Nino Martoglio ebbe tutte le effervescenti qualità di una personalità che fu multipla e trascinante, capace di spaziare in più campi, esempio ante litteram di uomo di cultura e di spettacolo quale sempre più esigono gli odierni multi-media, quanto di vedere cosa effettivamente resta di un autore che la più recente critica tende ad ignorare, sia perché legato a un repertorio piuttosto localizzato, sia perché legato alle prestazioni di alcuni grandi attori del passato.
A chi, della mia età, legge o rilegge Il riso di Bergson, si dispiega un ventaglio d’immagini che sono in minima parte memoria di situazioni e personaggi della vita reale, ma quasi tutte appartengono al mondo dello spettacolo teatrale e cinematografico e trovano, nel saggio di Bergson, una quasi indefettibile evocazione. In prevalenza sono evocazioni mute, di quando il cinema non parlava o di quando, pur disponendo della parola, il comico continuò – e continua – a consistere soprattutto negli atteggiamenti, nei movimenti, nei gesti di un essere umano e «in quell’esatta misura in cui tale essere appare simile a un meccanismo».
Nino Peralta (Giuliano Gemma), marito di Lucia (Eleonora Giorgi) e padre di due ragazzi, è gestore di un chiosco-bar nei pressi della Cattedrale di Palermo. Un giorno, messo sull’avviso dell’anziano socio Sebastiano Colicchia (Tano Cimarosa), s’accorge d’essere pedinato da un certo Platamone (Michele Placido), probabile sicario a pagamento.
Il bell’Antonio di Mauro Bolognini usciva al cinema 60 anni fa. L’omosessualità vista come una maledizione, una condanna, un marchio infamante, una vergogna sociale da cui nascondersi. Questo sopratutto nel meridione della penisola,, della Sicilia, in una delle sue città più importanti, la Catania degli inizi anni ’60.
Una complessità di rapporto che a sua volta riflette la natura stessa dell’arte di Brancati, autore solo in apparenza facile e di piana interpretazione, ma ricco, in realtà, di un mondo di difficile penetrazione, nel quale la celebrata “solarità” mediterranea – luogo comune del quale sarebbe tempo di fare giustizia – fa spesso da scherno ad un oscuro sentimento di morte, e l’ironia è il risvolto di un’amara consapevolezza, rifugio frequente di una visione del mondo disincantata e pessimistica.
Cinquanta anni fa, in piena age d’or di quel particolare genere cinematografico poi ribattezzato cinema “a luci rosa”, usciva nelle sale Malizia (1973) la più celebre delle commedie erotiche “siciliane”, regia di Salvatore Samperi, ex enfant terribile del cinema italiano, veneto d’origini isolane, che ormai lasciati cadere gl’intenti scopertamente bellicosi e protestatari dei primi film per occhieggiare sfacciatamente i moduli ammiccanti del mercato, riesce tuttavia a mantenere in quest’opera una certa qualità d’analisi e una finezza psicologica, puntando soprattutto su una sensualità provocatoria, sapientemente esibita da una morbida e carnale Laura Antonelli, rivelatasi alla fine la vera carta vincente del film.
Arrampicata sulla scaletta in reggicalze e vestaglietta ancillare, voce leggermente arrochita, quel “viso d’angelo su un corpo da peccatrice”, nonostante l’aspetto domestico e (apparentemente) dimesso, Laura Antonelli fulminò e stregò il popolo delle sale nazionali (cinefili compresi) che la elesse musa incontrastata d’un erotismo casereccio, di chiara derivazione brancatiana e pattiana, tanto più pruriginoso e peccaminoso in quanto vissuto e consumato nel chiuso delle pareti domestiche, tra voyeurismi trattenuti, buchi di serratura, fruscìi e docce galeotte. Melange di eterne fantasie sessuali – materializzate nella bellezza “desiderabile e ingannevole” dell’Antonelli che, come scrisse Rodolfo Sonego (fetish degli sceneggiatori di Alberto Sordi), “poteva far perdere la testa a qualsiasi uomo l’avesse incontrata” – Malizia scalò rapidamente la vetta del box-office, incassando 6 miliardi di lire del tempo e portando alle stelle il cachet della bella istriana (è nata a Pola nel 1941, da una famiglia di sfollati slavi), da allora “diva” indiscussa, “divina creatura”, prepotentemente entrata nell’empireo del rutilante mondo del cinema e subito protagonista di quella dolce vita fracassona e spocchiosa, fatta di ricchezza esibita, amorazzi da rotocalco, auto veloci, capricci e scaldaletti da cronaca rosa. Eterna fascinazione dei divi.
Il passaporto della celebrità resterà per lei sempre, quel sempre umano fatto di piccole immortalità, l’ormai cult Malizia. Ambientato nella Catania degli anni ’50, sebbene la città ne resti scenograficamente quasi assente (molto più visibili e riconoscibili i luoghi di Acireale), il film di Samperi narra la storia della contorta iniziazione sessuale d’un adolescente catanese, Nino (Alessandro Momo) che morbosamente si oppone al nuovo matrimonio del padre, rimasto vedovo, con Angela La Barbera, bella e giovane fantesca di casa, almeno finché questa non sarà stata sua. Riuscirà a goderla in una notte piena di pioggia e finalmente darà via libera alle nozze, pronunciando finalmente la parola “mamma”. L’opera non manca di micidiali tirate demolitorie contro l’istituto familiare, esaminato però nell’ambito di un contesto siciliano troppo scontato, convenzionale, riportato alle solite formule ridanciane attuate da un cinema mainstream, manifestamente di cassetta.
“L’esordio divistico” di Laura Antonelli (Antonaz all’anagrafe), già in pubblicità televisiva nei primi anni sessanta, poi nei fotoromanzi e infine, spesso nuda, nel cinema (dal Magnifico cornuto, 1964, di Antonio Pietrangeli, fino al Merlo maschio, 1971, di Pasquale Festa Campanile) coincide con il definitivo consolidamento cinematografico del catanese Turi Ferro (nei panni di Ignazio La Brocca), consacratosi con quest’opera attore di larga presa sul pubblico nazionale. Suadente e coinvolgente l’ormai celeberrima colonna sonora di Fred Buongusto, diventata presto un hit. Avviata ormai verso successi di botteghino Laura Antonelli “riscoperta” da Malizia (nello stesso anno girerà anche Sessomatto, regia di Dino Risi, quindi per tutti gli anni 70’ e ’80 il cinema riprenderà ininterrottamente lo sfruttamento intensivo del suo corpo), corteggiatissima (anche dai più bei nomi dell’autorialità registica degli anni ’70) bella tra le belle, dopo aver acquistato un superattico in via Campo Marzio, vive – all’indomani di un matrimonio fallito con l’antiquario Piacentini, sposato a 24 anni – una lunga stagione d’amour fou (circa nove anni) con il divo francese Jean-Paul Belmondo, che per lei abbandona l’aggressiva Ursula Andress. Le pagine dei rotocalchi tracimano della nuova travolgente love-story vissuta tra Francia e Italia, aerei trasformati in momentanee alcove, jet-set.
Poi l’inizio della fine. Le apparizioni della “diva” cominciano a diradarsi e acquistata una villa grandiosa, isolata, lontana da Roma, a Cerveteri, intervistata comincia a rilasciare dichiarazioni inquietanti, scoprendo un animo tormentato, trafitto d’angosce impalpabili, una specie di male di vivere che pian piano la estranea, l’assorbe in una spirale di solitudine. Finché la notte del 27 aprile 1991 i carabinieri piombano nella villa nel bel mezzo di una festa. Alcool, droga. Lei stessa, si dice, allucinata e stordita accompagna il maresciallo fino ad un vassoio ricolmo di cocaina (36 grammi, pari a 162 dosi, per un valore di 9 milioni del tempo). Il tribunale è impietoso e le infligge una condanna, in primo grado, di 3 anni e 6 mesi. Finisce nel centro di igiene mentale di Civitavecchia. Infine una tardiva assoluzione dal reato di spacciatore: viene riconosciuta soltanto tossicomane, reato derubricato dalla legge italiana. Intempestiva e pressoché inutile riabilitazione, dopo un insopportabile accanimento mediatico. Ma il crudele calvario è appena all’inizio. Sfruttando la grancassa battuta dai media, la bailamme creatasi intorno al caso della “diva” caduta fino al disonore delle patrie galere, succulenta preda della gogna mediatica, lo stesso anno Salvatore Samperi tentando un’impossibile riesumazione delle glorie passate pensa di replicare, in una sorta di serial d’erotismo invecchiato e stantìo, l’insuperato Malizia. Stanco, anacronistico e catastrofico prosieguo del celeberrimo precedente, lo iellatissimo Malizia 2000 (1991) – pressoché interamente girato a Villa Di Bella, in territorio di Viagrande – si rivela un tonfo e finisce sequestrato al centro d’una clamorosa vicenda giudiziaria. Tentando di rivitalizzarne la bellezza sfiorita, l’Antonelli viene sottoposta ad un lifting devastante. Pericolosamente ringiovanita dal trattamento cosmetico il suo viso si deturpa per oltre un anno. Il film viene ritirato dalle sale. La rentrée della star nazionale si trasforma in debacle. Alla fine in appello, solo nel 2007, dopo una fluviale e controversa vicenda giudiziaria durata oltre 13 anni, le verrà riconosciuto un risarcimento di poco superiore a 100.000 euro.
Una specie di maledettismo incombe sinistro. Alessandro Momo, protagonista nel ’73 del primo episodio, muore in un incidente d’auto l’anno successivo. Laura Antonelli “muore” virtualmente dopo aver girato il grottesco prosieguo dell’irripetibile Malizia. Perfino Samperi chiude con il cinema passando alla televisione. Abbandonata da tutti (tranne da qualche amico sporadico, tra cui Lino Banfi), imbottita di psicofarmaci e alcool, Laura Antonelli, irriconoscibile, blindata al mondo esterno, vivrà per anni nel più totale anonimato, sostenuta da una misera pensione in preda ad un costante misticismo: preghiere, letture sacre, chiesa, mentre il suo splendido corpo si dilata a dismisura, fino a pesare più di un quintale. Lei stessa, ormai in preda a delirio mistico, rifiuta l’applicazione della legge Bacchelli, che prevede un aiuto economico agli artisti. La bellissima Laura comincia a distruggere tutto ciò che può del suo passato, rifiutandolo in toto. L’infelice destino della “donna più bella dell’universo” – come la definì Visconti quando lei interpretò L’innocente (1976) – sembra prefigurato da quel clima decadente e malato tipico dell’ultimo Visconti, che l’allora bellissima Laura contribuì a rendere perversamente seducente, arricchendolo d’un fascino impastato di sensualità rattenuta ed improvvisi soprassalti carnali, che nessuna attuale palestratissima maggiorata al silicone riesce ad evocare. Muore d’infarto, a Ladispoli a 73 anni, il 22 giugno del 2015.
Entrambi nativi di Palermo, i primi vagiti artistici di Daniele Ciprì (1962) e Franco Maresco (1958) del duo Ciprì e Maresco risalgono alla fine degli anni Ottanta con la trasmissione Interno notte (1989) ideata dagli stessi Ciprì e Maresco e da Umberto Cantone, in onda sull’emittente palermitana TVM – TeleVideoMarket. Dall’incontro nascerà il sodalizio che darà vita a Cinico TV (1992-1996). Una sperimentazione pionieristica di forte innovazione del linguaggio televisivo che nell’esasperare l’approccio giornalistico divenne inatteso precursore nei nostri tempi mediatici sullo sfondo di una Sicilia desolata e desolante, maschilista e arretrata, dipinta di un poetico e sgraziato bianco e nero.
L’occhio registico di Ciprì e Maresco, giovane ma già dalla corposa visione, si permea di un orrore involontario ma puro nel dar vita a uno spettacolo osceno malinconicamente comico di emarginazione e sofferenza; incapacità di reagire e accettazione passiva della propria condizione. Uomini agli angoli più remoti della società siciliana semi-analfabeti, freaks deliranti, illogicamente (dis)umani, che contribuirono a dare a Cinico TV un fascino tutto suo, unico e originale, indelebile al mutare del tempo, così da incastonarlo tra le gemme audiovisive del suo tempo. Con Cinico TV Ciprì e Maresco si fecero notare. Approdarono prima nelle reti Fininvest col programma Isole comprese, poi in Rai con Blob e Fuori Orario. Cose (mai) viste, realizzando infine preziosi cortometraggi che trovarono il proprio apice produttivo-artistico nel proficuo 1992 di Variazioni in collaborazione con Amos Gitai, Il corridore della paura con Samuel Fuller e Martin a little con Martin Scorsese.
Le atmosfere di Cinico TV furono fonte d’ispirazione anche per i primi passi cinematografici del duo palermitano. È del 1995 infatti quel Lo zio di Brooklyn la cui a-linearità intrisa di pernacchie, atti sessuali tra contadini e asine, nani mafiosi e una Palermo distopica e apocalittica, seppe consolidare l’immaginario registico di Ciprì e Maresco nel suo alone onirico dal sapore surreale. Tre anni dopo fu la volta de Totò che visse due volte, il capolavoro del duo dalle atmosfere grottesche non dissimili dal critico (e cinico) predecessore, nonché clamoroso caso mediatico. Per la Censura infatti Totò che visse due volte era un’opera che non poteva e non doveva arrivare nelle sale cinematografiche. L’accusa rivolta al racconto episodico di Ciprì e Maresco era di vilipendio alla religione e tentata truffa. Ma ciò su cui la Censura puntò il dito rappresentò in realtà il riflesso allegorico di una narrazione escatologica trasudante materialismo e un nichilismo ora nietzschiano nella misura della morte di Dio, ora dostoevskiano in relazione al male di vivere degli uomini soffocato violentemente dalle loro stesse azioni; o per dirla con le parole degli stessi Ciprì e Maresco.
“È il sentimento di chi si sente abbandonato. Di un’umanità affranta che sente la mancanza di Dio”.
Dal processo il duo ne uscì indenne ma la Censura lo vietò ai minori di 18 anni. Un divieto irresistibile per Ciprì e Maresco che arrivarono a definirlo una vittoria:
“Ci avevano chiesto di alleggerire un paio di scene, soprattutto quella in cui appare la Madonna con le natiche nude. Ma noi, insieme all’avvocato Calvi e al produttore, abbiamo detto un secco no. Ci sembrava assurdo che un adulto, che so, Norberto Bobbio o il presidente Scalfaro, non potessero vedere interamente la nostra opera. Noi non siamo degli autori cinematografici come gli altri, siamo davvero fuori dall’industria. Noi facciamo quello che vogliamo e poi ne discutiamo. Del resto non abbiamo mai avuto problemi né quando lavoravamo con la Rai né quando abbiamo fatto questo film”.
Gli anni Novanta di Ciprì e Maresco si chiusero con Intervista a Mario Monicelli (1998), F. (1999) in collaborazione con Peter Bogdanovich, il documentario semi-biografico Enzo, domani a Palermo! (1999) sulle vicende giudiziarie dell’operatore cinematografico Enzo Castagna, nonché una doppia ode d’amore al jazz di Duke Ellington e alle sue sonorità tra Noi e il Duca – Quando Duke Ellington suonò a Palermo e Steve Plays Duke (1999) con protagonista il sassofonista Steve Lacy.
Gli ultimi lavori del duo risalgono ai primi anni Duemila con il surreale e sognante mockumentary meta-cinematografico dal titolo Il ritorno di Cagliostro (2003) ma soprattutto con il toccante omaggio a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia del duo comico Franco e Ciccio dal titolo Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio (2004). Mescolando materiale di repertorio degli archivi Rai a sketch comici e siparietti alla maniera di Cinico TV, con Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio Ciprì e Maresco unirono a uno stile documentaristico rodato, gag dalle venature nostalgiche avvalendosi perfino della partecipazione di personalità come Tatti Sanguineti, Pippo Baudo, Lino Banfi, Lando Buzzanca e Bernardo Bertolucci.
Un ultimo sussulto degnamente celebrato nella Menzione speciale al premio Pasinetti alla 61° Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che scrisse la parola fine a un sodalizio artistico ventennale artisticamente impareggiabile capace di cambiare per sempre – e come nessun altro – la percezione del cinema siciliano in Italia e nel mondo. Di lì in avanti Ciprì e Maresco sono tornati ad essere Daniele Ciprì e Franco Maresco. Non più quindi un’unica, inseparabile, entità registica, ma due voci autoriali indipendenti e non più compenetranti che tra È stato il figlio e La buca (Ciprì), e Belluscone – Una storia siciliana e La mafia non è più quella di una volta (Maresco) continuano a viaggiare come due rette parallele nell’involontario orrore sociale tra fiction e realtà.
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