IL FANTASTICO DI RENÉ CLAIR

René Clair è uno di quei registi illuminati dal suo straordinario gusto per la commedia, che non di rado sfocia nella fantasia pura, e la sua ironica capacità di cogliere gli umori della vita francese, ne fanno uno dei registi più amati dal pubblico, non solamente francese.

    La sua predilezione per il fantastico lo porta ad esordire proprio con una deliziosa fiaba fantascientifica da lui
stesso scritta: Paris qui dort (1924) che mostra una Parigi completamente immobilizzata, con persone fissate in pose innaturali a causa di un raggio magico inventato da uno scienziato. Quando alcuni turisti marsigliesi cercano di far rifunzionare il raggio nella maniera giusta per far sì che tutto torni alla normalità, qualcosa si inceppa cosicché i veicoli e le persone della città riprendono a muoversi, ma al rallentatore o in accelerazione ed anche a ritroso. Quando finalmente Parigi torna alla normalità, la bonaria ironia di Clair ci mostra tutta l’evidenza del cuore della metropoli. Il miscuglio di umorismo e poesia che contraddistingue Paris qui dort è anche veicolo di sperimentazione tecnica che prepara l’exploit di Entr’acte (1924), manifesto del cinema dada-surrealista realizzato con l’intento di fare un cinema non narrativo secondo i dettami dell’avanguardia. Anche le due successive regie di Clair sono di natura fantastica: ll fantasma del Moulin Rouge (1924) e Il viaggio immaginario (1925), il primo concepito in una struttura da giallo, verte sulle indagini di un reporter sulla scomparsa di un deputato. Costui, grazie ad un medico seguace dello spiritismo, ha lasciato il suo cadavere nella clinica in cui è stato trasportato, mentre il suo spirito se ne va in giro per il mondo divertendosi a commettere ogni sorta di scherzi. Quando però egli si accorge che la sua vecchia innamorata piange la sua morte, decide di tornare nel suo corpo; e ci riesce appena in tempo, prima che esso venga sottoposto ad autopsia. L’obbligato lieto fine sarà una consuetudine per quasi tutti i film di René Clair. Direttamente ispirato ai trucchi e all’universo fantastico di Georges Méliès, è il successivo Il viaggio immaginario, imperniato sul sogno del timido impiegato Jean la cui avventura onirica è popolata di fate, streghe e incantesimi di vario tipo, tutti visualizzati con scenografie e spazi immaginari parecchio debitori di Méliès.

    René Clair torna alla commedia fantastica solo dopo l’avvento del sonoro, durante il suo periodo inglese con Il fantasma galante (1935), interpretato da Robert Donat nel ruolo di un fantasma che vive da diversi secoli in un vecchio castello scozzese. Quando I’edificio viene venduto a un americano che lo fa smontare pezzo per pezzo e ricostruire nel suo Paese, anche il fantasma si trova compreso nel prezzo e deve emigrare in America, così come farà lo stesso Clair all’inizio della Seconda guerra mondiale. Durante il suo periodo americano, è proprio nel fantastico che egli acquisisce i suoi migliori risultati.

    Ho sposato una strega (1942) è una girandola vorticosa di equivoci degna del miglior Clair. La storia verte sullo spirito di una strega, morta sul rogo secoli prima, che si reincarna nel corpo di una splendida ragazza (Veronica Lake) allo scopo di vendicarsi del discendente di chi causò la sua fine (Fredric March). Ma, com’è in un certo senso prevedibile trattandosi di un film di Clair, la ragazza si innamora di quella che dovrebbe essere la sua vittima. Ancora una volta il fantastico ha occasione, per lo scanzonato spirito clairiano, di liberarsi, mediante il suo tipico stile da vaudeville, con ribaltamenti di ruolo, azioni parallele (uno dei piatti forti del suo cinema) e commistione tra realtà e magia. Stesso discorso è valido per il successivo Accadde domani (1944), vicenda del reporter Larry Stevens (Dick Powell) che ogni sera riceve dal fantasma di un suo amico il giornale dell’indomani. Approfittando di questa circostanza straordinaria, Larry risolleva la sua attività giornalistica diventando ricco e famoso, finché un giorno non vede sul solito giornale fatato il suo necrologio. Scatta così un’incredibile corsa contro il tempo costellata di contrattempi di ogni tipo, alla fine della quale Larry si rende conto che il necrologio in cui appare il suo nome è causato dal rinvenimento dei suoi documenti nelle tasche di un ladro ucciso in uno scontro a fuoco.

    Per Clair la commedia fantastica costituisce un sistema per sfuggire alla moda del realismo imperante nel cinema americano del tempo per il quale egli non si sente minimamente portato. L’ultima incursione di Clair nel fantastico è rappresentata da La bellezza del diavolo (1949) (realizzato dopo il suo rientro in Francia), liberissimo e ambizioso adattamento del Faust con Michel Simon e Gérard Philipe tra i quali c’è un gustoso gioco di interscambio di ruoli (Michel Simon impersona Faust prima del ringiovanimento e poi un irresistibile Mefistofele burlone, mentre Gérard Philipe all’inizio è un baldanzoso e spiritoso Mefistofele e successivamente Faust diventato giovinetto dopo che ha venduto I’anima al diavolo). Quando Faust si accorge che il potere diabolico da lui conseguito è fonte di rovina, rompe il patto riprendendo il suo aspetto da vecchio. Ma il paese, ormai in rovina, se la prende proprio con lui scambiandolo per Mefistofele. Il film ha, insolitamente per Clair, carattere di messaggio contro la scelleratezza umana contemporanea. Ciò è evidente soprattutto nella scena in cui Mefistofele mostra a Faust, tramite uno specchio magico, un futuro retto dalla dittatura in cui regnano i campi di concentramento e le armi nucleari. Magnificamente pertinenti al cinema di René Clair sono queste affermazioni di Bernard Amengual: “L’acqua non bagna in Clair, una grata di prigione non infastidisce, corse e lavoro non affaticano, il sangue non sgorga, le donne non sconvolgono. Gli innamorati sono gentili, affettuosi; essi si affezionano agli esili dettagli dell’amore: un fiore, un fazzoletto, uno sguardo. Ma la carne non li preoccupa. Sono degli innamorati, non degli amanti. Il mondo di Clair ignora l’erotismo così come ignora I’ambiguità“. E così il mondo “meraviglioso” creato da Clair scivola con estrema facilità nel sovrannaturale, nel fantastique, senza che alcuna forzatura contamini la leggiadra resa scenica di questo mago della settima arte.

    In Svezia e, soprattutto, in Danimarca, all’epoca del muto, vengono alla ribalta dei grandi registi di altissima levatura artistica che esplorano il soprannaturale in toni così sublimi da collocarsi in un posto di tutto rispetto sulle vette dell’arte cinematografica: Victor Sjöström, Benjamin Christensen e Carl Theodor Dreyer. I capolavori fantastici di questi Paesi nordici sono marcati da un’autonomia espressiva ragguardevole e sono pregni di un’atmosfera mistico-religiosa che risente del loro background storico. Di particolare rilievo è, in questo cinema, la trattazione della stregoneria e della costante, ossessiva presenza di Satana, unica spiegazione possibile per fenomeni sordidi e oscuri.

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