RENÉ CLAIR E IL CINEMA INCERTO

Tra i poeti maggiori della settima arte, Accademico di Francia, nel cinema da per molti decenni, con Entr’acte (1924), uno dei capolavori del surrealismo cinematografico.

Entr’acte, allora…

    «Diciamo le cose come stanno. È un film che si proietta da cinquant’anni nei cineclub, che ha fatto versare fiumi d’inchiostro, che occupa un posto di rilievo nella storia del cinema. Per quel che mi riguarda, però, io mi sono limitato a realizzarlo su commissione e ne ho un solo ricordo preciso: i fischi alla sua “prima”.

    Torniamo al 1924, quando Rolf de Maré finanziava la compagnia dei balletti svedesi al teatro dei Champs-Elysées, diretto da Jacques Hébertot. Nel novembre di quell’anno, uno spettacolo della compagnia, misteriosamente intitolato Relache (Riposo), venne annunciato così: “Balletto istantaneista in due atti e un entr’acte cinematografico“, e La coda del cane di Francis Picabia. Musica di Erik Satie. Scenografia di Picabia. Entr’acte cinematografico di René Clair“. Perché quel balletto si chiamasse istantaneista nessuno lo ha mai spiegato. Cosa fosse La coda del cane di Picabia nessuno 1’ha mai saputo, perché non fu mai realizzata. Io, invece, su precisa richiesta di Picabia che, per incarico di Rolf de Maré, sulla carta intestata del ristorante Maxim’s, mi aveva persino buttato giù un soggettino, realizzai un breve film che fu proiettato in teatro, tra il primo e il secondo atto dello spettacolo di balletti, con musiche scritte apposta da Satie e, naturalmente, suonate in sala dall’orchestra (erano gli anni del muto, non dimentichiamolo).

    «Sin dalle prime immagini cominciarono in sala i mormorii, che, a poco a poco, si trasformarono in urla, in fischi, in vociferazioni. Picabia, che diceva sempre di preferire le grida agli applausi, ne fu più che soddisfatto. Satie, che ci aveva assicurato di avere scritto una “musica pornografica” che, però, “non avrebbe fatto arrossire né un uovo, né un’aragosta”, non si scompose. La critica lodò, ma si chiese quanta sincerità vi fosse nella mia opera. Ed è proprio la domanda cui anche oggi, nonostante il posto che voi critici avete dato ad Entr’cte nella storia del cinema, io non saprei rispondere tanto facilmente. Neanch’io, infatti, sono in grado di distinguere quanto di provocazione, di mistificazione e di serietà ci fosse in quel mio contributo ad un’opera improvvisata per una sera soltanto e che il caso, invece, ha fatto poi sopravvivere per così tanti anni. Penso, comunque, che ne riassuma meglio gli ipotetici valori il giudizio dato allora da Picabia: Entr’acte non crede a molte cose, ma crede al piacere della vita; e anche al piacere di inventare, e rispetta una sola cosa, il desiderio di vivere, dato che ridere, pensare, lavorare hanno un’importanza uguale e sono indispensabili l’uno all’altro.”»

E il giudizio negativo del pubblico di allora?

    «Preferisco quei fischi ai troppi applausi addomesticati che si sentono oggi e che spesso sono frutto solo di snobismo. Quando questo tipo di snobismo da élite contagia anche la grande massa del pubblico, c’è sempre il rischio che si arrivi presto alla rinuncia di qualsiasi giudizio personale, al conformismo e alla supina acquiescenza di fronte alle varie dittature dei gusti e delle idee. Non c’è niente di più triste di un pubblico disciplinato e irreggimentato che più si annoia e più si sente obbligato ad applaudire. È un pubblico pericoloso, pronto, domani, a marciare anche al passo dell’oca».

Eppure oggi la noia c’è chi pretende di farla passare per arte.

    «Appunto. E cercano persino di darle una patente di nobiltà. E i problemi? Quante volte al cinema sentiamo dire: “Il problema che…“, “I problemi di cui…“. quanti problemi dovrebbe risolvere oggi lo schermo, quanti matematici, quanti professori ci sono tra i discendenti di Mack Sennett! E “i mondi”? Ci sono anche i mondi, l’ultima trovata dei saggisti. Il primo esordiente che fa un film un po’ difficile è subito definito come uno che ci propone la sua “personale visione del mondo” o, più semplicemente, “il suo mondo” o, con più modestia, il “suo universo”. C’è il mondo di questo, che è “tutto soggettivo”, il mondo di quello, che è “tutta interiorità”. Il risultato, però, è sempre uno solo: un mondo di noia.

    «Ma possibile che tutti coloro che si pascono di questa noia non si rendano conto che nella breve storia del cinema e nella lunghissima storia del teatro le opere che hanno segnato una data e che sono rimaste sono il contrario esatto di opere noiose? Sofocle, Shakespeare, Molière, Cechov sapevano interessare il loro pubblico e anche oggi sono vivi e vitali, rappresentati, applauditi. E perché non si pensa che sarebbe almeno educato preoccuparsi delle reazioni di quel pubblico cui chiediamo di metterci a disposizione un’ora o due della sua vita, per di più pagandoci? Uno spettatore non è un lettore. Il lettore, se ha voglia, può chiudere il libro. lo spettatore non può concedersi pause. Un minuto di noia nel corso di uno spettacolo può non sembrare grave, ma, se si tratta di uno spettacolo che richiama milioni di sguardi finirà per provocare un milione di minuti di noia. E non è un peso da poco nella bilancia del tempo».

E i film a tesi?

    «Non credo ai racconti a tesi, alla “morale della favola”, alle allegorie. Al raggio di luce che rappresenta la solitudine, al secchio della spazzatura che simboleggia la civiltà, all’inseguimento del gangster emblema della ricerca di Dio… Le idee si addicono agli scritti, ma uno spettacolo, anche se può implicitamente suggerirle, non ha veste né possibilità per rappresentarle in maniera esplicita. Se vuole, le esponga, ma per carità non si impanchi a dimostrarle. Se c’è stato uno che credeva alle idee è stato Voltaire, ed è stato, invece, lui a dichiarare: “In teatro non serve avere ragione, serve solo commuovere“».

 E l’anti-cinema?

    «E già, c’è anche quello. Tempo fa un critico d’arte pontificava: “Se un quadro vi piace a prima vista, è brutto. Se un’opera d’arte esige uno sforzo da parte dello spettatore, allora tutto bene. L’arte, per essere tale, deve, per prima cosa, dispiacere“. Tutto cambia, insomma. Prima 1’artista doveva sforzarsi di piacere. Adesso gli basta dispiacere. Ho sentito un giovane autore dichiarare che un film deve esprimere il rifiuto dell’idea di spettacolo. Inutile discutere con chi sostiene simili teorie. Il cinema, però, nonostante costoro, è spettacolo, non anti-cinema. Ce lo hanno confermato in tanti, e non tra i minori. Apollinaire, ad esempio: “L’età. d’oro era quella in cui si recitava a tutto il popolo riunito, e niente più del cinema è vicino a questo popolo così riunito“. E l’augurio di André Malraux di vedere presto l’arte e la letteratura acquistare quelle dimensioni di massa che sono le nostre? E le affermazioni di Jean Epstein più di quarant’anni fa?: “È sbagliato parlare di cinema per élite. Quello non è cinema, è letteratura“. E più di tutti, e con più autorità di tutti, Ingmar Bergman (che pure passa per un regista difficile): “L’autore cinematografico ha a che fare con un mezzo di espressione che non interessa solo lui, ma milioni dm.i altre persone che dicono: ho pagato, voglio divertirmi, voglio dimenticare i miei problemi, voglio evadere. E l’autore, facendo un film, non può non tenerne conto“».

L’autore. Ma chi è il vero autore di un film?

    «Altro problema. Sono anni che se ne discute. Risposte definitive non ne ho mai date. È certo comunque che è autore di un film anche chi lo trae da un testo preesistente, se, dominandolo, lo ricrea in modo nuovo, attraverso un mezzo di espressione diverso da quello che inizialmente gli era stato destinato. Se si dovesse dire, infatti, che è un autore di un’opera quello che le dà l’idea base, si dovrebbe rivedere tutta la storia della letteratura e del teatro. Racine non diceva forse di dovere gli spunti delle tragedie a Tacito e a Seneca? Ed è anche certo che, nonostante quanto pretendevano una volta gli americani, non è autore di un film, quello che lo paga e per il fatto stesso che lo paga. Altrimenti, in altro campo, 1’autore del Mosè e degli affreschi della Sistina, sarebbe Giulio II e non il… salariato Michelangelo».

Torniamo a Entr’acte. E l’avanguardia?

    «Tutto il cinema che conta è avanguardia perché quello che interessa ai veri autori di cinema è di far progredire il cinema. In questo senso, meritano in molti di militare tra le fila dell’avanguardia. Chaplin per primo, che ha fatto fare un enorme balzo in avanti al cinema americano dei suoi tempi. Ma oggi per avanguardia si intende anche ricerca, sperimentalismo, laboratorio, e sempre allo stesso modo, con le stesse civetterie. E allora preferisco essere d’accordo con quanto diceva Louis Jouvet molti anni fa: “Nelle arti dello spettacolo tutto si evolve, tutto si muove. C’è una sola cosa che non cambia mai: l’avanguardia“».

Pubblicazioni di riferimento: Positif (AA. e Nrr. VV.), Image et son (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Cinématographe (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.)

GALLERIA FOTO

GALLERIA VIDEO