M – IL MOSTRO DI DÜSSELDORF (1931) DI FRITZ LANG. QUANDO IL CINEMA S’INTERROGA SULLA GIUSTIZIA E LA FOLLIA OMICIDA

Una filastrocca funerea cantata da bambine che giocano alla “conta” dentro il cortile di uno stabile. Siamo in Germania, un’intera città è in preda alla paura collettiva perché un assassino seriale (interpretato da Peter Lorre, attore reso famoso giustappunto per il suo volto dall’espressività carismatica e dallo sguardo penetrante) ha già ucciso otto bambine facendone sparire le tracce.

“Scappa scappa monellaccio, se no viene l’uomo nero col suo lungo coltellaccio,  per tagliare a pezzettini proprio te!”

    Il clima è di grande terrore e nell’aria si percepiscono strani segni premonitori: la nona vittima è già stata adocchiata dallo spietato killer, il suo nome è Elsie (Inge Landgut). Sono le prime scene di M – Il mostro di Düsseldorf (1931), primo film sonoro di Fritz Lang, sceneggiato dallo stesso regista e dalla moglie, la scrittrice Thea von Harbou, ispirato ad un fatto di cronaca accaduto realmente negli anni Venti del Novecento in Germania proprio nella città di Düsseldorf, seppure la pellicola sia ambientata a Berlino.

    Lang è uno dei maggiori cineasti del Ventesimo secolo, tra i maestri dell’espressionismo tedesco, corrente artistica che molto ha influito sull’arte cinematografica occidentale e la pellicola è una prima, magistrale prova di noir-poliziesco, un genere destinato ad aver una grande fortuna nell’arco di tutto il Novecento letterario e cinematografico. È anche il primo film sonoro del regista, considerato come una ricca sintesi tra la grande eredità espressiva del cinema muto, nel quale Lang ebbe modo di eccellere in capolavori come Metropolis (1927), e la novità del suono, elemento che non solo arricchisce la comunicazione ma che dona un grosso contributo nella resa della suspense, elemento importante all’interno dell’intreccio del film.

    L’attesa e la paura caratterizzano tutta la prima parte del film: il mostro è ancora libero di girare per la città e di adescare l’ennesima bambina con un palloncino acquistato da un ambulante, un uomo cieco; si mette in campo una caccia all’uomo spietata da parte della polizia che già aveva diramato delle taglie cospicue per chiunque fosse stato in grado di trovarlo e consegnarlo alla giustizia. Ma quali sono le vere sembianze del serial killer? Se lo chiedono tutti coloro che cercando di scovarlo tra i mille volti della città così come ce lo chiediamo noi spettatori catapultati all’interno film dal grande gioco di immagini e suoni che Lang ha saputo bene architettare. Il mostro è solo un’ombra, quella del suo cappello sulla testa proiettata nel cartellone in cui è scritta a carattere cubitali la sua taglia e la sua voce un motivetto macabro tratto dal Peer Gynt di Grieg, fischiettato dallo stesso prima di catturare ed uccidere le povere bambine cadute nella sua folle trappola mortale.

    L’ispettore Karl Lohmann (Otto Wernicke), capo della polizia, dispone una ricerca a tappeto anche nei quartieri controllati dalla criminalità e nei locali in cui impera la alla prostituzione. Qui entrano in gioco quelli che sono gli interessi della criminalità che non accetta che un folle assassino intralci i propri loschi affari. Non accetta neppure che si uccidano delle bambine, il più efferato tra i crimini che un uomo possa commettere ai danni del suo simile. Una voce, però, si leva: è quella di un fuorilegge (Grundgens Gustaf), ricercato dalle polizie di diversi Paesi, che dispone dei ben organizzati piani di ricerca su tutta la città del pericoloso serial killer affidando il compito ad una rete ben strutturata di spie adescate nella piccola criminalità locale.

    Ora il Mörder (l’assassino in tedesco) può svelare il suo volto: appaiono, così, i suoi occhi spiritati mentre, braccato dalla banda dei delinquenti, si nasconde impaurito in una fabbrica. Le sue fattezze adesso non fanno più paura. La sua fine è già segnata: catturato, viene posto innanzi ad un tribunale al giudizio di criminali e prostitute.
Quale tribunale può condannare a morte un uomo che con ogni probabilità non è sano di mente? È l’interrogativo al quale Fritz Lang chiama a rispondere. A maggior ragione se chi lo condanna ha fatto dell’omicidio e del crimine la sua ragione di vita. A noi rimane un finale dal sapore amaro: il carnefice viene “salvato” dalla polizia che irrompe tra i criminali/giudici e lo affida alla giustizia, quella ufficiale, dello Stato. Ma rimangono anche le sue parole condensate in un appassionato monologo, vero testamento ai posteri:

    “(…) Sì, spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso. Allora, voglio scappare! Scappare! Ma non posso, non posso fuggire! Devo, devo uscire ed essere inseguito! Devo correre, correre! Per strade senza fine! Voglio andare via! Voglio andare via! Ma con me corrono i fantasmi… di madri, di bambini… Non mi lasciano un momento! Sono sempre là! Sempre! Sempre! Sempre! Soltanto quando uccido. Solo allora… E poi non mi ricordo più nulla. Dopo… dopo mi trovo dinanzi ad un manifesto e leggo tutto quello che ho fatto. E leggo, leggo… Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? (…)”.

Davanti ad un omicidio, labile è il confine tra l’alterazione della coscienza – alias schizofrenia – e la congruità.

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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