MEZZO SECOLO DI “MALIZIA”: L’ULTIMA DIVA DEL CINEMA ITALIANO

Cinquanta anni fa, in piena age d’or di quel particolare genere cinematografico poi ribattezzato cinema “a luci rosa”, usciva nelle sale Malizia (1973) la più celebre delle commedie erotiche “siciliane”, regia di Salvatore Samperi, ex enfant terribile del cinema italiano, veneto d’origini isolane, che ormai lasciati cadere gl’intenti scopertamente bellicosi e protestatari dei primi film per occhieggiare sfacciatamente i moduli ammiccanti del mercato, riesce tuttavia a mantenere in quest’opera una certa qualità d’analisi e una finezza psicologica, puntando soprattutto su una sensualità provocatoria, sapientemente esibita da una morbida e carnale Laura Antonelli, rivelatasi alla fine la vera carta vincente del film.

Arrampicata sulla scaletta in reggicalze e vestaglietta ancillare, voce leggermente arrochita, quel “viso d’angelo su un corpo da peccatrice”, nonostante l’aspetto domestico e (apparentemente) dimesso, Laura Antonelli fulminò e stregò il popolo delle sale nazionali (cinefili compresi) che la elesse musa incontrastata d’un erotismo casereccio, di chiara derivazione brancatiana e pattiana, tanto più pruriginoso e peccaminoso in quanto vissuto e consumato nel chiuso delle pareti domestiche, tra voyeurismi trattenuti, buchi di serratura, fruscìi e docce galeotte. Melange di eterne fantasie sessuali – materializzate nella bellezza “desiderabile e ingannevole” dell’Antonelli che, come scrisse Rodolfo Sonego (fetish degli sceneggiatori di Alberto Sordi), “poteva far perdere la testa a qualsiasi uomo l’avesse incontrata” – Malizia scalò rapidamente la vetta del box-office, incassando 6 miliardi di lire del tempo e portando alle stelle il cachet della bella istriana (è nata a Pola nel 1941, da una famiglia di sfollati slavi), da allora “diva” indiscussa, “divina creatura”, prepotentemente entrata nell’empireo del rutilante mondo del cinema e subito protagonista di quella dolce vita fracassona e spocchiosa, fatta di ricchezza esibita, amorazzi da rotocalco, auto veloci, capricci e scaldaletti da cronaca rosa. Eterna fascinazione dei divi.

Il passaporto della celebrità resterà per lei sempre, quel sempre umano fatto di piccole immortalità, l’ormai cult Malizia. Ambientato nella Catania degli anni ’50, sebbene la città ne resti scenograficamente quasi assente (molto più visibili e riconoscibili i luoghi di Acireale), il film di Samperi narra la storia della contorta iniziazione sessuale d’un adolescente catanese, Nino (Alessandro Momo) che morbosamente si oppone al nuovo matrimonio del padre, rimasto vedovo, con Angela La Barbera, bella e giovane fantesca di casa, almeno finché questa non sarà stata sua. Riuscirà a goderla in una notte piena di pioggia e finalmente darà via libera alle nozze, pronunciando finalmente la parola “mamma”. L’opera non manca di micidiali tirate demolitorie contro l’istituto familiare, esaminato però nell’ambito di un contesto siciliano troppo scontato, convenzionale, riportato alle solite formule ridanciane attuate da un cinema mainstream, manifestamente di cassetta.
“L’esordio divistico” di Laura Antonelli (Antonaz all’anagrafe), già in pubblicità televisiva nei primi anni sessanta, poi nei fotoromanzi e infine, spesso nuda, nel cinema (dal Magnifico cornuto, 1964, di Antonio Pietrangeli, fino al Merlo maschio, 1971, di Pasquale Festa Campanile) coincide con il definitivo consolidamento cinematografico del catanese Turi Ferro (nei panni di Ignazio La Brocca), consacratosi con quest’opera attore di larga presa sul pubblico nazionale. Suadente e coinvolgente l’ormai celeberrima colonna sonora di Fred Buongusto, diventata presto un hit. Avviata ormai verso successi di botteghino Laura Antonelli “riscoperta” da Malizia (nello stesso anno girerà anche Sessomatto, regia di Dino Risi, quindi per tutti gli anni 70’ e ’80 il cinema riprenderà ininterrottamente lo sfruttamento intensivo del suo corpo), corteggiatissima (anche dai più bei nomi dell’autorialità registica degli anni ’70) bella tra le belle, dopo aver acquistato un superattico in via Campo Marzio, vive – all’indomani di un matrimonio fallito con l’antiquario Piacentini, sposato a 24 anni – una lunga stagione d’amour fou (circa nove anni) con il divo francese Jean-Paul Belmondo, che per lei abbandona l’aggressiva Ursula Andress. Le pagine dei rotocalchi tracimano della nuova travolgente love-story vissuta tra Francia e Italia, aerei trasformati in momentanee alcove, jet-set.

Poi l’inizio della fine. Le apparizioni della “diva” cominciano a diradarsi e acquistata una villa grandiosa, isolata, lontana da Roma, a Cerveteri, intervistata comincia a rilasciare dichiarazioni inquietanti, scoprendo un animo tormentato, trafitto d’angosce impalpabili, una specie di male di vivere che pian piano la estranea, l’assorbe in una spirale di solitudine. Finché la notte del 27 aprile 1991 i carabinieri piombano nella villa nel bel mezzo di una festa. Alcool, droga. Lei stessa, si dice, allucinata e stordita accompagna il maresciallo fino ad un vassoio ricolmo di cocaina (36 grammi, pari a 162 dosi, per un valore di 9 milioni del tempo). Il tribunale è impietoso e le infligge una condanna, in primo grado, di 3 anni e 6 mesi. Finisce nel centro di igiene mentale di Civitavecchia. Infine una tardiva assoluzione dal reato di spacciatore: viene riconosciuta soltanto tossicomane, reato derubricato dalla legge italiana. Intempestiva e pressoché inutile riabilitazione, dopo un insopportabile accanimento mediatico. Ma il crudele calvario è appena all’inizio. Sfruttando la grancassa battuta dai media, la bailamme creatasi intorno al caso della “diva” caduta fino al disonore delle patrie galere, succulenta preda della gogna mediatica, lo stesso anno Salvatore Samperi tentando un’impossibile riesumazione delle glorie passate pensa di replicare, in una sorta di serial d’erotismo invecchiato e stantìo, l’insuperato Malizia. Stanco, anacronistico e catastrofico prosieguo del celeberrimo precedente, lo iellatissimo Malizia 2000 (1991) – pressoché interamente girato a Villa Di Bella, in territorio di Viagrande – si rivela un tonfo e finisce sequestrato al centro d’una clamorosa vicenda giudiziaria. Tentando di rivitalizzarne la bellezza sfiorita, l’Antonelli viene sottoposta ad un lifting devastante. Pericolosamente ringiovanita dal trattamento cosmetico il suo viso si deturpa per oltre un anno. Il film viene ritirato dalle sale. La rentrée della star nazionale si trasforma in debacle. Alla fine in appello, solo nel 2007, dopo una fluviale e controversa vicenda giudiziaria durata oltre 13 anni, le verrà riconosciuto un risarcimento di poco superiore a 100.000 euro.

Una specie di maledettismo incombe sinistro. Alessandro Momo, protagonista nel ’73 del primo episodio, muore in un incidente d’auto l’anno successivo. Laura Antonelli “muore” virtualmente dopo aver girato il grottesco prosieguo dell’irripetibile Malizia. Perfino Samperi chiude con il cinema passando alla televisione. Abbandonata da tutti (tranne da qualche amico sporadico, tra cui Lino Banfi), imbottita di psicofarmaci e alcool, Laura Antonelli, irriconoscibile, blindata al mondo esterno, vivrà per anni nel più totale anonimato, sostenuta da una misera pensione in preda ad un costante misticismo: preghiere, letture sacre, chiesa, mentre il suo splendido corpo si dilata a dismisura, fino a pesare più di un quintale. Lei stessa, ormai in preda a delirio mistico, rifiuta l’applicazione della legge Bacchelli, che prevede un aiuto economico agli artisti. La bellissima Laura comincia a distruggere tutto ciò che può del suo passato, rifiutandolo in toto. L’infelice destino della “donna più bella dell’universo” – come la definì Visconti quando lei interpretò L’innocente (1976) – sembra prefigurato da quel clima decadente e malato tipico dell’ultimo Visconti, che l’allora bellissima Laura contribuì a rendere perversamente seducente, arricchendolo d’un fascino impastato di sensualità rattenuta ed improvvisi soprassalti carnali, che nessuna attuale palestratissima maggiorata al silicone riesce ad evocare. Muore d’infarto, a Ladispoli a 73 anni, il 22 giugno del 2015.