MAURO BOLOGNINI. RAPPRESENTANDO LA FOLLIA

Tra gli autori più attenti e validi del cinema italiano, parecchi lungometraggi tratti da opere letterarie. Per le antiche scale del 1975 lo scegliamo come focus. Romanzo omonimo di Mario Tobino, premio Campiello 1972, sceneggiato da Raffaele Andreassi, Mario Arosio, Tullio Pinelli e Bernardino Zapponi.

Il romanzo di Tobino si ambienta in un ospedale psichiatrico. Un film sulla pazzia, allora?

    « E anche un film sul contagio della pazzia: a danno dei sani e a danno dei malati. Un film sulla pazzia, ma non un film sui manicomi. Ne sarebbe venuta fuori un’inchiesta di tipo sociale, come quelle televisive, e non era la mia intenzione. Oltre a tutto non vi sono preparato. Un film sulla pazzia e, perciò, sui pazzi: sul loro mistero, sui modi con cui accostarlo oggi; e capirlo. Come si guarda da secoli ai pazzi? Con terrore, con repulsione; peggio che se fossero affetti da malattie contagiose, dalla lebbra. Ecco, invece, io, aiutato dal libro di Tobino che è un letterato ma è anche uno psichiatra e la pazzia sa come guardarla, ho cercato di guardare ai pazzi con amore, con pietà, sforzandomi di avvicinarli (e di farli, dopo, avvicinare dallo spettatore) con simpatia totale, disarmata. Certo, agli inizi non è stato facile. Il primo impatto con la pazzia è terribile. Quelle facce, quelle deformazioni morali e anche fisiche che la pazzia provoca in moltissimi, all’inizio ti suscitano l’istinto di fuggire, di dimenticare. A poco a poco, però, standoci in mezzo, osservando, studiando, scopri che quelle facce sono anche belle e ti vien voglia di riuscire a comunicare con quegli occhi persi che non capisci mai dove guardino, né cosa guardino. E che gioia, dopo, quando, una volta su cento,ti accorgi che ci sei riuscito, che ti hanno visto, che ti hanno risposto; grati della tua mancanza di paura; e della tua pietà ».

Ma come sei riuscito a esorcizzare il mito della paura nei confronti del pazzo e a sostituirlo con la pietà?

    « Rappresentando la pazzia in modo dolce, assorto, cercando di far sentire allo spettatore che attorno, molto spesso, vi aleggia un mistero che non è tessuto solo di orrori, di deliri e di grida, ma, in tantissimi casi, di silenzi, di fratture con la realtà, di sogni ad occhi aperti. E, soprattutto, cercando di suscitare quel bisogno di comunicare con i pazzi, abbattendo i loro muri, che dopo qualche tempo di permanenza a San Salvi, il manicomio di Firenze, avevamo sentito anche noi quasi con prepotenza: mutando, per assecondare questo nostro bisogno, i nostri comportamenti, i nostri atteggiamenti, le nostre reazioni. Tanto che, dopo, quando siamo usciti e abbiamo ripreso le nostre abitudini e i nostri rapporti “facili” con la gente normale, abbiamo sentito la mancanza di quell’impegno quotidiano che sorreggeva e guidava là dentro i nostri rapporti “difficili”, quelli con cui eravamo in grado di instaurare le comunicazioni più inattese; ottenendo risposte che
ci venivano magari da anni di silenzio, di chiusure; e anche di furie, di rivolte ».

Un film, perciò, che quanto a rappresentazione cinematografica della pazzia rompe del tutto con la tradizione solita della Fossa dei serpenti.

    « Sì, perché, lo ripeto, se avessi dovuto rappresentare a pazzia nella sua cifra più nota, delirante, avrei fatto un film-inchiesta, magari di tipo televisivo; e non mi sarei rifatto poi al romanzo di Tobino che, invece, pur senza insistere come ho fatto io sulla pazzi.a dolorosa ma “dolce”, ha dato spazio comunque al mistero che la circonda e a quella sua “normalità” che, in molti casi, può essere al massimo considerata una sublimazione della natura, della norma.

    « Con questo, intendiamoci, non nego che esista anche l’altra pazzia, quella delirante. È facile dire, come qualcuno dice oggi: “Abbattiamo i muri, apriamo i manicomi”. In molti casi sarà anche giusto, però ci sono dei muri, in certi manicomi, che non si possono abbattere; ci sono d”elle stanze che non si possono aprire,delle porte che debbono restare chiuse. Nonostante oggi ci siano anche dei muri “chimici”, delle camicie di forza “chimiche”. Sì, le dosi immense di tranquillanti con cui i pazzi vengono letteralmente addormentati, resi inoffensivi. Non sta a me far commenti su questi bavagli “chimici”. Appena vi si ricorre, certo i deliri si dissolvono e il furioso diventa un agnello, una larva. Un medico, uno psichiatra, per curare, per guarire, non capirebbe di più attraverso un delirio che non in quell’oceano immoto, senza reazioni in cui i tranquillanti finiscono per affogare il malato? Le ho osservate da vicino, quelle paci chimiche: dentro, tutto sembrava morto, annientato. Difficile, dopo, sperare di vedervi emergere qualcosa ».

Cosa ti ha portato. a questo film che, tutto sommato, tratta argomenti insoliti nella tua carriera?

    « L’incontro con il libro, del tutto casuale; e, subito dopo, f incontro con Tobino, toscano come me e come me portato a dare della pazzia un ritratto non tradizionale, quasi sereno. Non è mancato, naturalmente, anche l’incontro con la pazzia come fenomeno sociale. Oggi basta aprire la televisione o leggere un giornale per sentire che qualcuno, in questo o quel settore, ha affrontato il problema, dimostrandone, documenti alla mano, l’attualità e la gravità. Basterebbe quello che si legge sui manicomi. (Anche se, insisto, il mio, non è un film sui manicomi, ma sui pazzi; e sul loro mistero) ».

Non riesco più a immaginarmi dei tuoi personaggi vestiti come noi, affidati all’attualità, dopo tanti tuoi film in costume. Fino a che punto, questa volta, ci sarà del « costume »?

    « Fin dove è costume e fa costume la moda del Trenta vista non tanto nei salotti quanto nelle corsie di un ospedale. Il romanzo, come sai, si ambienta in quegli anni e Piero Tosi, il costumista, ha ricostruito l’epoca con la precisione che gli è propria. Gli scialletti, però, delle pazze del Trenta non sono diversi da quelli che abbiamo visto a San Salvi sulle spalle delle pazze di oggi; e così i camici dei medici, delle suore, delle infermiere. In tutte le scene del manicomio, perciò, il pubblico non si accorgerà mai (o solo per dei piccoli dettagli) che a’azione si svolge quaranta e più anni fa; se ne accorgerà invece quelle poche volte che la vicenda si sposta in qualche casa privata, fuori, tra la gente normale. E quei costumi, quel costume, anche emblematicamente saranno un segno, un’indicazione visiva per distinguere il malato dal sano, il “diverso” dal cosiddetto normale ».

Il costume, un romanzo. Definiresti anche Per le antiche scale un tuo film « letterario »?

    « Lo definirei piuttosto una cronaca, un film di cronaca: drammatico, quanto l’argomento comporta e il libro suggerisce, ma disteso; non a fosche tinte ».

Bolognini e il cinema.

    « Non amo quello che faccio e non amo nemmeno quello che fanno oggi molti miei colleghi, salvo qualche eccezione. E le eccezioni sono sempre a favore di quegli autori i cui film mi piacevano anche dieci o quindici anni fa; a tutto danno, perciò, dei nuovi venuti.

    « Perché non amo quello che faccio? Perché oggi che saprei fare meglio e di più, non posso farlo, non me lo lasciano fare. È difficile, è molto difficile fare oggi del buon cinema: e questo non solo dal punto di vista produttivo (anche se, ormai, sta diventando un’impresa quasi improba), ma, spesso, a causa anche degli attori; e del pubblico. Attori bravi, bravissimi, ne abbiamo quanti ne vogliamo, ma quante volte ti dicono di no se il film che proponi non è abbastanza commerciale e di successo? E il pubblico? Oggi non sai più a quale pubblico ti rivolgi. È come non averlo. E se lo sai, ossia se riesci a individuare, attraverso gli incassi, attraverso i successi, il “campione tipo” di pubblico, allora ti spaventi; e all’idea di servire quel pubblico e quel suo gusto che va degradandosi ogni giorno di più, ti vien voglia di piantare tutto; e di non fare più cinema. È malinconico, lo so. Dopo anni di lavoro e quando uno si rende conto che ormai gli strumenti per riuscire li avrebbe tutti, non è giusto che si debba ragionar così. Ma la realtà è questa. Devi rimettere tutto ogni volta in discussione e ripassare gli esami. Ma a quale scopo? Per fare poi il cinema che si fa oggi? Qualcosa c’è, comunque, che ti conforta. Un film come Lacombe Lucien (1974), ad esempio, a me ha ridato la carica per qualche anno. Ma quanti ce ne sono, ogni anno, di film come il Lacombe? ».

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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