VITALIANO BRANCATI, IL CINEMA E LA SICILIA

Non è agevole rintracciare il filo del rapporto esistito fra Vitaliano Brancati e il cinena.

Un rapporto che comunque fu più intenso e complesso di quanto comunemente si creda, andò svariando in plurime direzioni e assunse aspetti diversi a seconda del grado di coinvolgimento che questo comportò per lo scrittore.

Una complessità di rapporto che a sua volta riflette la natura stessa dell’arte di Brancati, autore solo in apparenza facile e di piana interpretazione, ma ricco, in realtà, di un mondo di difficile penetrazione, nel quale la celebrata “solarità” mediterranea – luogo comune del quale sarebbe tempo di fare giustizia – fa spesso da scherno ad un oscuro sentimento di morte, e l’ironia è il risvolto di un’amara consapevolezza, rifugio frequente di una visione del mondo disincantata e pessimistica.

Ciò è di Brancati narratore, che da Don Giovanni in Sicilia a Paolo il caldo, attraverso Il bell’Antonio ed altre opere, andò sostanziando una nozione di “sicilianità” abbastanza inconsueta, ricca di drammatici contrasti e tutt’altro che solare. E cosi è di Brancati uomo di cinema, che nel linguaggio delle immagini cercò uno strumento complementare a quello letterario, atto ad accrescere la plasticità delle proprie invenzioni narrative determinandone gli equivalenti visivi. Al cinema Brancati si avvicinò abbastanza presto, e non con la sussiegosa noncuranza propria di molti intellettuali, abituati a considerarlo una deteriore forma di spettacolo o una forma di sostentamento agevole e poco impegnativa. L’interesse di Brancati verso il cinema fu invece concreto, puntiglioso e fecondo di risultati, pur se essi vanno considerati in relazione all’entità dell’apporto che di volta in volta gli venne richiesto. Bisogna, infatti, distinguere. Nel corso di una dozzina di anni, dal 1942 fino al momento della scomparsa prematura.

Brancati legò il suo nome a più di venti film, alcuni dei quali di notevole rilievo e tali da rendere – pur attraverso la collaborazione con altre personalità e la mediazione del regista – un’immagine di lui ben riconoscibile e personale. Ma in molti casi, e specie all’inizio, non si chiese a Brancati molto più che una collaborazione soprattutto tecnica, specialistica, legata alla sua particolare esperienza della lingua, del costume, dei modi di essere e dei modi di parere di personaggi di estrazione isolana. A questo tipo di collaborazione va ascritto un primo gruppo di titoli estraibili dalla sua filmografia: titoli nei quali il nome dello scrittore si somma a quello di altri sceneggiatori, per argomenti non suoi, talvolta basati su opere letterarie preesistenti, spesso di autori siculi: Capuana, Rosso di San Secondo, Pirandello. Un’attività che potrebbe apparire di semplice routine, ma alla quale Brancati si applicò con coscienzioso impegno professionale. Luigi Chiarini, che lo aveva avuto collaboratore alla sceneggiatura di La bella addormentata, tratto dall'”avventura colorata” di Rosso di San Secondo, ricordava la meticolosità con cui Brancati si era concentrato nella creazione e nella definizione di una serie di personaggi minori, figurine di scorcio destinate a fungere da elemento contrappuntistico al dramma dei protagonisti, e nella stesura di attendibili dialoghi siciliani. Questo primo aspetto dell’approccio di Brancati con il cinema è esemplificato da un film come Gelosia (1942) di Fernando M. Poggioli, basato su Il marchese di Roccavedina di Luigi Capuana: un eccellente esempio di riduzione cinematografica di un romanzo importante, attuata con sostanziale rispetto dei valori dell’opera originaria e al tempo stesso fornita di una propria autonoma vitalità espressiva. Esso è altresì una buona esemplificazione – di cui sicuramente buona parte di merito va attribuita alla presenza di Brancati – di una “sicilianità” non ridotta a vieto folclore ma penetrata nella sua essenza più: vera, ricca di contrasti ed eminentemente drammatica.

Vi è poi un secondo aspetto del complesso rapporto istituitosi tra Brancati e il cinema. È quello, quantitativamente esiguo ma qualitativamente notevole, costituito da un gruppo di film più integralmente e indiscutibilmente suoi: tratti da propri racconti, com’è per Anni difficili (1948), o da propri soggetti originali – ed è il caso di Anni facili (1953), de L’arte di arrangiarsi (1955) – essi riflettono in misura cospicua gli interessi, le tematiche, gli stessi moduli stilistici propri dello scrittore, il quale cercò attraverso di essi di attuare una piena espressione del proprio mondo morale. Questi film, tutti realizzati nel dopo guerra e in qualche modo orbitanti nell’area del movimento neorealistico, segnano anche I’incontro felice ed una esemplare consonanza d’interessi tra l’autore Brancati e il regista Luigi Zampa, il quale ultimo trovò proprio nel sodalizio con lo scrittore siciliano occasione e stimolo per alcune delle sue riuscite più brillanti. In queste opere, Brancati c’è tutto, sia pur con la mediazione del mezzo cinematografico e attraverso l’interposta persona del regista. O almeno c’è una delle componenti essenziali del suo temperamento di artista: l’atteggiamento risentito e disincantato verso l’andamento delle cose del mondo, lo sdegno asciutto e non retorico, da vero moralista laico, per il cinismo, la doppiezza e la gaglioffaggine di certi diffusi esemplari della specie umana, il gusto, di antica scaturigine “siciliota”, per la rappresentazione satirica di eventi e personaggi a lui invisi; la raffigurazione vivida ed estrosa, concreta e fantasiosa, realistica e deformata, di una Sicilia più autentica del vero perché interpretata nei suoi tratti essenziali; la capacità, che già sottolineava il Pullini, di “armonizzare I’elemento grottesco con un sottofondo di complessità e amarezza morale, mantenendosi in sapiente equilibrio fra il bozzettismo e la critica polemica”.

Trasformismo, corruzione, arrivismo, adattamento dei comportamenti alle situazioni e adattamento delle situazioni agl’interessi particolari: contro simili specie di sport nazionali e contro i loro più tipici campioni Brancati lanciò strali penetranti e caustici, sotto la spinta di un’indignazione morale che poteva indurlo talvolta a trascurare alquanto la definizione psicologica dei suoi ritratti, a ignorare le sfumature e a separare con taglio netto; con manicheismo da moralista, l’emisfero del bene e quello del male, ma che proprio per questo dava al suo discorso civile una robusta efficacia. In tale direzione Anni difficili e Anni facili formano ancora oggi un dittico esemplare, là dove gli elementi episodici e minutamente cronistici superano la dimensione bozzettistica, che pure venne loro rimproverata, per attuare una stralunata raffigurazione del tragico quotidiano, in cui il realismo di fondo tende a risolversi nella dimensionc dcl grottesco, e il fantasioso balletto immaginato da Brancati acquista le movenze di una vera e propria danse macabre. Venne poi L’arte di arrangiarsi, più sfumato e sardonico, meno risentito e pungente, forse anche più divertito, a completare una “trilogia dell’impegno civile” che appare il contributo più sostanzioso e unitario che Brancati abbia dato al cinema italiano.

Infine, il terzo volto di Brancati cineasta: un volto, per così dire, involontario. È il Brancati postumo, fornitore passivo e inconsapevole di soggetti – i suoi romanzi, le sue commedie – ai quali non ebbe modo di metter mano direttamente. È questo il capitolo più grigio di una filmografia nella quale, finché egli fu vivo e operoso, non apparve alcun titolo men che decoroso anche quando il suo apporto fu limitato a una professionalità difficilmente individuabile in contesti compositi. Il saccheggio delle opere di Brancati fu invece, post mortem, impietoso, talvolta brutale. Si salvarono alcune buone intenzioni di Don Giovanni in Sicilia (l967) di Lattuada, e l’elegante malinconia, un po’ sfatta e depurata di ogni caustico umore, ma pervasa di un senso di desolazione non estraneo al mondo poetico di Brancati, de Il bell’Antonio (1960) di Bolognini. Il Brancati sceneggiatore, il Brancati autore, il Brancati soggettista suo malgrado vi appaiono esemplificati adeguatamente. E soprattutto è presente la sua sicilianità, il sentimento della terra nativa che è nella sua stessa natura di scrittore, e senza il quale egli non sarebbe stato l’artista che fu. In Gelosia è la Sicilia profonda, arroccata in una fissità antica sotto la quale ribollono passioni profonde, si perpetuano miti ancestrali, sopravvivono tenaci orgogli di casta; in Anni difficili è la Sicilia quotidiana, sorniona e dimessa, ma turbata nel suo equilibrio secolare da una somma di eventi non voluti, subiti e assorbiti con antica pazienza: in Anni difficili è una Sicilia frustrata, che punta al continente e si lascia toccare dalla vanità e dalla corruzionc; in L’arte di arrangiarsi è l’altra Sicilia ornai inurbata. dimentica di se stessa e che produce degli eroi negativi. Emblematici del costume nazionale: Il bell’Antonio è una Sicilia estenuata, prigioniera del mito isolano della virilità. Che va in frantumi senza clamore eccessivo ma in un clima di disfacimento e di splendori barocchi.

La parabola cinematografica di Brancati, così come quella letteraria, fu breve ed intensa. Cosi come lo fu il rapporto con la sua terra, che egli sentì in modo profondo e persino doloroso, come un cordone ombelicale restio a lasciarsi recidere e attraverso il quale continuò ad assorbire – non passionalmente, bensì filtrandoli attraverso una vigile sensibilità critica – succhi nativi, stimoli umorali, nutrimenti della coscienza. La sicilianità di Brancati, mai sbandierata come un’insegna gonfiata dalla retorica, fu piuttosto un modo di essere, un fatto esistenziale vissuto col pudore e la nostalgia del figlio distaccato. “La parola Sicilia, va prendendo per me un suono sempre più arcano. In quest’lsola errano come spettri le quattordicimila giornate della mia vita, fra la nascita e i trentanove anni”. Così scriveva, alla vigilia della morte, in una pagina dal sapore testamentario. E in realtà, sia che figgesse lo sguardo nei drammi ovattati e gelosamente custoditi di alcuni personaggi antieroici, sia che allargasse la sua visione a una rappresentazione colorita e pletorica, grondante polemici umori, di un canagliesco commedione nazionale in cui alla Sicilia veniva assegnata una funzione catalizzatrice, quasi di un microcosmo indicativo ed esemplare, Brancati osservò costantemente piena fedeltà al proprio mondo nativo, alla propria anamnesi etnica e culturale, alle radici profonde della propria sicilianità.

La storia del cinema italiano, della Sicilia nel cinema e del cinema in Sicilia, ha un ampio capitolo – accanto a quelli scritti da Visconti, da Germi – che va riservato a Brancati, e del quale alcune pagine significative dovranno essere riconsiderate dai siciliani e non. È solo da rimpiangere che sia un capitolo sugellatosi troppo presto; che nei confronti di Vitaliano Brancati scrittore, cineasta, siciliano, la letteratura, il cinema, la Sicilia, e noi tutti, siamo rimasti creditori di molte cose.


GUIDO CINCOTTI

Redazione, 22 ottobre 2019

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