IL FENOMENO LANDO BUZZANCA

Il fenomeno Buzzanca è singolare che tanto Landa Buzzanca quanto Franchi e Ingrassia abbiano esordito nel 1961 e abbiano esaurito la loro fortuna sullo schermo nel 1981: vent’anni esatti, poiché i pochi film che sono venuti dopo, per l’uno e per gli altri, non sono stati certamente determinanti per un’eventuale ripresa della loro carriera nel cinema.

    Vent’anni, dunque, che coincidono perfettamente con quelli del successo delle commedie e delle farse d’ambiente siciliano, come abbiamo visto. L’esaurimento del fenomeno precede solo di qualche anno, comunque, la fine del cinema italiano di genere, quello che aveva costituito la spina dorsale della nostra produzione e che tante soddisfazioni ci aveva dato anche sui mercati stranieri. Si sa che l’avvento massiccio delle televisioni private, che hanno cominciato a trasmettere film ad ogni ora del giorno e della notte, ha provocato una crisi degli incassi dei cinema, la chiusura progressiva di tutte le sale del circuito secondario e un ridimensionamento della produzione, che si è concentrata su un numero ridotto di film che avessero requisiti commerciali tali da imporsi (almeno nelle previsioni) alla concorrenza televisiva. Così il cinema popolare, quello di minor costo che tuttavia riempiva i locali secondari e i cinema di quartiere, è scomparso del tutto, trasferendosi gradualmente, anni più tardi, sugli schermi televisivi sotto forma di sceneggiati a puntate, telefilm d’importazione, telenovele e fiction dei generi più diversi.

    Ma occorre anche dire che, televisioni a parte (o forse televisioni complici), si è verificato un mutamento nei gusti e nelle tendenze di pubblico, tale da spazzare via tutti quei prodotti che prima erano stati di largo consumo: salvo, poi, a recuperare tardivamente, ai tempi nostri, tanto cinema di genere del passato, dalle commedie erotiche all’italiana ai film polizieschi, dagli horror casalinghi ai melodrammi fumettistici e ai vari prodotti trash, in collane di videocassette che affollavano edicole e videoteche, nonché proprio sui teleschermi che ne avevano decretato la scomparsa. Ma questa è un’altra storia. Ci si dovrebbe domandare, a proposito del palermitano Lando Buzzanca, il perché di un tanto prolungato successo di pubblico e il perché di una tanto improvvisa interruzione della sua attività cinematografica, dovuta al calo verticale di favore verso i suoi ultimi film del ventennio in esame, e di conseguenza al disinteresse totale da parte dei produttori, anche di quelli che grazie a lui avevano fatto affari d’oro.

    Intanto occorre osservare che i film interpretati dall’attore hanno goduto di rilevanti incassi su tutto il territorio nazionale – dunque non sono stati mai privilegio di un circuito regionalistico – e per giunta hanno raccolto notevoli soddisfazioni di botteghino anche in numerose nazioni straniere, cosa che non è accaduta per parecchi attori, comici o commedianti nostrani, di buon nome. Va detto anzitutto che la comicità di Buzzanca non è stata di natura dialettale, né troppo legata a caratteristiche e motivi tipicamente siciliani, per cui il suo personaggio, almeno nei film migliori, ha riflesso tendenze, aspirazioni, frustrazioni e velleità dell’italiano medio in un ben preciso periodo storico-sociale, diventando riconoscibile e credibile per ii pubblico più vasto e, proprio in quanto esemplare nazionale, riuscendo ad ottenere consensi anche in campo internazionale. Un personaggio che dalla sua origine siciliana ha tratto motivi di particolare vitalità per apparire con naturalezza un qualsiasi italiano, con i suoi pregi e i suoi difetti, dotato di senso dell’ironia, animato da genuini e spesso prepotenti istinti sessuali, insofferente alle convenzioni, pronto a reagire di fronte a regole morali e religiose di natura repressiva, e quasi sempre vincente anche nelle situazioni più imbarazzanti e paradossali. Senza escludere, tuttavia, le inevitabili sconfitte che la società riserva talora a chi risulti troppo trasgressivo e troppo provocatore verso l’ordine costituito.

    Così che e rintracciabile in diversi suoi film, anche in taluni apparentemente superficiali e di puro intrattenimento, una vena di amarezza di fondo, quando non proprio di crudeltà, che coinvolge non solo la crisi della sessualità maschile, ma pure la crisi più generale dell’uomo medio a confronto con istituzioni superate eppure inamovibili, con il conformismo e l’ipocrisia dominanti, e con quanto rappresenti un limite invalicabile alla libertà di pensiero e d’azione. A ciò si aggiunga che la personalità del l’attore è riuscita non di rado ad imporsi su copioni banali e su registi mediocri, diventando egli anche autore di certi suoi film, come del resto accade da sempre nel cinema quando un interprete ha talento e carisma tali da concentrare inevitabilmente su di sé la responsabilità della riuscita di un’opera.

    E, pur avendo interpretato sessanta film nell’arco del citato ventennio, bisogna ammettere che Buzzanca resta in largo credito verso il cinema, che non solo lo ha costretto spesso ad imprese mediocri o trascurabili per onorare certi contratti, ma soprattutto gli ha offerto solo saltuariamente l’occasione giusta per mettere alla prova le sue notevoli risorse di attore. Etichettato frettolosamente come maschio dagli irrefrenabili impulsi sessuali e dalle inesauribili virtù amatorie, in seguito al clamoroso successo di diverse sue commedie erotiche, Buzzanca, all’apice della sua popolarità, ha perfino involontariamente ispirato due serie di fumetti, “Lando” e “Il montatore“, di cui è facile intuire i contenuti: pubblicazioni peraltro detestate e contestate dall’attore anche per vie legali. Di simile autentico protagonista del nostro cinema è interessante ripercorrere la parabola più fortunata, anche per rimediare a tante sottovalutazioni da lui raccolte durante la sua carriera.

    Nel corso di una nostra intervista del 1970, a Palermo, Buzzanca ha detto tra l’altro: “Volevo fare l’attore teatrale e ritenevo di poter riuscire davvero come attore drammatico. Ma mi sono scoperta una vena comica istintiva. Me la portavo dentro senza saperlo. Perfino nell’Oreste (suo debutto teatrale dopo tre anni di Accademia, n.d.r.) sentii l’irresistibile tendenza all’ironia sui personaggio. In seguito, in un programma televisivo dal titolo Gente che va, gente che viene, tra interpreti come Monica Vitti, Gianrico Tedeschi, Pisu e altri, emersero queste mie doti facendo la piccola parte di un soldato che ha perduto un cannone. La Vitti mi incoraggiò a continuare, poiché riuscii divertentissimo. Poi venne il cinema, e di buon livello. Nel 1962 Divorzio all’italiana di Germi e La parmigiana di Pietrangeli. Due anni dopo ancora con Germi Sedotta e abbandonata: parti limitate, ma che mi hanno dato grandi soddisfazioni. Come protagonista invece ho fatto molto cinema di serie B, dai film di James Tont alle parodie western Per qualche dollaro in meno o Ringo e Gringo contro tutti…” E, alla domanda se non gli sembrava d’essere stato per troppo tempo strumentalizzato dai frettolosi e spesso scadenti prodotti di consumo, che avevano mortificato le sue capacità: “No, ritengo che siano stati un’esperienza utile. E poi ho sempre cercato di pormi in un certo distacco dal mio personaggio, proiettandolo in una dimensione caricaturale. Per cui, se un James Tont può apparire fesso, si può dire che Buzzanca ha reso con intelligenza un personaggio fesso…”.

    In quell’occasione, l’attore ha rievocato il suo passato migliore e quello più oscuro, ma denso di esperienze e di incontri fruttuosi. La rivista satirica di successo Il trogolo, nel 1964, interpretata insieme a Carlini, Garrone, la Zoppelli e la Malfatti; l’attività di doppiatore, per cui conobbe Luchino Visconti quando prestò la sua voce a Serge Reggiani ne Il Gattopardo; il benaugurante giudizio di Remigio Paone che a Milano gli disse un giorno: “Lando, tu hai una grossa fortuna, sei un tipo diverso dagli altri. La gente comune, che lavora tutto il giorno e la sera va a teatro per divertirsi, vuol vedere un tipo diverso da se stessa. Per questo paga, è questo che cerca”. Lando era reduce dalle fatiche dei programma televisivo di larghissimo gradimento Signore e signora, in sette puntate, con un ascolto medio di ben 19 milioni di spettatori a puntata.

    Così ne ha scritto il critico Aldo Grasso: “Delia Scala (lei) e Lando Buzzanca (lui) ripercorrono – con la leggerezza e l’ironia tipica delia showgirl e insospettata per l’attore – le fasi di un tipico ménage di coppia, dal primo incontro al fidanzamento fino al matrimonio. Clelia Matania, nel ruolo della suocera superba, e Paola Borboni, nei panni della madre dello sposo, spalleggiano l’indimenticabile duetto de L’amore non è bello se non è litigarello, alimentando la comicità degli sketch…”. E una citazione d’obbligo soprattutto per l’aggettivo “insospettata” a proposito della leggerezza e dell’ironia di Buzzanca. Dunque i film fino ad allora interpretati dall’attore ne avevano accreditato la mancanza di leggerezza e di ironia, per quanto almeno alcuni avessero lasciato intuire simili doti: dunque il cinema di serie B aveva pesantemente etichettato Buzzanca, mentre assai rare erano state fino ad allora per lui le occasioni di fare cinema di serie A. Ma oggi, a distanza di tempo, occorre anche rivedere certe classificazioni, poiché c’è cinema di serie A per mezzi ed emozioni che diventa di serie B per risultati, mentre è vero anche il contrario.

    Certo, se l’attore avesse avuto l’opportunità di incontrare ancora registi quali Germi, Pietrangeli o Lattuada, staremmo a raccontare una storia diversa. Ma, c’è anche da chiedersi, Lando avrebbe ottenuto un successo uguale a quello che gli hanno procurato tutti i suoi film diretti da registi minori o irrimediabilmente mediocri? Cioè, se l’attore avesse potuto privilegiare un cinema di “pratiche alte”, avrebbe raccolto gli stessi consensi che gli hanno garantito il cinema popolare, magari di confezione più approssimativa ma di immediato riscontro presso un pubblico eterogeneo? Poiché prima di arrivare alla fatidica stagione cinematografica 1970-77, in cui sono usciti sugli schermi ben otto film da lui interpretati, con i quali si è affermato definitivamente come campione d’incassi, Lando era apparso in personaggi secondari di alcune opere d’autore, in film a episodi affollati da altri interpreti, e in ruoli di protagonista commediole o farse parodistiche dai non eccelsi esiti commerciali, a parte l’eccezione di Don Giovanni in Sicilia (1966) di Alberto Lattuada, in cui l’attore ha finalmente un vero personaggio a lui congeniale, ma il film si rivelò un parziale insuccesso. Ebbene, guarda caso, quando Lando ha ripreso, in contesti più modesti, lo stesso personaggio di maschio siciliano alle prese con le problematiche della sessualità, le platee gli hanno tributato un trionfo. Dall’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati – fondamentale l’importanza del grande scrittore per tanto cinema satirico d’ambiente siciliano, come si può dedurre dalla frequenza con cui finora ne abbiamo fatto citazione – il Don Giovanni in Sicilia di Lattuada è un’intelligente, spiritosa e amara commedia di costume che narra come il catanese Giovanni Percolla (Buzzanca), trasferitosi a Milano con la moglie (Katia Moguy), abbia fortuna nel mondo degli affari ma, a contatto con una realtà tanto lontana da quella sua d’origine, si accorga di aver perduto la virilità di cui andava fiero, così che solo con un provvidenziale ritorno in Sicilia egli ritrovi il piacere del sesso insieme al gusto della vita. Nel film c’è il confronto tra il calore del Sud – il clima solare, i riti del pranzo, e del riposino pomeridiano, il tempo libero da assaporare con calma – e il freddo del Nord – l’atmosfera grigia e nebbiosa della metropoli lombarda, le colazioni veloci a base di tramezzini e vitamine, il ritmo intenso del lavoro e i passatempi d’obbligo nei luoghi canonici praticati dall’alta borghesia – ma pure il contrasto, per il protagonista, tra la donna “sognata” (calda di passione, dunque desiderabile) e la donna “concreta” (fredda e mascolinizzata nel comportamento e nell’abbigliamento), che si risolve solo quando Giovanni avrà fatto ritorno alla sua città natale e lì avrà recuperato una moglie più docile e disponibile ad una sessualità dove lui sarà di nuovo soggetto, e non più oggetto. Qui Lando può dimostrare un notevole autocontrollo nell’esprimere il proprio estro beffardo, insieme a un’istintiva carica ironica nel guardare i suoi personaggi “dal di fuori”, per accentuarne i lati paradossali senza cadere nel macchiettismo della produzione di facile consumo.

    La stagione dei trionfi per l’attore comprende un gruppo di film di non sempre di grande, eppure capaci di affollare incredibilmente le platee. Molto gradevole è Il merlo maschio (1970) di Pasquale Festa Campanile, in cui Lando è un violoncellista di fama che, afflitto da un forte complesso di inferiorità fino ai limiti della paranoia, trova motivo di riscatto dalla sua frustrazione quando scopre che gli uomini si eccitano di fronte alla bellezza di sua moglie (una fulgida Laura Antonelli), specialmente se è nuda, e quindi lo invidiano. Da qui l’ossessione psicanalitica del protagonista devia verso la morbosità dell’esibizione del corpo della donna, dapprima sdegnata e poi complice perché innamorata di lui, fino a un eccesso che lo porterà in manicomio. Da un racconto di Luciano Bianciardi, una commedia satirica dai risvolti grotteschi che valorizza le doti ironico-drammatiche di Buzzanca ed esalta la Antonelli, dolce e sensuale, come nuovo oggetto del desiderio maschile. Altra frustrazione per Lando in La prima notte del dottor Danieli, industriale col complesso del… giocattolo (1970) di Gianni Grimaldi, il suo film di più alto gradimento del periodo, anche se l’attore non lo ricorda con piacere. Il protagonista, dopo un’intensa attività sessuale, sposa una ragazza vergine ma, preso dall’ansia da prestazione, la prima notte di nozze non riesce ad adempiere al dovere coniugale, né ci riesce in seguito, durante la luna di miele in un paesino siciliano ove molti conoscono il suo problema e lo commentano in vario modo, mentre, a complicare le cose, interviene la suocera ancor giovane e alquanto invadente, finché, dopo paradossali accadimenti, l’impresa ha successo. Tra Katia Christine e Françoise Prévost, Lando si affida alle risorse del mestiere, risultando ben al di sopra della grossolanità di sceneggiatura e regia. Eppur si ride. Mediocre, oltre che povero di spirito, Il debito coniugale (1970) di Franco Prosperi, sgangherato road movie casalingo in cui Buzzanca e Orazio Orlando fanno i vagabondi per amore della libertà da vincoli coniugali e convenzioni borghesi, insieme a una disponibile ragazza, Barbara Bouchet, di cui sfruttano le grazie. Modesto Quando le donne avevano la coda (1970) di Pasquale Festa Campanile, da un soggetto di Umberto Eco, e su sceneggiatura firmata anche da Lina Wertmüller: una farsa cavernicola dove Buzzanca si aggira insieme ad altri uomini primitivi e grugnenti che scoprono l’esistenza della donna, Senta Berger, e con un po’ di fatica capiscono che non è da mangiare. Parzialmente riuscito Il prete sposato 1979 di Marco Vicario, che affronta il tema del rapporto tra il sesso e la Chiesa ondeggiando tra satira e farsa tutt’altro che di prim’ordine. Ma Lando si diverte e diverte nel ruolo del sacerdote siciliano che, sconvolto dal comportamento assai disinibito e provocante delle donne che frequentano la sua parrocchia, si consola con una squillo di buon cuore (Rossana Podestà) e sfida i superiori chiedendo addirittura di lasciar convivere il matrimonio con la vita sacerdotale. Nella farsa italo-tedesca Professione bigamo (1979) di Franz Antel, Lando è un controllore di vagoni-letto della linea Roma-Monaco che, molto dotato sessualmente, ha una moglie in ciascuna delle due città, e se la spassa almeno finché le due donne non scoprono che lui ha una terza moglie, siciliana. Il film di minor successo del periodo d’oro buzzanchiano, ma chi non l’ha visto non ha perso niente. Mentre Un caso di coscienza (7970) di Gianni Grimaldi, da un racconto di Leonardo Sciascia, consente all’attore di rivelare le sue doti migliori, in un contesto satirico ricco di graffianti umori. Un paesino siciliano è in agitazione perché una donna del luogo ha svelato alla “Posta del cuore” di un rotocalco femminile il suo sofferto tradimento del marito e un giovane avvocato (Buzzanca) che ha letto per caso la lettera, naturalmente anonima, gode a suscitare dubbi tra i notabili locali sull’onestà delle loro consorti, anche se poi si convince che non è fuori discussione nemmeno sua moglie, che egli tradisce con un’amante a Roma. Da qui una serie di sviluppi paradossali e talora farseschi sul tema delle corna come massimo del disonore, ma pure sulle ipocrisie e su altri vizi del perbenismo maschilista siciliano, con un fondo di crudeltà e di amarezza. Se la regia di Grimaldi non è un modello di misura, gli interpreti, tra cui Antonella Lualdi, Saro Urzì, Françoise Prévost, Dagmar Lassander e Nando Gazzolo, sanno stare al gioco. Inevitabile sequel delle disavventure sessuali del dottor Danieli, ecco Le inibizioni del dottor Gaudenzi, vedovo col complesso della buonanima (1977), ancora di Gianni Grimaldi, ove Buzzanca non può praticare il sesso avendo giurato fedelta alla moglie sul letto di morte, ma poi scopre che potrà possedere la fidanzata solo se la sposerà mantenendola illibata fino al matrimonio. Ma come farà a resistere il protagonista, per il quale il sesso è ragione di vita? Anche qui l’attore si destreggia tra Katia Christine e Françoise Prévost, rimediando il più possibile alle grossolanità farsesche del film, in cui, tuttavia, il mito della virilità dell’italiano medio viene beffeggiato con esiti graditi al pubblico, che al di là del divertimento vi ravvisava evidentemente, se non proprio problemi propri, una convincente verità di fondo.

    Erano tempi in cui la censura nostrana preferiva infierire sui film d’autore, e in particolare sui film drammatici che sul sesso intendevano proporle discorsi seri, mentre lasciava correre abbastanza sul cinema umoristico, ove il nudo femminile ormai si era imposto e le battute a doppio senso, oltre all’esplicito turpiloquio, godevano di sufficiente libertà. E sia le commedie che le farse erotiche potevano così contribuire, a modo loro, alla dissacrazione di tanti pregiudizi e di tanti tabù che per decenni avevano fatto parte della morale corrente. Dopo tutto il Sessantotto non era passato invano. Così, in epoca di “rivoluzione sessuale”, Homo eroticus (1971) di Marco Vicario ha furoreggiato al botteghino, illustrando le imprese di un cameriere siculo superdotato (Buzzanca) che a servizio di una coppia benestante di Bergamo (Luciano Salce e Rossana Podestà) esibisce le sue virtù con la padrona di casa, le sue amiche e le cameriere, poi viene cacciato per gelosia dalla padrona e conquista una lunga serie di donne, prima di sposare una siciliana, figlia di un amico barbiere. Da qui il mito dell’uomo “con tre palle” che l’attore si è portato dietro per un bel pezzo. Alla sceneggiatura ha collaborato Piero Chiara, ma senza che il film sappia sviluppare i suoi spunti satirici evitando di scivolare nella farsa. Più riuscito Il vichingo venuto dal sud (1977) di Steno, ove il protagonista (Buzzanca) è un siciliano che, trasferito a Copenaghen per ragioni di lavoro, vuol dimostrarsi emancipato smentendo il classico comportamento dell’italiano all’estero, ma poi cede alla sua natura e colleziona una serie di sconfitte con le emancipate donne danesi, finché non sposa una di loro (Pamela Tiffin), sbalordendo quando scopre che lei ha partecipato a pornofilm. Infine, dopo varie pressioni della sua azienda che ritiene riprovevole una simile unione, egli si licenzia e diventa partner della moglie nel cinema a luci rosse. Una commedia tutt’altro che equilibrata nei toni, eppure gradevole e percorsa da felici notazioni satiriche. (Fine I parte)

VITTORIO ALBANO

Redazione – Archivio Siciliano del Cinema

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