SALVATORE SAMPERI, IL CINEMA È UN LAVORO D’ARTIGIANI

Il primo film di Salvatore Samperi, nel 1968, Grazie zia, cui, dopo alcuni film di impegno, seguirono film accolti da larghissimi consensi di pubblico (Malizia, soprattutto, e Peccato vueniale). Come riassumeresti la tua carriera di autore prima di Malizia (gli spunti ideologici, le ragioni estetiche, le esigenze di rinnovamento linguistico e tecnico)? « Sono sempre stato abbastanza incoerente. E confuso. Anche come autore di film».

    « Comunque non credo di essere mai stato un autore che lavorava sul linguaggio, che sentiva delle speciali esigenze di rinnovamento linguistico e tecnico. Semmai, al contrario, ho sempre tentato di adattare il linguaggio alle mie storie. Mi sento più un narratore che non un innovatore di tecniche. Tutto sommato, perciò, il mio modo di fare il cinema è sempre stato piuttosto tradizionale, di conseguenza la mia carriera, da Malizia in poi, non mi fa pensare a un brusco mutamento di rotta, né a un ritorno indietro. Di diverso, probabilmente, c’è soltanto l’ottica sotto cui adesso affronto i film. Prima di Malizia ho realizzato dei film solo per me e per gli “addetti ai lavori”, senza ottenere nessuna attenzione, o quasi, da parte dei pubblico. Da Malizia in poi mi ci son messo d’impegno per raggiungere un pubblico più vasto. E questo anche perché, realizzando dei film di costo più elevato, sentivo il dovere di allargare il pubblico cui destinarli. Ricorderai certamente che al mio quarto film avevo attorno a me un pubblico così esiguo che i produttori ritenevano che fosse addirittura antieconomico fare dei film con me. Avere più pubblico, in quella situazione, era diventata una necessità irrinunciabile ».

E secondo te come lo hai ottenuto questo pubblico?

    « Facendo appello alle ragioni stesse che sostengono il cinema. Qual è il punto di partenza del cinema? Lo spettacolo popolare, che sostituì, prima ancora che la moda finisse del tutto, il romanzo di appendice. Il vero collegamento fra il cinema e la letteratura è solo uno: il feuilleton. quando il cinema ha tentato di collegarsi alla letteratura aulica, non popolare, non ha mai fatto centro. Salvo poche eccezioni nobilissime. E questo perché, rispetto alla grande letteratura, il cinema segna ancora il passo. Certo, un giorno la raggiungerà, in certe cose, forse, l’ha persino superata, ma in generale le corre dietro, e col fiatone, perché gli è estremamente difficile sbarazzarsi di quel suo marchio d’origine che è la letteratura popolare. Se si prende coscienza di questo, è chiaro che, volendo il pubblico, è a questo tipo di narrativa che ci si deve rivolgere. Tornando realisticamente al punto di partenza de cinema ».

Salvatore Samperi e il successo. Un tuo giudizio.

    « Il successo l’ho conosciuto giovanissimo. Quando ho realizzato Grazie zia avevo solo venticinque anni e il successo, allora, è stato più completo e totale di quello di Malizia e di Peccato veniale perché, oltre a tutto, era riuscito a mettere d’accordo il pubblico e la critica (mentre per Malizia e Peccato veniale non posso dire di avere avuto tutta la critica dalla mia). Nei confronti del successo, perciò, in un certo senso sono vaccinato. Lo ero molto meno, invece, nei confronti dell’insuccesso quando mi è venuto addosso all’improvviso rischiando di tramortirmi. Grazie zia l’ho fatto quasi per caso, un’avventura, non sapevo dove mi avrebbe portato, mi interessava solo cominciare. Di colpo, invece, mi sono trovato sugli scudi. Ho creduto allora di poter fare tutto, sicuro che il pubblico mi avrebbe sempre seguito. E invece mi ha detto no. Un “no” secco, senza appelli, che mi ha fatto riflettere, che mi ha spinto a pensarci su prima di imboccare di nuovo questa o quella strada. Un mio giudizio sul successo, perciò? Adesso, chiaramente, vuol dire autonomia. E vuol dire anche un po’ paura. Paura di sbagliare ancora. Non più, però, soltanto nei confronti del pubblico, ma nei confronti di me stesso. Adesso che ho raggiunto l’autonomia e che, quindi, diminuite sempre più le limitazioni, ho in teoria la possibilità. di fare tutto quello che voglio, sento che è arrivato il momento di chiarire anche a me stesso quello che so fare. Il problema, insomma, ancora una volta del dopo Malizia, e del dopo Peccato veniale».

E veniamoci, allora, a questo “dopo”, parliamone da adesso.

    « Ma è proprio questo che non so ancora teorizzare. Sarebbe già diventato un film, altrimenti. Comunque, per prima cosa, vorrei continuare a divertirmi. Non voglio che fare un film diventi un’angoscia. Alcuni miei colleghi ci sono cascati. Ogni volta che fanno un film si sentono sempre in dovere di fare un film “importante”, da affidare alla storia del cinema, hanno l’incubo di non riuscirci e vivono (e lavorano) in piena angoscia. E io questo assolutamente non lo voglio perché, oltre a tutto, può diventare estremamente limitativo. Il mestiere del cinema, invece, per me è una fonte inesauribile di divertimento. E deve rimanere tale. Scrivere i miei soggetti mi piace, ma il piacere che provo non è così stimolante come quello di dirigere un film in mezzo ad una troupe. I una condizione esistenziale, per me, quella di stare in mezzo ad una troupe, e lavorarci. Nello stesso tempo, vorrei continuare a giocare sui miei ricordi. Ecco, l’importanza di Malizia per me è stata la capacità che mi son scoperta di suscitar ricordi. Una delle ragioni del suo successo, e non solo in Italia, ma anche fuori, va ricercata proprio nel fatto che molta gente vi si è riconosciuta. Questa, forse, è una delle zone in cui posso muovermi. Cercando di affinarla e cercando anche di capire fin dove io posso raffinarmi. (Te lo dico solo a livello d’inconscio, di aspirazioni, non ti sto parlando di progetti, né di cose precise, altrimenti, lo ripeto, sarebbero già un film). E poi vorrei anche fermarmi un momento per avere il tempo di trovare una storia veramente mia (anche se tutte quelle che ho realizzato finora erano comunque mie fino in fondo) e per fare il punto su quello che ho fatto fino ad adesso nel tentativo dii capire cosa so fare, inventando qualcosa che mi permetta di verificarmi al massimo, sfruttando totalmente quelle che sono le mie capacità, se ne ho.  E d’altra parte ho anche voglia di cambiare completamente. Sto attraversando un periodo di “cotta” per la fantascienza. Avevo scovato un romanzo che mi aveva letteralmente affascinato, c’era già Alejandro Jodorowsky pronto a realizzarlo e questo mi ha evitato il problema di decidere (e la paura che già cominciavo ad avere di fronte alla necessità di dover prendere una decisione), anche se era tanta la voglia di misurarmi in un’impresa totalmente diversa da tutte quelle che avevo tentato finora: soprattutto di fronte a un romanzo in cui si fa fantascienza sulla morale e che mi avrebbe dato la possibilità, pericolosa ma certamente suggestiva, di inventare ogni immagine da zero (a differenza di quello che si fa con il “reale”: lì basta un paio di scarpe per far data). Le immagini! Guarda del resto cosa si può fare al cinema con le immagini! Ho visto Amarcord. Quel film andava fatto solo per quell’immagine del nonno che esce di casa e si perde nella nebbia. E straordinario quanto sia povera quell’immagine e quanto invece sia ricco, sia completo l’effetto che se ne ottiene’ Per me è molto più importante quell’immagine che non quella tanto lodata del “Rex” che, invece, fa più baraccone, è più costruita, più voluta. Il nonno nella nebbia, invece, è un taglio di poesia incredibile. Ti fa subito capire quello che ancora il cinema può darti: e solo con un vecchietto, una cancellata, dei fumoni per la nebbia e una carrozza che passa… ».

E l’ironia, la commedia?

    « Quando ho fatto Grazie zia, e il mio grande modello era il Losey de Il servo (1963), non sapevo neanche cosa fossero. Avevo solo grinta, cipigli. Poi, a partire da Un’anguilla da 300 milioni, le mie origini patavine, e tutto sommato anche un po’ lo stesso Ruzante, me le hanno fatte scoprire: con degli addentellati precisi anche con i cipigli. Non credo però che farò mai delle commedie all’ inglese… Quando mi accosto al comico vien sempre fuori la mia natura di contadino veneto. Non me ne vergogno, comunque, perché la base di tutte le “ruzantinate” è proprio quella ».

Credi che il cinema abbia un’influenza determinante sulla società di oggi?

    « Non credo che un film sia il cinema si capace di cambiare la società Il cinema è un lavoro d’artigiani, da botteghe del Rinascimento. Un film spesso è come se uscisse da una catena di montaggio. Chi chiederebbe a un operaio della Fiat se il suo lavoro ha una influenza determinante sulla società? Quello che conta è che un film sia fatto bene. Allora avrà anche il potere di influenzare. E poi io, personalmente, ritengo utile alla società anche l’arte distruttiva. Preferisco un film che distrugge, a un film socialdemocratico che si limita a sfiorare i temi sociali fingendo di parlarne seriamente. Guarda, per esempio, i fllm di Buñuel, e queIli di Losey, di Ken Russell. Hanno avuto e hanno influenze molto più “rivoluzionarie” quelli, che non tanti film di oggi che si dichiarano sociali ma che poi si tengono sempre ai margini delle cose. E dei problemi ».

GALLERIA FOTO

GALLERIA VIDEO