GRAN BOLLITO (1977), O “BLOODY MAMA” ALL’ITALIANA

Un macabro e ripugnante fatto di cronaca nera, avvenuto a cavallo degli anni ‘40 del secolo scorso, approda
diversi decenni dopo sul grande schermo ad opera del già celebre regista pistoiese Mauro Bolognini.

    La “saponificatrice di Correggio”, Leonarda Cianciulli, colei che tra il 1939 ed il 1940 uccise e riutilizzò i resti di tre povere donne per farne biscotti e saponette, diventa il soggetto di un film geniale che ancora oggi non conosce cadute di stile, volutamente romanzato e dai toni grotteschi ma ugualmente tracimante di orrore e sinistra inquietudine, grazie anche e soprattutto alla scelta vincente dei protagonisti. Su tutti, una Shelley Winters in stato di grazia e perfetta per il ruolo designatole.

    Lea (Shelley Winters) è una donna di mezza età che da un paesino della provincia campana arriva in una (non
precisata) località del Nord Italia dove l’attendono già il marito Rosario (Mario Scaccia) e l’unico figlio della
coppia, Michele (Antonio Marsina). Sin da subito Lea, donna gretta e parecchio superstiziosa, mostra avversione nei confronti del luogo benché non tardi comunque a fare nuove conoscenze. Stringe subito amicizia, in particolare, con tre donne del posto, ciascuna con situazioni e vissuti diversi ma tutte ugualmente impossibilitate ad avere figli: Berta (Alberto Lionello), Lisa (Max Von Sydow) e Stella (Renato Pozzetto). Lea invece ha avuto in tutto tredici gravidanze, tutte finite mestamente fra aborti e decessi prematuri dei piccoli dopo pochi mesi. Michele è l’unico superstite di tanta disgrazia, strappato alla Morte grazie ad un patto che la madre, a suo dire, avrebbe stretto con lei, di conseguenza la donna ha riversato su quell’unico figlio tutto il suo amore e la sua dedizione. Un rapporto morboso e soffocante che spingerà Lea alla follia allorquando scoprirà che il figlio sta frequentando una ragazza, Sandra (Laura Antonelli), giovane e bella insegnante di ginnastica. In preda alla nevrosi e all’isteria alimentate dall’odio per quella donna, ormai sua acerrima nemica, Lea si spingerà oltre l’orlo dell’abisso, macchiandosi delle più atroci nefandezze, tra fatture, malocchio e sacrifici umani volti a preservare “l’integrità” di quel ragazzo, che nel frattempo ha anche ricevuto la chiamata alle armi e passibile dunque di essere mandato in guerra.

    Non sarà stato sicuramente facile pensare di voler trasporre per il cinema un fatto di sangue così aberrante
come quello di cui si è resa protagonista a suo tempo la Cianciulli. Il risultato avrebbe potuto prendere pieghe
differenti, con il timore fondato di realizzare un film mediocre e oggettivamente deludente. Bisognava rendere il
tutto in maniera autentica ma al tempo stesso distaccarsi dalla mera oggettività per crearne una versione
romanzata, volutamente sopra le righe, smorzando ma non inficiando la carica orrorifica dei fatti narrati.

    È stato questo il vero colpo di genio, l’elemento principale che costituisce il successo ancora attuale del film di Bolognini: a farsa, il grottesco, l’horror che si spoglia della sua veste “exploitativa” per intercalarsi nella commedia e tingersi di black humor, irriverente eppur tragicamente drammatico. Emblematica in tal senso la scelta di far interpretare il ruolo delle tre “comari” a tre attori uomini en travesti, con un risultato che ha dell’incredibile per quanto estroso e brillante. Lionello, Pozzetto e Von Sydow impersonano tre donne diverse, ognuna con le proprie frustrazioni, eppure tutte e tre incapaci di procreare, perciò – secondo la malefica protagonista – non meritevoli di esistere in quanto “non-donne”. E che realmente loro non siano donne lo
vede soltanto lo spettatore, quando invece nel film esse si comportano e vengono trattate proprio come tali.

    Se per una buona prima parte della visione la parvenza è proprio quella di una commedia grottesca, fra sottile
comicità ed ironia sommessa, dal momento in cui l’odio e la ferocia si disegnano sul volto della (fino a quel
momento) buontempona Shelley Winters, che brandisce la mannaia dopo aver segato le gambe del tavolo per
reclinarne il piano e sistemato un secchio al di sotto per raccogliere i reflui delle sue mattanze, il registro cambia
improvvisamente per instradarsi nei meandri della follia e della più ripugnante delle sue fantasie.

    La cucina di Lea, la cui tenda che sembra più un sipario la tiene confinata dal resto della casa, è il teatro degli
orrori in cui si consumano i delitti a danno di quelle donne, colpevoli unicamente di essersi fidate dell’amica
sbagliata ma alle quali viene data possibilità di “redenzione” diventando materia prima per biscotti (le ossa
triturate) e saponi (i loro corpi disciolti nella soda caustica e poi bolliti). Una metodica di occultamento diabolica di cui la protagonista si vanterà con ignari ospiti e vicine di casa a cui offrirà il risultato delle sue efferatezze. Ma la rivalsa delle tre vittime si concretizzerà materialmente sul finale, quando i tre attori che hanno vestito i loro panni saranno ora il direttore della banca, il capo della polizia ed il carabiniere che stringeranno il cerchio attorno all’istrionica aguzzina.

    Un film folle e delirante, dai toni cupi e la fotografia tetra, che tratta con estrema accuratezza e grandguignolesca eleganza fatti realmente accaduti, senza cedere alla tentazione di calcare la mano sull’exploitation nuda e cruda  (comunque suggerita dai pentoloni ribollenti da cui emergono parti anatomiche), includendo nella narrazione aspetti assolutamente non secondari come la superstizione, l’esoterismo e le dinamiche patologiche del rapporto disfunzionale madre/figlio.

    Una pellicola che ricorda molto quelle di Pupi Avati e di Roman Polanski, proprio per quel senso dell’orrore che origina dalla follia repressa e che esplode infine fragorosa tra le mura domestiche.
Un successo che deve molto soprattutto alla scelta del cast artistico. Monumentale l’interpretazione della
Winters che vestì panni speculari quattro anni prima ne Il clan dei Barker (Bloody Mama), sotto la direzione di Roger Corman, al quale Bolognini strizza l’occhio, benché il cinema americano avesse già implicitamente assegnato il “disturbing role” alla Winters anni prima (Lo specchio della follia (1969), I raptus segreti di Helen (1971), Chi giace nella culla di zia Ruth? (1972)…

    Diritto di menzione alla triade Lionello, Von Sydow e Pozzetto, così come per Milena Vukotic nel ruolo della domestica sordomuta, complice inconsapevole della sua padrona. La performance di Laura Antonelli è confinata al minimo sindacale, ma è davvero bellissima. Curiosa inoltre la presenza di Liù Bosisio (l’altra moglie “fantozziana” assieme alla Vukotic) che interpreta una delle vicine di casa impiccione.

    Le musiche sono del cantautore Enzo Jannacci, molto attivo nel musicare film in quel decennio – Romanzo popolare (1974), Pasqualino settebbellezze (1975), L’Italia s’è rotta (1976), etc. – il cui brano “Vita vita” è interpretato da Mina.

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