LUCHINO VISCONTI, LA FORZA DI UN UOMO UMILIATO MA VITALE

«Sono vecchio, sono malato: ma so ancora dire qualcosa di più di molti giovani registi pieni soltanto di presunzione»: il j’accuse di Luchino Visconti contro le “nuove leve” del cinema italiano negli anni Settanta.

In giro c’è aria di grande attesa, Visconti. Questo Gruppo di famiglia in un interno, l’ultimo suo film: lo dicono così autobiografico, così visceralmente personale…

    No, no, guardi: non è vero. Di autobiografico nel film non c’è niente. Qualche umore, forse. Forse un identico substrato di sensibilità. . . Perché è chiaro: crei un opera e non puoi sdoppiarti, una parte di te finisce che ci si travasa sempre, che sempre poi la ritrovi, in fondo. Ma basta.

    L’ “eroe” del mio film chi è un professore. Uno che campa e si esalta raccogliendo quadri. Io no: io sono un cinematografaro che tutti i giorni va sul set. Anche adesso che la malattia m’ha così umiliato, sa, così ferito. Eppoi… Ecco: quello è un solitario, uno che s’è staccato dal mondo perché, dice, «se invece che delle opere mi occupassi degli uomini, i loro problemi diventerebbero i miei e finirei per restarne sommerso». Io no: io ho il mio lavoro, la mia gente… Io la solitudine totale l’ho sempre evitata, sempre detestata, e semmai cerco quell’altra: quella che scegli da te selezionando pochi amici e preferendo restare con te stesso, i tuoi libri, la tua musica, piuttosto che in mezzo mezzo a chi non ha niente da darti e cui non sapresti dare niente. Non è egocentrismo. È che di fronte al momento più essenziale di una creatura, se davvero l’ami passi sopra a tutto: lontananza, impegni, intoppi… È così ovvio. Se sei umano, beninteso. Se sei sensibile. Se anche tu hai sofferto e permesso alla vita di graffiarti, invece di rimanere a cercare soltanto che ti scivolasse addosso senza scalfirti. E io glielo chiarisco subito: preferisco mille volte un idiota sensibile a un mostro d’intelligenza cinico e freddo. quello m’ha messo e mi metterà a disagio sempre. Quello l’ho sentito e lo sentirò lontano sempre. I miei amici sono altri, la gente che amo è altra. Il terapista che mi cura. Oppure Helmut Berger, all’apparenza così scontroso, così difficile, e invece dentro così dolce, generoso leale. E anche Delon, sa: uno che si butterebbe dalla finestra, per darti una mano e tirarti fuori dai guai. Insomma: che venga col garofano in mano la signora-bene a farmi cinque minuti di “sci-sci” non me ne importa un accidente. Certi legami insinceri, mondani e cretini io li ho detestati sempre, sa? Il clientelismo alla romana… frequentiamo-quello-lì-perché-un-domani-non-si-sa-mai… Ma per l’amor di Dio! Io quando stavo in forze uscivo di più, andavo alle mostre, qualche porta di salotto me la lasciavano spalancare… Ma le giuro che mai una volta mi sono fatto invischiare da queste cose. Mai. E adesso, dopo questo male maledetto…

Ecco,Visconti: il suo male…

    Io dopodomani compio sessantotto anni, cara signora. Ma le giuro che né la vecchiaia né la malattia hanno piegato la mia voglia di vivere e di fare. Io mi sento fresco per altri dieci film, non uno. Film, teatro, musical… Io voglio affrontare tutto, tutto. Con passione. Perché bisogna sempre bruciare di passione, quando s’affronta qualcosa. E d’altronde siamo qui per questo: per bruciare finché la morte, che è I’ultimo atto della vita, non completi l’opera trasformandoci in cenere… Io ho un’età in cui di norma ci si mette a riposo. E figuriamoci se per di più si è anche malati. E però se m’obbligassero a star disteso su un letto aspettando l’esaurirsi del tempo… Be’, non c’è dubbio che creperei molto prima. Il professor Krayenbuehl, su a Zurigo, l’afferrò di colpo, che ero così. E difatti mi disse: «Lei non deve restare, Visconti. Se ne vada, lasci l’ospedale e ricominci». Partii appena fu possibile. C’era il montaggio di Ludwig, un lavoro affannoso, duro. Ma la mia salvezza era lì, io soltanto se reagisco… Oddio, prima ero libero. Prima strapazzavo il mio corpo come fosse il fatto più naturale del mondo. Eppoi, di colpo… Be’: lo schiaffo. l’improvvisa scoperta che certe cose non avrei potuto farle più, che la libertà se n’era andata per sempre. Io odio la mia malattia per questo: perché mi ha privato della libertà. Perché mi ha umiliato e mi sta umiliando continuamente. Perché imparare a camminare di nuovo, a muovere di nuovo le mani, ad adoperarle di nuovo… Eppoi il bisogno di essere accudito, il bisogno che ci sia sempre qualcuno lì pronto a vestirti, metterti le scarpe, farti la barba, pettinarti… È talmente avvilente, signora mia. Ti ferisce in modo così orribile… E dunque ti ribelli, sicuro. Ma dentro di te, con gli altri non servirebbe, non sarebbe giusto. Certi giorni davvero fatico a sopportarmi, sa? E allora per non pensare, per non “sentire”, mi applico ancora di più, mi sforzo ancora di più. Non che in genere sia molto disciplinato, questo no: fumo ancora, sul lavoro tiro più di quanto non dovrei, se prima davo cento adesso cerco di dare almeno novanta… Perché è così, signora mia: io, prima, rialzavo e sempre esemplificavo le scene per gli attori. Ma adesso non lo faccio più, adesso devo limitarmi a spiegargliele a voce. E il limite è sempre umiliante, sa, sempre tremendo.

Torniamo al film, Visconti. Al tema che lei affronta e che, ancora una volta, è il tema di sempre: la famiglia, appunto. O meglio: il suo disfacimento e la sua autodistruzione.

  È vero: le mie storie sono queste. Storie di gruppi familiari che stanno andando alla rovina. Ricordi Il Gattopardo, ricordi la caduta degli dèi. Sempre storie negative, ha ragione. Tranne La terra trema, forse. Lei mi chiede perché. Perché le racconto come racconterei un requiem. Perché raccontare i buoni sentimenti è più facile e i meno buoni più difficile, ma anche più giusto e più opportuno. Io amo raccontare delle tragedie, è vero. Amo raccontare di quanto i rapporti si esasperino a un punto tale che non possono preludere a nulla di diverso. E però i ricordi personali non c’entrano, le influenze del passato non c’entrano. La mia fu una famiglia talmente straordinaria, sa? Eravamo e siamo tutti talmente legati, talmente uniti… Sette fratelli cresciuti con un padre e una madre stupendi. Mio padre! Un nobile, ma certo non un frivolo e tanto meno un cretino. Un uomo colto e sensibile che amava la musica e amava il teatro. Che ci ha aiutati tutti a capire e ad apprezzare l’arte. Io sono cresciuto con l’odor di palcoscenico nelle narici. Quello personale che avevamo in via Cerva e quello, stupendo, esaltante, della Scala, che allora era una cosa privata, sostenuta dal mecenatismo di mio nonno prima e di mio zio dopo… E anche l’odore di farmacia è cresciuto con me. Perché mia madre si chiamava Erba ed era una borghese. I suoi venivano dalle parti di Porta Garibaldi, avevano cominciato vendendo medicinali per strada, col carretto… Ma ormai si era al grande stabilimento, e noi ragazzi entravamo in quei corridoi che puzzavano di acido fenico ed era così eccitante, così avventuroso… Il senso di concretezza che ho sempre avuto credo d’averlo preso da quel ramo lì: dal ramo di mia madre. E mia madre s’occupava di tutto ma soprattutto dei figli… Erano giornate dure, certo. E però ci hanno allenato a crescere vivi, non dei cialtroni aristocratici come certi principi romani che non hanno mai avuto voglia di fare niente… Io l’ho imparato lì, sa, a essere rigoroso. Con me stesso e con gli altri. Perché è chiaro: se esigi il massimo da te, lo esigi anche dagli altri, dopo. E difatti io il pressappochismo non l’ho sopportato mai, io se c’è da lavorare lavoro e basta.

Già: la sua fama è questa. Sul set o in palcoscenico, dicono, il rigorismo di Visconti è assoluto.

    Assoluto ma necessario. Perché, di per sé, l’uomo non è che sia un animale tra i più disciplinati e coscienziosi.

Dimenticavo: lei è pessimista…

    Obiettivo, solo obiettivo. E d’altronde, basta guardarsi attorno. Dov’è arrivato l’uomo, con tutta la sua frenesia e i suoi falsi ideali? Al mondo che sta andando allo sfacelo. All’alienazione, la cattiveria, l’aridità. All’incapacità di controllarsi… E tu che fai dello spettacolo devi captarle, queste cose. Devi denunciarle.

In pieno fascismo lei ci diede Ossessione, osò portare sullo schermo uno spaccato d’Italia autentica e autenticamente popolare… E poi ci diede La terra trema, nel’48. E ancora il realismo di Rocco e i suoi fratelli, il suo “meridionalismo”… Perché cambiar rotta, dopo? Perché ripiegarsi sul passato, le cadute degli dèi, i Ludwig, le morti a Venezia?… Ci propone la storia di una solitudine…

    La sua ingenuità è commovente. Mi sta chiedendo perché non faccio più film prettamente politici e io le dico che è molto semplice: perché i film si fanno con i soldi, i soldi li mettono i produttori e i produttori davvero non sono degli asceti col problema delle ingiustizie sociali. Sono degli affaristi, semmai. Dei sordidi affaristi, a volte. E anche pieni di paure, anche legati mani e piedi al capitale straniero. Lo dovrebbe sapere pure lei che il cinema patrio ormai va avanti quasi in blocco col dollaro alle spalle. Dollaro Usa, è naturale. No, no, guardi: i produttori vogliono altra roba, vogliono il nudo, vogliono l’erotismo. E siccome io davvero mi rifiuto, siccome non posso diventare Pitigrilli a settant’anni, siccome sono legato al “mio” cinema e intendo rimanerci… Ecco: certe cose preferisco non farle, se l’alternativa è il compromesso e il diktat. Tuttavia non può venirmi a dire che impunemente mi rifugio nel passato e amen. Il calendario non è poi così importante, cara signora: sono importanti i temi, le idee… Il passato a cosa serve? A spiegare il “sempre”. Perché da ogni film, sa, da ogni racconto salta fuori che la storia si ripete, resta valida… Che le dittature, siano politiche o intellettuali non cambia, sono detestabili sempre, sono sempre orribili. Io parlo di tradimenti, è vero: parlo di nuclei malati e di lotte tribali. Ma nella speranza che queste cose non accadano più. Che il simbolo della famiglia si rivaluti. A parte che questo ultimo film è anche più seriamente politico: tratta di trame nere, tratta di golpe. Ed è già molto, in un panorama di cinematografia come il nostro. Se pensa che puntavano sui Samperi e i Samperi si sono buttati sulle malizie a la parata dei seni dell‘Antonelli. Che poi è anche facile, sa: essendo una ragazza piuttosto sexy, basta spogliarla un po’ e quel genere lì è bello e pronto. No, no, guardi, i miei giovani colleghi mancano di flato e trasudano conformismo. E io salvo ben poco, del nostro cinema. Amacord, Il portiere di notte. Io la Cavani l’adoro, sa? Fra tanti cialtroni, almeno è coerente.

Come dire che sulla piazza restano sempre gli stessi:Visconti, Fellini, Antonioni.

    Mi spieghi lei chi altro c’è. Bellocchio? Non ci ho mai creduto, e difatti è sparito. Bertolucci? Il Tango non l’ho visto, bene Il conformista, però è molto meglio se la piantasse con certe acrobazie. Pasolini? Alcune cose belle e altre no. Zeffirelli? Un ragazzino che poteva venir su mica male ma s’è guastato per strada e talvolta ha delle vanità così sciocche, così femminili… No, no: semmai resta Petri, resta Rosi

Resta Carmelo Bene

    Per l’amor di Dio! L’han portato alle stelle dopo le prime cose teatrali, che poi erano delle gran boiate anche quelle… No, no, guardi: il più rivoluzionario, il più avanzato di tutti sa chi è? Luis Buñuel. Buñuel, con i suoi settant’anni e passa, li batte in blocco i nostri presuntuosi avanguardisti da strapazzo.

Insomma, la sua visione del cinema non è cambiata. Vent’anni fa, con Bellissima lei già ne denunciava certe mistificazioni…

    Feci quel film perché volevo lavorare con la Magnani. Un’attrice talmente stupenda, sa, una donna talmente straordinaria! Una che post mortem furono tutti lì a declamarne il giubileo. E però finché era in vita la snobbavano preferendole certe cretine incredibili. No, no, guardi: se dovessi ripeterlo, quel film, oggi sarei molto più pessimista e molto più duro. Il panorama non è esaltante, gliel’ho detto. Attorno c’è tanta di quella presunzione, si imita talmente tanto, si sono talmente perse per strada le idee, che non resta che un mezzo: ricorrere alla pornografia più vieta e alla violenza più orripilante per tentar di riempire il vuoto assoluto.

“Visconti il nobile rosso”. Era la sua etichetta, no?

    Che idiozia! Io la mia nobiltà non l’ho sbandierata mai, mai. Io non sono mai stato cresciuto nella prospettiva di diventare un aristocratico cretino accasciato sui retaggi della famiglia. Io sono sempre stato un gran liberale, un gran ribelle. Anche se, politicamente, le idee me le sono chiarite piuttosto tardi… Avevo sedici anni, sa, quando tagliai la corda per la prima volta. Scappai a Roma. E mio padre venne giù a scovarmi eppoi mi disse: «Già che ci sei, rimani! Ma almeno istruisciti, almeno va a dare un’occhiata ai monumenti». E subito mi pilotò in San Pietro in Vincoli ad ammirare il Mosè. Gli piantavo certi conti spaventosi da Baldini e Castoldi, e non s’è mai lamentato. «Siccome si tratta di libri», diceva, «sbizzarrisciti pure». Io leggevo tutto Shakespeare, sa, da ragazzo, Lo sapevo tutto a memoria. Proust ho cominciato a leggerlo nel 1921, nel 1922… Mio padre mi diede Du côté de chez Swann… e fu proprio una febbre. Io sono rimasto lì. A Proust, a Stendhal, a Balzac; non ho mai cambiato. Come non ho mai cambiato in politica, d’altronde. In politica, se ho avuto dei dubbi li ho avuti sulle persone, mai sui principi…

Mi stava parlando delle sue fughe, Visconti.

Già. Scappai di nuovo poco tempo dopo. E quella volta arrivò il fratello maggiore, a prelevarmi. E mi ficcarono in collegio, ma scappai anche da lì. Allora tentarono di iniziarmi col lavoro. Ma non è che la pigliavo molto seriamente, anzi: impiantavo una tale rivoluzione tra le impiegate, creavo tanti di quei bordelli che mi buttarono fuori quasi subito… Perché non ero male, sa? E le donne si pigliavano certe cotte… Anche a Parigi. C’ero andato per via del cinema. E Chanel, Coco, la stupenda Coco, mi aveva presentato a Renoir. Fui il suo aiuto in Una gita in campagna (1946). Poi tornai in Italia: era morta mia madre, la creatura che ho amato di più. Pensavo: la mia vita è finita. Pensavo: senza di lei campare non mi interessa… Dopo, ci fu la Resistenza, ci furono le azioni nei Gap, le lotte sulle montagne dell’Abruzzo. Fui anche preso, sbattuto in cella, quasi fucilato. Ci tirai fuori la pelle solo perché Koch, quel fascistone, realizzò che non avrebbe cavato niente, coi suoi maledetti interrogatori. Ricominciai col cinema a Liberazione avvenuta. Volevo far La terra trema e il Pci mi diede tre milioni che si volatilizzarono quasi di colpo. Allora vendetti i quadri e i gioielli di mia madre. E non le dico la gente, quando il film uscì. Stavo in piedi in fondo alla scala e vedevo queste belle signore in pelliccia d’ermellino che a metà s’alzavano senza pudore, senza imbarazzo… Che roba! Dicevano. Che schifo! Però non mi sono mai scoraggiato, mai. Pensi alle rogne che ebbi più tardi con Rocco e i suoi fratelli: scene tagliate, altre oscurate. Anche se, al confronto di certe sconcezze ignobili che si vedono oggi, era proprio roba da educandato… Io allo stile ci tengo.

Non c’è dubbio, Visconti: lei è sempre così estetizzante…

Dica pure decadente, cara, dica pure decadente. Ormai è un ritornello fisso… Peccato che alcuni usino quel termine per dire vizioso, morboso. E invece è solo una certa maniera di concepire l’arte, di apprezzarla, di farla… Thomas Mann un decadente? Come paragone mi va benissimo.

LINA COLETTI

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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