MACISTE SUGLI SCHERMI

Ercole, Sansone, Goliath, Ursus, Taur, e naturalmente Maciste hanno fatto i bei giorni di qualche produttore negli anni tra il 1957 e il 1964, facendo rivivere sullo schermo un filone che si pensava definitivamente scomparso; almeno nella sua forma di «serial», col vecchio Bartolomeo Pagano.

Il revival ha avuto le sue ragioni: sorto in un periodo di progressiva decadenza dei generi più affermati, nelle cinematografie maggiori (declino del western di tipo B, soprattutto e, in Italia, saturazione del «film napoletano» e stanchezza del cappa e spada), il suo rilancio precede solo di qualche anno quello degli 007 e dei Ringo, cui lascerà campo aperto dopo un periodo di moderati successi durato una mezza dozzina di anni.

Contemporaneamente si diffondeva in Italia anche, una nuova corrente produttiva, limitata e generalmente affidata a registi di maggior peso o che, se erano i medesimi dei film mitologici, mostravano chiaramente di voler dedicare più cura a quest’ultimo prodotto rispetto al primo: il terrore. Si dirà: non vi è attinenza tra i due, il film mitologico e il film di terrore sono inconciliabili, si rivolgono a pubblici diversi, si basano su sentimenti e proposte di natura affettiva opposta. Eppure il commistione è stata fatta (ad esempio con Bava), e se anche non ha avuto un largo seguito, ha dimostrato di non essere così anacronistica come si poteva pensare. Un punto in comune, troppo poco considerato, esisteva nel loro riferirsi al rifiuto di ogni pretesa di realismo. Il pubblico massificato chiederà più tardi con 007 e Ringo, eroi al limite tra parvenze logiche di realtà e delirio avventuroso. Ma alla fine degli anni Cinquanta aveva avuto sete di un’evasione più semplice e totale: quella del mondo della fiaba con Maciste, Ercole e le loro «prove», per un pubblico forse ad un livello più primitivo e comunque caratterizzato da un ambito di miti e di strutture narrative tipiche di una tradizione contadina; quella della ghost story, del terrore sovrannaturale e diabolico, per un pubblico più smaliziato, con l’introduzione e la contaminazione di un genere elaborato con maggior attenzione dalle civiltà anglosassoni, ma che comunque aveva anch’esso – e per questo poteva toccare anche il primo pubblico – un costante radicamento su miti e strutture comuni a settori estremamente vasti di pubblico.
L’esame di ipotesi socio-antropologiche più vaste ha tentato purtroppo pochi, nonostante la recente voga strutturalistica, che potrebbe trovare in campo cinematografico pane per i suoi denti.

Non avanzeremo dunque troppo avanti su un terreno così poco esplorato – non è questo il nostro compito – ma non ci sembra illegittimo azzardare qualche ipotesi rimanendo nell’ambito dell’articolo cinematografico. Quella fondamentale, potrebbe essere la seguente: una società in trasformazione intensissima e violenta come è stata quella italiana degli anni tra il 1958 e il 1962, anni del «miracolo» e del «boom», ha dovuto per forza superare un periodo di tensione e sbandamento, precedente ad un primo assestamento. Di questo periodo, il cinema ha fatto fede con alcuni fenomeni significativi, anche se – come abbiamo visto per il rapporto tra para-mitologia e terrore – apparentemente disgiunti e isolati l’uno dall’altro.
Più evidenti i legami tra due filoni «realistici». La scoperta e presa di coscienza di una realtà nuova è avvenuta attraverso la progressiva distruzione della tradizione neorealistica (genericamente progressista e populista) con i film maggiori del nostro cinema e con un genere trasformatosi con molta più flessibilità e con un’attenzione superficiale ma comunque costante e cronologicamente ricostruibile ai fenomeni di costume, quello della commedia. Nel primo di questi due settori sarebbe ancora possibile distinguere tra film rivolti ad un’analisi cosciente del passato della nostra società, in genere prossimo ma talora anche remoto, e in film di scoperta e indicazioni su situazioni e problemi nuovi o sui contrasti tra il nuovo e quanto vi permaneva e vi permane di vecchio.

La distinzione è sommaria, ma può servire a meglio inquadrare l’argomento che ci interessa.
Ci sembra infatti che il legame fantastico che unisce Maciste ai vampiri, possa costituire in questo schema il momento del riassorbimento di un passato e della preparazione e prima reazione di fronte al futuro: quasi difesa ed esorcismo nei confronti di un «nuovo», insicuro e comunque ignoto. Una fase provvisoria, dunque.
Quello di Maciste, rispetto ai vampiri, è un filone più tradizionale e nostro: i suoi antenati sono ben noti, anche se spesso è stata fatta una certa confusione tra mitologico e pseudo-storico, raggruppandoli in una stessa massa indifferenziata. Nel primo, l’elemento fantastico è generalmente presente e con molto peso. Nel secondo si tratta di fanta-storia, cioè di ricostruzioni di generiche avventure in ambiente che si pretende storico e a volte con al centro personaggi storici. La Roma antica, i suoi eroi e condottieri, e il suo impero, hanno avuto ovviamente la parte migliore (ad esempio nei film del binomio Stresa sceneggiatore – Costa regista, v’era regolarmente pretesto per un’esaltazione a ritroso delle glorie imperiali del «Roma doma»). Maciste prende vita da questo secondo tipo di film, che Hollywood ha copiato da sempre con le sue Cleopatre e i suoi Ben Hur.
La sua prima apparizione avvenne non a caso nel vecchio Cabiria di Pastrone-D’Annunzio, ma il personaggio acquistò rapidamente una sua autonomia, scivolando spesso sul terreno del fantastico. In epoche più recenti ritroviamo questa commistione, senza Maciste, nella Corona di ferro di Blasetti, che rimane il prototipo ideale di tutti i film di Maciste venuti più tardi, e che si contrappone a Scipione l’africano di Gallone (cui è immensamente superiore, ma con cui ha in comune tra l’altro certe preoccupazioni politiche) per una struttura decisamente fantastica e di originale sincretismo nella mescolanza dei temi. Questa contrapposizione potrebbe anzi essere portata a modello di quelle attuali: con l’avvertenza che nella figliolanza della Corona di ferro, l’eroe Girotti, tipo del «principe coraggioso», lascia il posto all’infallibile Maciste, ripetibile ed immortale.

Negli anni del dopoguerra sono in genere gli eredi di Cabiria e di Scipione a presentarsi con più frequenza sugli schermi italiani con maggiore o minore éclat a seconda che si tratti superproduzioni alla Fabiola o di piccoli budget come Spartaco. Ma, in ogni caso, la loro presenza è costante, anche se limitata. Alcuni film favoriranno l’esplosione di Ercole e Maciste ed avranno una grandissima influenza, diretta e talvolta dichiarata, sulla rinascita del genere in forme nuove. L’Ulisse di Camerini è il primo: qui, sulla traccia di Omero, antichità e mitologia sono strettamente legate, anzi indissolubili, e per la prima volta la seconda ha di nuovo il predominio. Il personaggio dell’eroe omerico è inoltre già un mister-muscolo disinvolto e «americano», come lo saranno i Maciste ed Ercole che seguiranno. Due altri film ancora meritano di essere citati: Le meragliose avventure di Guerrin Meschino e La regina di Saba di Pietro Francisci. Anche se non vi erano eroi dai robusti bicipiti, pure i punti di contatto con le avventure di Ercole che lo stesso Francisci, capostipite della rinascita, doveva girare nel 1957 (con Le fatiche di Ercole, e l’anno seguente con Ercole e la regina di Lidia), sono sorprendenti, particolarmente nel Guerrin Meschino: avventurose peripezie e prove di un giovane, tra seduzioni di maghe e intrighi di usurpatori. D’altro canto, Guerrin Meschino ci permette di osservare di passaggio un apporto non indifferente, e che andrebbe esaminato più a fondo, al sincretismo culturale e folklorico di Ercole e Maciste quello del romanzo cavalleresco e dei Paladini.

Tutti questi apporti, con prevalenza dell’una o dell’altra fonte a seconda delle preferenze e della fantasia degli sceneggiatori e dei registi (tra i primi i più influenti e abili furono indubbiamente Ennio De Concini tra gli anziani e Duccio Tessari tra i più giovani), dettero vita ad una galleria di avventure con schema unico ma con varianti secondarie numerosissime. Lo sfondo contempla generalmente un deserto, e civiltà scomparse di preferenza l’Impero romano, l’Egitto faraonico, la biblica di Israele, il mondo arabo classico. Ma anche: la Spagna de El Cid, la Scozia seicentesca, l’Amazonia delle foreste vergini e degli Indiani, l’Africa nera, la mitica Atlantide, e l’epoca dei liberi Comuni italiani. In alcuni casi più audaci, si troveranno anche civiltà scomparse che non ha nulla di invidiare alle Metropolis langhiane e alle galassie di Asimov. La galleria di personaggi secondari comprende con una regolarità impressionante e un tiranno usurpatore, malvagi consiglieri, maghe seducenti nefaste, dèi olimpici (con preferenza per Marte, Giove e Vulcano, tra tutti i più coloriti), principini o principesse innocenti e in pericolo, una variatissima zoologia fantastica degna di Borges, un nano, un fedele collaboratore dell’eroe spesso negro e non privo di humour se pure non estremamente intelligente. E naturalmente Maciste (o Ercole, Ursus, Thaur, Teseo, Goliath), che, come osservava giustamente Spinazzola nel saggio migliore che sia stato scritto sul film mitologico, si differenzia molto dall’eroe, di stampo byroniano, dei film fantastorici una sua «tranquilla bonomia» e un suo rifiuto della retorica.
In alcuni casi (Reg Park nell’Ercole di Cottafavi), questi tratti caratteristici possono giungere sino alla pigrizia e ad un saper vivere tutt’altro che ascetico.

Ma in generale Maciste, più «normale» di Ercole, è, più che un superuomo classico, un uomo di forze sovrumane risiedono essenzialmente negli ampi bicipiti, devoto al bene incorruttibile, pronto a sempre nuove imprese generalmente legittimiste. In lui si incarnano le aspirazioni di masse contadine oppresse, bisognose di un capo, ma di un capo alla loro misura, e aspiranti soltanto al ristabilimento di un buon governo tradizionale. I motivi d’impalcatura d’ogni narrazione epica, di ogni chanson de geste, offrono alle sue imprese il loro appoggio: quelli della «ricerca», ed ancora con più frequenza quelli della «serie di prove» attraverso le quali ristabilire la giustizia, riconquistare la pace e ritornare ad una situazione di normalità. Il tema delle prove è quello che ha offerto alla vivace fantasia degli scenaristi la possibilità delle combinazioni più straordinarie: in esso infatti soggiaciono due elementi fondamentali ad ogni «presa» di Maciste sul pubblico: l’erotismo e il sadismo. Se il primo rimane, d’abitudine , alquanto primario nelle sue applicazioni, con la sua tradizionale distinzione del ruolo femminile in quello pacifico della buona moglie e in quello pericoloso ed ostile della tentazione del sesso (cui si collegano i pericoli più gravi, qualora l’eroe vi soccomba), il secondo costituisce l’inesauribile miniera di sensazioni fondamentali, offre i momenti centrali d’interesse, dimostra l’abilità e la fantasia degli autori. Più nuove ed elaborate saranno le prove cui Maciste è sottoposto, e più riuscito sarà il film. Va notato peraltro che queste prove la cui soluzione è affidata alla forza e non all’intelligenza dell’eroe, hanno una carica affettiva ben diversa, e sostanzialmente più simpatica, da quella ch’esse assumono in film di filoni diversi e più recenti. In James Bond o nei Ringo, infatti, la ricerca della sensazione è sempre fine a se stessa, il sadismo sempre più gratuito. Nei Maciste, al contrario, il pubblico partecipa dalla parte dei buoni, e scaricherà la lunga tensione sadomasochistica delle prove da questi sostenute col supplizio sacramentale del cattivo, nelle scene finali del film.
Come si vede, alla lista delle referenze Maciste può aggiungere, onorevolmente, quelle del feuilleton e del fumetto. Tra i personaggi di questi, quello con cui ha più punti di contatto resta ancora il Tarzan di Burroughs (romanzi) e principalmente di Hogarth (fumetti), cui alcuni film si richiamano in modo esplicito e illuminante (soprattutto Ercole alla conquista di Atlantide, di Cottafavi).

L’eroe ultra-positivo Maciste viene così ad essere al centro di una mitologia variata e complessa, dalla psicologia primaria e dal contenuto paternalistico, in cui si risolvono le aspirazioni e le evasioni di un pubblico che è andato sempre più precisandosi come formato di masse contadine, o sottoproletarie, analfabete o semianalfabete. È, insomma, un eroe per il Terzo Mondo, e basta esaminare le statistiche degli incassi e delle vendite all’estero per rendersene conto. Comprati a scatola chiusa nel mondo arabo, i Maciste ed Ercole hanno in Italia il loro pubblico d’elezione nel sud, nelle borgate, nei quartieri d’immigrazione delle città industriali. In questo senso, il paragone – non tanto paradossale – con James Bond è lecito e dimostrabile in Maciste s’incarnano le evasioni di un pubblico contadino insoddisfatto e in Bond quelle di un pubblico assai più massificato e dalle repressioni più complesse e feroci.
Un’ideale galleria dei migliori risultati del film mitologico, vedrebbe sicuramente in testa tre opere di dignità assolutamente al di sopra della norma: Arrivano i titani! di Tessari, Ercole alla conquista di Atlantide di Cottafavi, Ercole al centro della Terra di Bava. Il film di Cottafavi resta il modello più classico e insuperato di tutto il genere, ma la sua abilità e la messe di riferimenti «colti» che sciorina, ne fanno già qualcosa di diverso dal Maciste abituale. In esso, infatti, a parte un «prologo» degno di figurare tra i migliori momenti del cinema umoristico italiano (la scena del parlamento degli staterelli greci, in attuale chiave satirica), Ercole è un eroe non tradizionale: sfaticato e bonario, disposto a intervenire solo quando non vi sono altre soluzioni possibili, e con nemici che figurano flagelli assai contemporanei: l’atomica e il nazismo, addirittura, facilmente individuabili dietro gli episodi dell’«occhio di Saturno» e dell’esercito di automi ariani, biondi e crudeli. Nel film di Bava, ci si allontana dal Maciste abituale non solo per una certa dignità di fattura (la fotografia accuratissima è da sempre la dote maggiore di Bava), ma per una commistione di generi cui abbiamo già accennato: qui Ercole si scontra con un Vampiro e col suo mondo di tenebre, e il fatto che questi sia impersonato dall’abituale interprete di Dracula, Christopher Lee, non può che accrescere il senso di diversità rispetto ai Maciste normali. Ma l’ingresso orfico al mondo degli inferi è diventato, da allora, una convenzione che ricorre sovente in questi film. Arrivano i titani, infine, va considerato, oggi, sia come il risultato migliore di tutto il genere che come l’inizio della crisi e del declino.

E’ stato detto sovente che quando un genere letterario o cinematografico arriva a provocare la sua presa in giro, la sua variazione satirica, vuol dire che esso ha raggiunto il suo punto critico, oltre il quale deve o rinnovarsi o morire. Il divertente film di Tessari, che aveva tra i modelli più evidenti anche certe allegre spacconate di Douglas (pensiamo principalmente all’ammirevole Ladro di Bagdad di Raoul Walsh), rovescia infatti non poche convenzioni: l’eroe, non un Mister Universo yankee, ma un giovanotto mediamente robusto di evidente ascendenza trasteverina, che punta di più – caso eccezionale – sull’intelligenza che non sulla forza fisica per portare a buon fine l’impresa affidatagli dal supremo Giove. Genere e antigenere si mescolano efficacemente, in una smitizzazione dell’eroe consueto, ma la risata e il clin d’oeil sono tutti interni ad un rapporto di complicità collo spettatore che non distrugge affatto il mito, ma si cura soltanto di renderlo meno schematico e più sfaccettato. Su questo terreno occorreva, per salvare il filone, che altri si ponessero. Ma Tessari non ha avuto seguaci, se non pessimi e, come vedremo, il genere doveva dopo di lui degradarsi lentamente fino ad una stabilizzazione su un livello medio estremamente basso.
Bisognerà dunque cercare il Maciste ideale nell’opera di altri registi meno avventurosi e più fedeli agli schemi riconosciuti come efficaci. In questo senso, per la sua abile commistione di avventuroso e fantastico, per le «trovate» di sceneggiatura (c’è ancora Tessari tra gli autori) e per un certo decoro scenografico e registico, ci sembra impossibile indicare come risultato più tipico quello di Campogalliani e Corbucci, Maciste contro il vampiro. Due idee lo risvegliano: il sotterraneo popolo degli uomini blù, e la lotta di Maciste contro il Vampiro, che per ultimo inganno gli si presenta con le stesse spoglie dell’eroe. Gordon Scott lotta contro se stesso: il Bene e il Male hanno gli stessi tratti. E stavamo quasi per dire: gli stessi muscoli. il vampiro. Due idee lo rendono più interessante: il sotterraneo popolo degli uomini blù, e la lotta di Maciste contro il Vampiro, che per ultimo inganno gli si presenta con le stesse spoglie dell’eroe. Gordon Scott lotta contro se stesso: il Bene e il Male hanno gli stessi tratti. Stavamo quasi per dire: gli stessi muscoli.

Ma Francisci ha dimostrato anche lui, sia pure con minore fantasia, oltre ai suoi meriti di «pioniere», di essere dotato di un certo humour; limitandosi ad adattamenti di soggetti consacrati dalla mitologia e dai libri di scuola, non ha voluto però correre rischi. Campogalliani ha ripreso nel 1960, con Maciste nella valle dei Re, il cammino interrotto coi film di Bartolomeo Pagano nel 1920. Ne era infatti regista abituale, prima di lasciare il posto a Guido Brignone. Le sue doti di mestierante senza slanci, ma ad un certo livello di conoscenze tecniche, si ritrovano anche nei film di Bragaglia e di Freda. Del primo Le Vergini di Roma è un divertentissimo para-storico, in cui si avverte la mano di Cottafavi. Il secondo ha preferito occuparsi solo con la mano sinistra di Maciste, per dedicare invece qualche maggiore attenzione ad altri generi più congeniali (i due Dottor Hichcock, il romanzo d’appendice Roger La Honte, sceneggiato da Jean Louis Bory, eccetera). L’ultimo nome degno di citazione è quello di Paolella, che ha dimostrato con regolarità una propensione «democratica» e salgariana nei suoi Maciste, a tutto vantaggio dei soggetti, più centrati su peripezie partigiane di popoli in lotta contro i tiranni, che sulle imprese di Maciste, il cui ruolo egli ha notevolmente ridimensionato rispetto a quello della partecipazione popolare, della massa. Così avviene, ad esempio, nell’ambizioso Maciste contro i Mongoli, in cui si troverà la traccia di un’ispirazione addirittura eisensteiniana (quella di Aleksandr Nevskij, e ancor di più de I cavalieri teutonici, di Alexandr Ford)…

Ma con gli altri, la piattezza più desolante è la regola: Leonviola, Ferroni, A. Anton, Caiano, Parolini, Malatesta e qualche altro non si eleveranno mai al disopra di un livello zeta, di povertà tecnica e d’idee, di incredibile miseria registica. Sono loro a tenere vivo il genere, oggi, dopo i trionfi del western italiano e dei film di spionaggio, rifornendo il mercato arabo ed asiatico meno esigente, con non singolare disprezzo per il loro pubblico. Maciste, veramente, non lascia ogni nessuna speranza di sorprese, e persino l’onesto Paolella vi si dedica con sempre minore impegno.
Intercambiabili, i protagonisti dei film mitologici, in genere americani, sono passati, quando avevano un minimo di possibilità in questo senso, ad altri ruoli: così Steve Reeves, primo Ercole, Gordon Scott, già interprete di Tarzan, e Gordon Mitchell, più anziano e più adatto, per il volto segnato da una smorfia, a parti di cattivo che di buono. Altri sono scomparsi o quasi dalla circolazione, come Reg Park e Samson Burke. Altri infine, la cui inespressività non ha confronto che con quella di certe acclamate dive hollywoodiane o italiane, sono ancora sulla breccia, monocordi e privi, se non di muscoli, di qualsiasi comunicatività: Ed Fury, Mark Forest, e, orrido tra tutti, il veneziano Kirk Morris.
La stagione di Maciste è chiusa, almeno fino a quando non si sentirà il bisogno di un nuovo, infantile bagno di fantastico e di povere speranze. Maciste è morto, viva Ringo. Ma tra i due, con la serietà che si addice ad argomenti di questo genere, l’ingenua e sempliciotta demagogia di Maciste ci pare ancora preferibile, retrospettivamente, alla gelida criminosità di Ringo e i suoi fratelli.

GOFFREDO FOFI

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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