, del 1943, di Renato Angiolillo e Piero Ballerini, da Sua Eccellenza di Falcomarzano, personaggio che sulla scena era toccato a Ruggero Ruggeri, aveva nobilitato un attore serio e ricco di risorse come Nerio Bernardi.

Martoglio era molto attaccato al teatro come animatore di compagnie (la Mediterranea, in prima fila); come direttore di teatri (il Morgana di Roma, l’attuale Brancaccio, guidato nel 1916); come scrittore; come scopritore di attori e valorizzatore di quei talenti che lo appassionavano in quanto li vedeva come portatori di una vitalità molto siciliana e meridionale. Non si può prescindere da queste sue scelte nel considerare gli aspetti complessivi della sua opera. Così come non si può prescindere dalla sua formazione letteraria e artistica che rimanda a tutto quel che venne espresso tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Se Sperduti nel buio è quel che è (un tono realistico che sembra precedere La via senza gioia (1925) di Pabst, e certe opere del realismo sovietico e del cinema francese tra le due guerre) non è perché Martoglio avesse un concetto rivoluzionario del cinema, oppure ne volesse anticipare gli sviluppi, ma semplicemente perché attaccato ai modelli del verismo letterario e dialettale allora imperante, anche se tutto questo, forse inconsapevolmente, finiva con il collimare con la scoperta del film documentario e d’attualità: un gusto, dunque, per la verità, gli ambienti e i personaggi reali, espressi, appunto, nel film a soggetto.

Era la scuola di Verga, di Capuana, di Bracco (a quest’ultimo Sperduti nel buio attinge, riducendone la commedia), sulla cui influenza non ci son dubbi, e riscontrabile pure quando la produzione di Martoglio non va al di là del caricaturale o del bozzettistico.

Si pone, come altri film di quel periodo (Assunta Spina di Serena, le pellicole di Za -la-mort), nell’ambito di un realismo di, fondo, in posizione nettamente antitetica al dannunzianesimo e al filone storico dominante (vedi Quo vadis, Cabiria, Ultimi giorni di Pompei e simili). «Era uno scontro – ricorda Carlo Lizzani nella sua Storia del cinema italiano – tra le due correnti culturali che allora predominava nel paese: il dannunzianesimo e il verismo. Ma esso venne offuscato fin dall’inizio perché la scuola verista non riuscì ad esercitare nel cinema italiano un’influenza così determinante come quella dannunziana anche perché il duello era stato già deciso in partenza».

Altra considerazione da fare, e che rimanda alle radici, è che i pochi film veristi (tipo Sperduti nel buio e Teresa Raquin) durano più degli altri nel tempo, a dimostrazione del maggior calore umano che essi contengono, quasi la verità stessa dei loro autori pazientemente ingenuamente cercata negli ambienti più nudi e toccanti, lasciando un’impronta che tuttora ci scuote.

In contrasto con D’Annunzio, Martoglio dava la descrizione degli ambienti sordidi, dei bassi napoletani con un amore per le scrostature, per i segni sui muri, per gli acciottolati, per i capelli neri, grassi e untuosi, per le cotonine dei vestiti che anticipava il realismo più evoluto dei mezzi.

Si tratta di opere che si distinguono dallo spirito della cinematografia di allora, e si possono elevare a simbolo di una produzione tutta diversa. Tuttavia il loro fondo, come spesso la critica ha rilevato, è talvolta espressione di una commedia dialettale e paesana alla quale il nostro realismo di allora si compiaceva di appartenere, costituendone una debolezza assai vistosa in quanto non approdava a nessuna opera veramente consistente. E tuttavia bisognerebbe andarci cauti, non accodandosi a quelle storie del teatro che non fanno riferimento a Martoglio (se ne potrebbe citare più d’una); o che si accontentano di poche righe.

Tale cautela nasce dalla valutazione del teatro italiano di quegli anni – che ritengo particolarmente futile – che si muoveva molto tra naturalismo, bozzettismo, verismo e dialetto. Un panorama, tutto sommato, se confrontato al repertorio italiano di oggi, abbastanza prolifico e autentico per il quadro d’assieme che sapeva dare. La questione che stava a cuore ai nostri autori era linguistica, di osservazione della realtà, la voglia di cogliere situazioni e personaggi caratteristici. Per cui non si può escludere Martoglio, se al tempo stesso si ammette Bersezio con il piemontese Signor Travet, Ferravilla e Bertolazzi con i loro umori lombardi, Simoni con il suo pittoresco veneto, la Serao, Di Giacomo con la napoletanità che si portano dietro, Monaldi e Jandolo con i toscanismi, Testoni con i suoi sapori bolognesi, e così di questo passo.

II naturalismo della tradizione meridionale c’era nel teatro e nei film di Martoglio non senza motivi, in un quadro storico e sociale contrapposto alla retorica nazionale che già faceva le sue vittime. L’unità d’Italia era stata realizzata da poco, ma gli scrittori difendevano il senso quotidiano della vita, la misura dell’uomo nelle piccole cose, a costo di apparire regionali o locali. Era il segno di una vitalità espressiva che oggi è andata in gran parte perduta. Certamente Martoglio aveva intuito questa strada non solo per il teatro: il suo cinema, se non ci fosse stato il fallimento della Morgana Film, avrebbe forse riservato altre sorprese (lo scioglimento della società, val la pena di annotare, non avvenne perché l’indirizzo fosse sbagliato ma perché il suo produttore Roberto Danesi venne richiamato alle armi e morì in guerra). Si sa che Martoglio aveva in programma tutta una serie di film a carattere realistico, e a questo programma rispose anche Luigi Pirandello proponendo alcuni testi minutamente compiuti e sceneggiati, di cui poi non si farà più nulla per il fallimento della casa siciliana. Lasciando da parte il realismo minuzioso di Sperduti nel buio, non bisogna dimenticare che il centro emotivo non è propriamente Napoli (i cui esterni giocano certamente un ruolo drammatico importante), bensì la recitazione di Giovanni Grasso nel ruolo di “Nunzio”.

«La cecità di “Nunzio” – scriveva Roberto Bracco -simboleggia il buio sociale in cui si perde, inutile anche la forza fisica degli esseri umani, ignari, abbandonati a se stessi. È un discorso che riporta all’attore nel rapporto voluto da Martoglio con i suoi attori. Anche quando chiamò Giacinta Pezzana a fare Teresa Raquin, che l’aveva impersonato sulle scene, era evidente il passaggio dalla continuità fisica della tradizione teatrale ottocentesca in forma cinematografica. È un caso esemplare, che però non deve far dimenticare i meriti del film che, a detta di diversi critici, sono strabilianti in quanto precorre, nel modo metafisico con cui sono mostrati alcuni particolari, gli espressionisti tedeschi. La sensibilità di Martoglio nel creare e comporre l’ambiente rivela una sicurezza e un’abilità che gli permette di poter essere considerato un vero precursore della scenografia cinematografica.

Ma, pur considerando queste ed altre cose, f,’elemento attore appare decisivo. Nessuno meglio di Martoglio avrebbe potuto adoperarlo in un momento in cui il film era ancora muto. Eppure il Grasso di Sperduti nel buio è una delle prove più convincenti che un attore di teatro abbia mai offerto sullo schermo. Al verismo perseguito con estremo rigore, Grasso reca un contributo persuasivo nell’acre, corrusco disegno del cieco brancolante fra squallide ombre, personaggio patetico e ossessivo, davvero indimenticabile.

Un confronto casomai, se fosse possibile, andrebbe fatto allorché Musco, con Marinella Bragaglia, con una propria compagnia, recitò Sperduti nel buio, al punto da impressionare lo stesso Bracco (interpretazione che Musco poi non riprese più e che quindi restò del tutto ignota a chi dopo la guerra 1915-18 giudicò Musco comico trascinato a strafare dall’idolatria delle platee).

Che ci fosse un rapporto tutto speciale, quasi un fluido magnetico, fra Martoglio e i suoi attori sono in molti ad asserirlo. Quando nell’immediato dopoguerra, nek 1945, Camillo Mastrocinque ripropose il remake di Sperduti nel buio, con Vittorio De Sica, non doveva essere la stessa cosa.

L’espressività di Giovanni Grasso, che con la sua potenza fa pensare a un EmiI Jannings, era leonina. Non c’entrava la bravura o meno di De Sica, ma il diverso rapporto che Martoglio aveva con i suoi attori che era trascinante, come se il linguaggio dei pupari e del loro capo venisse metaforicamente a trasferirsi da una tragicommedia guitta a una tragicommedia più raffinata.

Se un merito va dato a Martoglio, come capo di ideali “pupi” (vi si aggiungono tanti nomi: Virginia Balistrieri, Mimi Aguglia, Rocco Spadaro, e quanti fecero parte della gloriosa “Mediterranea”) è l’aver capito in pieno l’esplosività dei suoi attori, a cominciare da Musco; e Ia sicura vena impulsiva e semplice di Giovanni Grasso. L’aver, insomma, capito le possibilità del teatro siciliano attraverso i suoi attori. Non solo attraverso i più famosi e dotati, ma a che attraverso altri elementi quali la Campagna, Viscuso, Lo Turco, Majorana, Sapuppo, Arcidiacono, ognuno con la sua relativa famiglia, tutti bravi, volenterosi, affiatati.

Persino Antonio Gramsci nelle sue cronache teatrali torinesi li elogiava, gli piaceva I’atmosfera convulsa de L’aria del continente per il gioco frenetico, il clima di follia, che sapeva imprimergli Musco.

Gramsci non era preso soltanto dal tono esilarante, portato al parossismo. C’erano lavori come Scuru, che sembra fatto apposta per ricordare il cieco di Sperduti nel buio. Il tema era quello della cecità, una minaccia che nella commedia era trattata come immanente per migliaia e migliaia di vite. «Di fronte a questo lavoro – scriveva in Letteratura e vita nazionale – il nostro animo risente dell’arte semplice di Musco e di Pandolfini. Essi soli danno al fatto una soggettività, I’unica che in questo caso può avere il brivido corporale, la maschera della tragicità».

Nel constatare di quale forza fosse un attore con Martoglio sarà non superfluo rileggere un’intervista a Il Mattino di Napoli di Roberto Bracco (il quale, come si sa, odiava il cinema), subito dopo la “prima” di Sperduti nel buio: «Nino Martoglio ha avuto un criterio – disse – il quale prescinde da ogni preconcetto convenzionale e da ogni timidezza imposta dalla grande massa del pubblico. In Martoglio ha agito principalmente I’esperienza dell’autore drammatico. Egli ha liberato I’interprete dai pericoli del mutismo stilizzato e ha dato a tutta I’azione un’impronta eminentemente umana».

Bracco fu ancora più lusinghiero nell’aggiungere: «Io non so come si faccia. Posso dire che a me medesimo pareva quasi di sentir parlare quella gente. La veridicità stessa d’una plastica spontanea, vivida, determinata nei sentimenti e nelle passioni e non da una premeditazione scenografica, produceva presso a poco l’illusione della parola pronunciata». 

Bracco escludeva che il metodo Martoglio potesse essere adatto a qualunque interprete cinematografico. «Ah, no – spiegava – egli ha avuto a sua disposizione degli interpreti che potevano assecondarlo. La parte del cieco, ad esempio, è stata affidata a Giovanni Grasso, magnifico, imponente, che con le sue spalle quadrate, il suo braccio d’acciaio, le sue vene piene di sangue, risulta ancor più angoscioso, più pietoso, più significativo nell’incubo della cecità che l’opprime fisicamente e socialmente».

Credo che il riconoscimento migliore che si possa fare a Nino Martoglio, specie in un momento come l’attuale in cui in teatro viene rivalutato il “grande attore”, è la valorizzazione che egli ha fatto dell’attore, affrontandolo in un rapporto che Io vedeva di volta in volta autore, impresario, suggeritore, direttore artistico, regista, non tradendo mai però l’equilibrio che riusciva a stabilire con esso. È una lezione che in genere si tende a trascurare, ma le cui tracce sono molto più forti di quel che appaia. Senza cadere negli equivoci che potrebbero far pensare a un commediante dell’Arte in chiave siciliana, è un rapporto che meriterebbe di essere approfondito e visto nelle sue dimensioni, al di là di quelli che possono essere i limiti delle sue commedie, di certo suo bozzettismo (il cinema più recente lo ha ormai dimenticato del tutto, servendosi in un film Virilità (1974) di Paolo Cavara, protagonista Turi Ferro, soltanto come spunto; la televisione ha allestito in trent’anni soltanto due o tre sue commedie. Si deve solo al Teatro Stabile di Catania e alle compagnie popolari del suo hinterland se le sue commedie qualche volta sono tornate agli onori della ribalta.

Per molti storici e critici Martoglio è come se non fosse mai esistito. Arduo trovarne tracce plausibili. Per cui vien voglia andarsi a rileggere quel che scrisse Vincenzo Cardarelli dopo una “prima” romana, al tempo in cui era cronista teatrale. «La fantasia di Nino Martoglio – diceva il poeta di Tarquinia – forse il più spontaneo e curioso commediografo che abbia oggi il teatro siciliano, non è mai scevro d’un certo contenuto di osservazioni e di salaci ironie morali, che in lui si manifestano, ciò ch’è importante, con la massima naturalezza, senza eccessive pretensioni speculative. È un amatore e conoscitore della propria terra, ma mette in questo amore e in questa conoscenza lo spirito sufficientemente disinteressato e gaudente di un epicureo di provincia che osservi le piccole cose e gli uomini del suo paese stando a sorseggiare il caffè dietro il balcone della sua casa. Ne fa un argomento di riso, un’aneddotica spiritosa e, in fondo, bonaria. Non pretende di dimostrare nulla: qui sta il buono. Giacché di lui si può dire che conosce gli uomini, la loro malizia, e insomma i loro segreti di famiglia, ma proprio come un vecchio notaio di paese. E allora nel raccontarne le marachelle, nel metterne in rilievo la comicità, nell’istradare il forestiero alla divertente conoscenza dei “tipi” che vivono all’ombra del suo campanile, la sua arte è di vena e la sua convenzione quanto mai preziosa. Con lui, se fossimo mandati, per un caso fantastico, pretori in qualche paesello della provincia di Catania, si passerebbero delle lunghe sere beate al Circolo a ragionare di questo o di quello, a riposarsi in quelle oneste maldicenze di provincia che fanno la vita agiata e rinnovano il sangue. E poi magari si finirebbe, perché le cose dette non varrebbero la pena di rifletterle troppe, con una partita di carambola».

Se questo è quello che si può dire delle sue commedie più sincere e affettuose (Cardarelli parlava di Contraveleno), noi possiamo dire che la vera natura di Martoglio vive attraverso i suoi attori, sia in teatro che sullo schermo: un rapporto intrecciato, fatto di amore e di passione per il teatro e per la sua tradizione, senza sofismi o fini dialettici, ma con la febbrile naturalezza che egli professava in ogni ramo di attività che intraprendeva con febbrile attivismo. L’eventuale pubblicazione del corpus delle sue opere, che si spera in forma unitaria e critica, che non può non solo ignorare questo rapporto, ma dovrà circoscriverlo e analizzarlo in tutte le sue componenti.

ETTORE ZOCARO

Redazione, 27 ottobre 2019

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