VISCONTI, PROCESSO A ROCCO E I SUOI FRATELLI

Alla fine degli anni Cinquanta Luchino Visconti racconta con questo film la Milano delle prime ondate di immigrazione meridionale, che poi segneranno gli anni del “boom”. Il regista – discusso e celebrato – si dichiara soddisfatto del risultato espressivo dell’opera, e della condanna che talora suscita nel pubblico.

Centinaia di migliaia di italiani sono andati a vedere Rocco e i suoi fratelli (1960); i giudizi sono contrastanti. Una parte del pubblico reagisce al film in maniera negativa…

    Veramente? A me non risulta. Tuttavia, per sincerarmene, dovrei andare ad assistere a qualche proiezione, cosa che non posso fare: per me il film è ormai finito e concluso anche se non l’ho abbandonato dentro di me. Però so che ogni sera, a Roma come a Torino, a Firenze come a Milano, la gente applaude: e questo succede alla fine del film, cioè poco dopo la cosiddetta “scena forte” tanto discussa. Continuo a ricevere lettere di spettatori, e sono lettere favorevoli. Stranamente, sono quasi sempre delle donne che mi scrivono. Ecco qua: da Torino una signora mi dice che ha visto pochi film così morali. Da Milano una madre di famiglia mi fa questa domanda: «Le pare giusto che dei ragazzi, solo che abbiano compiuto sedici anni, assistano a una vicenda così spietata? A questa lettera, vorrei rispondere con calma: per dire come sia un dovere per tutti impedire che i giovani scoprano certe realtà della vita da soli, senza che qualcuno gliele spieghi prima, onestamente e chiaramente.

Durante la proiezione c’è gente che a un certo punto chiude gli occhi o gira la testa. «Scene di inaudita brutalità», le ha definite qualcuno. Sono lo stupro di Nadia sotto al ponte della Ghisolfa, il pestaggio cli Rocco, infine l'”efferato delitto”, come direbbero i cronisti di “nera”, erano necessarie tutte quelle coltellate?

    Il problema del sesso, della violenza fisica e della degenerazione dei rapporti umani in rapporti di giungla è all’ordine del giorno. Inutile chiudere gli occhi su di esso o assumere a questo proposito atteggiamenti di reprimenda puritana. Non si risolverebbe nulla. Sadismo da parte mia? No: forse da parte di Simone che uccide Nadia. Quante volte non abbiamo letto, sui giornali che vanno in mano a tutti, nel freddo linguaggio della cronaca, la descrizione dell’assassinio di una prostituta, e ci siamo domandati come un uomo fosse arrivato a colpire così brutalmente, quasi senza accorgersene? Io ho cercato di spiegare come. Ma il quadro generale in cui si compie il delitto di Simone non ammette indulgenze verso di esso. Io sono soddisfatto del risultato espressivo che ho ottenuto: dell’orrore che provoca, e dell’implicita condanna che suscita per il fatto raccontato.

Lei descrive veristicamente delitti e debolezze umane, ma in fondo ci mette una giustificazione morale. Eppure qualcuno sostiene che per esempio la lite fra i due fratelli è stata descritta con una crudezza e un’insistenza…

    E vediamo questa famosa scazzottatura. Sono settanta metri di pellicola: qualsiasi “western”, qualsiasi film americano sul gangsterismo può contenere scene assai più violente, con una funzione che nella maggior parte dei casi è solo spettacolare. I pugni con cui Simone fa sanguinare la faccia di Rocco hanno invece un preciso scopo didascalico. Cosa vuol dire poi delle altre scene poste sotto accusa? C’è almeno un punto su cui tutti i critici si sono trovati d’accordo: sensualità e morbosità sono assenti dal mio film. Per quello che riguarda il problema dei rapporti sessuali, comunque, occorre tener presente la differenza fra erotismo e pornografia. Non si può far passare per pornografia tutto ciò che, audacemente e senza pregiudizi, guarda in faccia la realtà.

Aveva in mente fin dall’inizio il film che poi è riuscito a fare, oppure Rocco si è trasformato strada facendo?

    Il punto che mi sembra fondamentale è questo: l’idea centrale da cui è nato il film è il conflitto non risolto tra Nord e Sud. È l’esistenza d’una “questione meridionale” grave, lacerante e ricca di commozione. Senza quell’idea, dalla quale non mi sono mai distaccato nel corso delle riprese, avrei raccontato una semplice storia di cronaca nera. E in tal caso, certamente, non mi sarei attirato gli strali di tanti moralizzatori.

A quale personaggio ha pensato per primo?

    Senz’altro a Rocco. Ma all’inizio lui e Ciro erano una stessa persona. Poi, al momento di preparare la sceneggiatura, è avvenuto uno sdoppiamento.

Rocco: per questo “angelico” strumento di espiazione si è parlato d’ispirazione dostoevskiana. Non a tutti il personaggio sembra convincente.

    L’ispirazione dostoevskiana esiste. Basta ricordare Miskin. Qui, tuttavia, si tratta di un vero e proprio profeta disarmato. Io credo fermamente nella utilità dell’utopia e credo anche che i profeti disarmati siano tanto più necessari al mondo quanto più è intensa la loro fede. Si pensi a Gandhi. E per fare due esempi “meridionali”, si pensi a Danilo Dolci e a Scotellaro. Io amo molto il personaggio di Rocco. Tuttavia non posso non essere d’accordo con le parole che ho messo in bocca al fratello Ciro nella scena finale del film: «Rocco è ‘nu santo, ma nel mondo che po’ fa’ uno come lui che nun se vo, difende? Isse perdona a tutti, ma non sempre se deve perdonà».

Vediamo gli altri fratelli. Vincenzo che subisce per primo l”‘integrazione” milanese ma senza trovare una strada precisa, Simone che si perde, Ciro che riesce veramente a inserirsi, Luca che rappresenta tutte le possibilità di domani. Poi c’è la madre, che fa da punto d’incontro di tutti i tentativi dei figli e di tutti i sentimenti familiari. Sono altrettanti simboli?

    Il fatto che I’integrazione non ha trovato nel film una strada definitiva ha il suo motivo drammatico proprio in questo: che l’integrazione è un mito. Il problema che io ho voluto porre è quello della necessità di una modificazione di coscienza di tutti gli italiani, non quello dell’inserimento paternalistico e pietistico di un Meridione povero in un Settentrione ricco. Su questa strada, Vincenzo si ferma a metà, e s’accontenta di un mediocre assestamento. Simone precipita nella catastrofe per i suoi pregiudizi (l’onore) e per l’abbaglio di un successo individuale ottenuto a ogni costo. Ciro invece prende coscienza della sua esistenza di cittadino e la prende attraverso lo studio e il lavoro. Luca, più che la speranza, è la certezza che da una tale presa di coscienza deriva una purificazione degli animi e una radicale trasformazione dei rapporti fra gli uomini. La madre è lo specchio passivo di tutto il bene e di tutto il male. In lei prevale il sentimento sanguigno e materiale della famiglia. È al tempo stesso una forza di propulsione e un freno. In lei, insomma, si riassume il tipico conflitto della donna italiana, sospesa fra il passato e l’avvenire.

Quali sono le “radici” del film?

    Tutti i miei lavori meridionalisti, soprattutto Rocco, oltre alla fonte letteraria di Verga ne hanno evidentemente un’altra: quella della narrativa e del teatro (da Dostoevskij a Sartre e a Miller). Ma le fonti del mio meridionalismo non sono soltanto letterarie, sono anche ideologiche e sociali.

Gramsci e Levi?

    Certo. Senza aver letto e assimilato la Questione meridionale di Gramsci non credo che sarei mai arrivato a certe conclusioni. Così, nel carattere di Rocco, dei suoi fratelli e della loro madre, vive un riflesso delle intuizioni che Carlo Levi ha avuto in tutti i suoi libri sul Mezzogiorno. Il film può quindi considerarsi la continuazione di un discorso iniziato anni fa con Ossessione, e soprattutto con La terra trema. (Una vera trilogia? Se si parte dal fatto che il protagonista di Ossessione era anche lui un disoccupato, e che attraverso le sue vicende dolorose si gettava un raggio di luce oltre la cortina di menzogne che il fascismo alzava tra i cittadini e la realtà del Paese, si può ben dire che quel film fu il primo di una trilogia che ha come tema l’amore per I’Italia e l’ansia di approfondire i nostri problemi umani e sociali. Del resto, tutti ricordano che Ossessione fu proibito dalle autorità fasciste dopo le prime due o tre programmazioni. Contro il ritorno di simili sistemi, per fortuna, c’è ora chi vigila egregiamente. Se con Ossessione, con La terra trema e ora con Rocco io ho contribuito, sia pure in minima parte, a coltivar nello spirito pubblico il senso di una simile vigilanza, sono i fatti stessi che fanno, dei tre film, un tutto unitario anziché tre momenti isolati.

Qualche giornale l’ha accusata di aver spinto il suo verismo descrittivo fino ai limiti dell’immoralità.

    Io ho spinto a fondo lo sguardo nello sconquasso morale di una famiglia di meridionale venuta al Nord in cerca di lavoro e di fortuna. Se mi fossi limitato a raccontare le vicende di questo sconquasso isolandone gli aspetti più brutali e senza via d’uscita, avrei messo in luce solo una parte della verità e avrei fatto opera moralmente sbagliata. Così come avrei fatto opera moralmente sbagliata se avessi relegato i miei personaggi nello schema tradizionale dell’umile che si eleva sulla scala sociale a forza di servile ossequio verso i modelli della classe dominante. Io sostengo che la prima moralità consista nella verità, e sfido chiunque a dimostrarmi che Rocco e i suoi fratelli sia un film menzognero. Ho inteso dire a tutti che vi è qualcosa di insopportabile nella vita degli uomini, e che è inutile cercare vie d’uscita al di fuori di un mutamento profondo dell’assetto sociale e della coscienza.

Cioè, la soluzione che lei indica con il personaggio di Ciro, il fratello che rifiuta ogni facile sogno di successo, diventa operaio specializzato e realizza il vero inserimento nella vita sociale del Nord.

    Esattamente: Ciro. La morale del mio film sta anche nel suo colloquio con il piccolo Luca davanti ai cancelli dell’Alfa Romeo, alla fine del film. A onore del vero debbo dire che la minacciata mutilazione della pellicola ha trovato un precedente solo negli organi di stampa dell’Azione cattolica. Evidentemente, tra la mia visione del bene come risultato di più giusti rapporti umani e una visione del bene legata a deformazioni ipocrite della realtà quotidiana c’è una vera e propria inconciliabilità, così come fra cultura moderna e concezione dogmatica del mondo, qualunque essa sia. Sono convinto che un cattolico in buona fede, legato solo alle sue convinzioni religiose e senza paraocchi, non potrà che darmi ragione.

Come alla presentazione del film La dolce vita anche per Rocco e i suoi fratelli le proteste più vivaci si sono avute a Milano. Dopo Fellini, Visconti. A lei però non sono toccati gli sputi. Pensa che Milano sia una città più suscettibile e più moralista delle altre?

    Forse a me non sono toccati gli sputi di qualche spettatore risentito solo perché non ero presente a quella “prima”. Tuttavia non credo che dagli episodi di dieci giorni fa si possano trarre giudizi su un’intera città. Sono milanese e credo di conoscere bene Milano. Non è vero che il pubblico milanese ha reagito male al film. La sera del 13 ottobre, in mezzo al solito pubblico degli spettacoli di gala, c’era qualche decina di persone dissenzienti. Molte altre proiezioni, ripeto, si sono concluse con applausi nello stesso cinema. E la gente assedia i botteghini, a Roma come a Milano.

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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