VITTORIO DE SETA E L’ESPRESSIVITÀ INQUIETA

Appassionato, enfatico, ostinato Vittorio De Seta, nasce a Palermo il 15 ottobre 1923, benché non avesse l’indolenza dei siciliani, né la pigrizia, né la volontaria indifferenza, né gli insensati abbandoni mentali, né la scarsa disponibilità all’entusiasmo: un uomo attivo, colto, introverso con interessi molteplici e problematiche tormentose, svincolato da ogni limitazione di natura psicologica, affrancato in maniera definitiva dei legami vincolanti con l’ambiente aristocratico della sua adolescenza, proteso verso la progressiva affermazione  della personalità e del carattere. Quando lo incontrai mi parlò con molta trasparenza e serenità.

  Un risultato a cui è approdato attraverso le vie delle nevrosi, delle incertezze, delle crisi di nullità, attraverso gli improduttivi sperimentalismi della giovinezza, attraverso gli anni passati ad analizzare stancamente se stesso, i suoi desideri, le sue pause, senza mai costruire, incapace di liberarsi dal peso di una società in disfacimento che si è ostinato a dimenticare e che fatalmente ha continuato a condizionarlo.

  Un’infanzia sommessa e un’adolescenza malinconica, con troppi agi e con pochi affetti, popolata di inutili personaggi, filtrata di noia, di solitudine, di silenzio, condotta attraverso sterili conversazioni da salotto, i polverosi salotti dei nobili siciliani, carichi di oro e di damaschi, di oggetti barocchi e di pretenziose pitture.

  Ricordi grigi, sbiaditi, incapaci di tradursi in rimpianto, che fanno di De Seta, il più indifferente dei siciliani, il più distaccato e lontano, il più inaccessibile, quasi che in Sicilia non fosse nato e cresciuto, quasi che alla Sicilia non lo legassero parentele dirette e non casuali, quasi che la Sicilia non fosse la terra dei suoi ascendenti da più di cinque generazioni.

  “La mia famiglia. La Sicilia. Tutto questo è molto lontano. Molto confuso. Ho conosciuto appena mio padre e lo rimpiango. Gli altri… preferisco non parlare di loro… dimenticarli piuttosto. È molto meglio così”. E fa un gesto vago con la mano. Sembra infastidito, ma forse è solo accorato.

  De Seta è intimamente diverso dai siciliani. Non ha i loro esclusivismi feroci, le loro passioni eccessive. Lui vede nella moglie la compagna, la collaboratrice, il punto di riferimento più certo e felice per uno scambio dialettico. Non la buona fattrice, una creatura decorativa da ascoltare distrattamente. E il matrimonio lo configura come un rapporto dinamico, con un tessuto connettivo di interessi comuni che si rinnovano di continuo e si dilatano e si arricchiscono, non un investimento per la vecchiaia o un punto di arrivo per infilare le pantofole, lasciarsi andare in una prematura anticipazione degli ozi e delle disattenzioni senili.

  Le condizioni per attuare queste condizioni di vita le ha trovate fuori dalla sua terra, a contatto con uomini e donne fattive provenienti da una matrice diversa, in un ambiente in cui i problemi di affrontano in maniera diretta, senza ipocrisie, senza ambiguità, senza illusioni.

  “A trent’anni mi sentivo un fallito. Lucido, cosciente ma fallito. Sogni, progetti, ambizioni a non finire. E nulla di realizzato. Non ero riuscito a completare gli studi alla facoltà di architettura e non avevo saputo ancora dare un senso alla mia vita, né un orientamento, né un’impostazione di massima. La mia personalità era sottoposta ad una continua, violenta, dolorosa lacerazione. Desideravo far qualcosa di creativo. La regia, ad esempio. Così divenni l’aiuto del francese Jean-Paul Le Chanois e girai con lui Vacanze d’amore (1955).

  Mi venne la febbre de cinema. Acquistai una 16 mm e feci il primo documentario in bianco e nero. In maniera assolutamente autonoma. Con materiale mio, idee mie, denari miei. E dopo feci una lunga serie di lavori a carattere sperimentale. Filmetti, documentari, cortometraggi. Tentativi che mi lasciavano insoddisfatto, che non mi aiutavano a superare  la nausee della mia impotenza. Una sensazione di nullità che mi precipitava nella crisi”.

La crisi lo sfiorò solamente. Aveva incontrato Vera Gherarducci, un’attrice di prosa né bella né decorativa, ma sensibile e intensa, che aveva compiuto le prime esperienze in teatro con Eduardo, che possedeva una straordinaria carica umana ed emotiva, che sapeva guardare alla vita, agli uomini, all’avvenire con incantata fiducia ed aveva capito che quel giovane alto ed angosciato, pieno di complessi e di paure, amaro e introverso, aveva molte cose da dire, anche importanti, anche originali, ma affinché parlasse era necessario aiutarlo a tirar fuori quei pensieri faticosi, era necessario incoraggiarlo.

  Vera Gherarducci, poi sua moglie, esprimeva la sua idea della donna: attiva, palpitante, amorosa, ispiratrice e consigliera, così diversa dalle ragazze che lui aveva conosciuto in Sicilia, senza interessi, senza slanci, superficiali e remissive, estranee e indifferenti come splendidi vegetali, refrattarie ad ogni possibilità di dialogo, incapaci di assumere un ruolo attivo, autonomo, personale. Anche adesso che ha superato le incertezze dei primi anni di attività, che il pubblico ha dimostrato di gradire il suo tipo di linguaggio cinematografico secco, essenziale, che le polemiche esplose intorno al suo film Un uomo a metà (1966) l’hanno portato con insistenza alla ribalta – la critica nettamente spaccata in due: celebratori entusiasti e e denigratori spietati, e la sua reazione violenta e addolorata – la moglie continua a essergli vicina con i suggerimenti, i consigli, le esortazioni.

  Al centro della sua indagine artistica sta l’uomo e della sua analisi di costume sta l’uomo. L’uomo con i suoi problemi e con le sue incertezze, con i suoi traumi e le sue debolezze, l’uomo a cui va destinato il momento più vitale dell’attenzione creatrice – sia uno scrittore, un regista, un autore di teatro ma raccontare – l’uomo che deve sforzarsi di conoscere se stesso, di cercare dentro di sé le cause dei suoi conflitti, delle sue alterazioni psicologiche, del suo disagio, secondo l’insegnamento di Socrate e di Gesù, l’uomo che va rivalutato ad ogni costo nei confronti della massa, adesso che il rapporto individuo-società si va deteriorando a vantaggio dei soggetti.

  “Tutto l’orientamento della nostra cultura – afferma De Seta – nasconde una grande barbarie. Il benessere è un episodio, un fenomeno puramente esteriore. Sotto le cromature dell’automobile si spalanca il vuoto. E il vuoto significa mancanza di convinzioni, di certezze, di ideali, significa disfacimento. La vita che facciamo oggi è alienante e ossessiva. Né potrebbe essere diversa con le immagini innaturali e artificiose che ci tempestano dallo schermo delle sale cinematografiche, dalla superficie lucida e ambigua del televisore, dai cartelloni pubblicitari; gli slogan che ci ripetono con puntualità esasperante che un prodotto è migliore di un altro e che può conservarci fino a ottant’anni la salute di un ventenne; con i produttori cinematografici che confezionano a ritmo frenetico storie insulse e deleterie, popolate di personaggi violenti e amorali come nei western, di maniaci e sadici come nei fumetti neri, di inattendibili, spietati marionettistici agenti segreti come nei film di spionaggio.

  La pubblicità distilla stupidità nelle coscienze in modo guerrafondaio. Joseph Goebbels sosteneva che è sufficiente ripetere una cosa mille, duemila, tremila volte, con metodo, con insistenza, per imporla a chi l’ascolta. E non importa se sono cose false, sbagliate, inesatte. A conclusione del “trattamento Goebbels” chiunque accetta i principi che prima ha respinto, avalla le ipotesi che prima ha rifiutato, sostiene le tesi che prima ha aborrito.

  Si parla tanto di guerra e si dice di averne orrore, si studiano i metodi più efficaci per evitarla, si mettono a punto alleanze e patti di non aggressione, si perfezionano scambi di amicizia e si stabiliscono intese tenaci e la guerra è già nell’aria, è nel subconscio degli uomini e quasi diventa un fatto trascurabile, che formalmente, non ci sia stata una dichiarazione di guerra”.

  Parla senza gesti, senza calore apparente. È misurato, civile. Con qualche propensione al vittimismo: gli altri non si sforzano di capirlo, non tengono nella giusta considerazione le sue opinioni, non gli danno atto delle sue fatiche, delle sue rinunce, dei suoi sacrifici.

  I critici, per esempio. Che gridano alla nascita miracolosa di un autore nuovo, autentico, vigoroso, quando videro il suo primo lungometraggio Banditi a Orgosolo (1961) e che manifestano un’ostilità insistente e cattiva nei confronti del suo secondo lavoro Un uomo a metà, atteso come un’opera rivelatrice, originale, vagamente intimista e poi trascurata, bistrattata.

  I produttori, per esempio, Che hanno stima di lui e lo giudicano serio, intelligente, appassionato e poi non gli finanziano i film e lo costringono a lavorare con il denaro preso in prestito, con materiale di fortuna, lampade, cavi, proiettori, carrelli acquistati a metà prezzo nei negozi dei rigattieri, con una troupe estenuata – otto persone appena per Un uomo a metà, e la moglie obbligata a cambiare ruolo continuamente, ora scenografa, ora costumista, ora ragioniera, ora comparsa – con gli interni ambientati nella villa degli amici d’infanzia e gli esterni girati nell’orto del vicino compiacente.

  “L’individuo deve affermare, a costo di qualsiasi sacrificio, la sua personalità. Questo è il vero scopo della vita. Questo è lo scopo della mia vita. Non mi interessano i guadagni facili, i successi effimeri, le soluzioni comode. Umiliarsi è ripugnante. Ho lottato molto. Prima per riguadagnare a me stesso la fiducia che avevo perduto, poi per superare la crisi e l’inaridimento, infine per esprimere liberamente il mio pensiero, il mio ideale di vita, le mie intuizioni umane. Il risultato è scoraggiante, amaro. Nel mondo in cui mi muovo, quello del cinema, sono un isolato. Ho scelto la strada più difficile, quella che rifiuta il compromesso, il camaleontismo, le mistificazioni, perché voglio arrivare al cuore degli uomini e gli orpelli, le sovrastrutture, le impalcature mi fanno impaccio. Non ho raccolto una sola voce. Un vuoto che mette addosso paura, freddo sgomento: gli intellettuali sono svirilizzati, incerti, privi di autonomia, parlano di fumetti e di canzoni; gli esponenti della classe medio-borghese si sono lasciati inaridire dalla monotonia del lavoro impiegatizio e , nella ossessiva ripetizione di gesti e di azioni logoranti, si sono dissociati. Un pastore di Orgosolo fa una vita creativa. Un bancario no. Un pastore di Orgosolo conserva dunque equilibrio interiore, pulizia, slanci. Un bancario si aliena. Il sistema si è impadronito di tutti. Degli intellettuali, degli impiegati, degli operai e li ha abbrutiti, svuotati, spersonalizzati. Io voglio restituire dignità all’uomo. Speranza”.

BIANCA CORDARO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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