UN UOMO IN GINOCCHIO (1979), O L’ENFASI DI DAMIANI TRA IL BENE E IL MALE

Nino Peralta (Giuliano Gemma), marito di Lucia (Eleonora Giorgi) e padre di due ragazzi, è gestore di un chiosco-bar nei pressi della Cattedrale di Palermo. Un giorno, messo sull’avviso dell’anziano socio Sebastiano Colicchia (Tano Cimarosa), s’accorge d’essere pedinato da un certo Platamone (Michele Placido), probabile sicario a pagamento.

    Prima ancora che riesca ad affrontare direttamente il persecutore, Nino viene a sapere di essere nella lista che una costa mafiosa ha compilato di persone da eliminare: e s’avvede che la catena di uccisioni si sta dipanando inarrestabile. Il Peralta cerca invano presso chi scagionarsi poiché, a quanto sembra, la sua condanna a morte è stata decisa per il fatto che una tazzina del Bar Splendor è stata rinvenuta nel nascondiglio-prigione della moglie di un grosso mafioso; e l’indizio lo legherebbe alla cosca nemica dello stesso. Nino, messosi in contatto con Platamone, si trova costretto a vendere il chiosco. Ma, dopo che il Colicchia è stato ucciso, lo stesso mandante di Platamone, Don Vincenzo Fabbricante (Ettore Manni), si presenta a Nino e cerca di legarlo al proprio carro. Il giovanotto, disperato e deciso a star al largo dalla mafia, uccide don Vincenzo e cerca di convincere Platamone a inalberare con lui la bandiera della indipendenza. Ma questi non lo crede possibile e si ribella. Nella colluttazione, involontariamente Nino colpisce il compagno di sventura che, cadendo, si ferisce mortalmente per fatalità.

    Fra i film sulla mafia diretti da Damiano Damiani Un uomo in ginocchio, scritto con Nicola Badalucco, occupa un posto particolare: è infatti un tentativo di vedere il problema a livello popolare, cioè in mezzo alla manovalanza. La faida fra due grandi “famiglie” palermitane, che ha portato al sequestro e alla sanguinosa liberazione della moglie di uno dei capi, è vista soltanto nei sussulti che provoca nella vita di Nino: ex ladro d’automobili, pregiudicato, modesto bibitaro con famiglia a carico, finito per errore in una lista di otto condannati sui quali deve abbattersi la giustizia dell’onorata società.

    Quando Nino scopre di avere addosso Platamone, un killer di Borgetto, lo affronta per convincerlo della propria innocenza, cade nelle sue reti, viene imbrogliato e sfruttato. Un intervento dell’alta mafia, anziché chiarire la situazione, drammatizza sempre di più lo scontro fra la vittima e il killer, poveri sottoproletari destinati a sbranarsi a vicenda.

    Prima di indulgere a un’ambizione un po’ smodata di apologo brechtiano, il film risulta avvincente nella descrizione di ambienti e comportamenti sociologicamente aberranti; e in qualche modo, oltre che rifarsi a una buona documentazione sull’argomento, rispecchia l’afflato romanzesco del primo Sciascia, quello di Il giorno della civetta non a caso portato sullo schermo dello stesso Damiani.

    Fra gli interpreti è più sobrio e convincente Giuliano Gemma, mentre l’estrosa caratterizzazione del killer fatta da Michele Placido indulge a uno psicologismo un po’ isterico. Come in tutti gli ultimi film di Damiani, più che i contenuti di denuncia conta lo spettacolo, la capacità di avvincere; e, se Un uomo in ginocchio non raggiunge i livelli del notevole e a torto sottovalutato Io ho paura, resta certamente un film d’azione di ottima fattura, con una sceneggiatura ben oleata e un meccanismo spettacolare di presa sicura, nonostante qualche incertezza e oscurità.

    Bella la musica di Mannino, buona la fotografia di Guarnieri (a parte le inutili concessioni al suo solito debole per il “flou“, nel caso specifico assai poco funzionale), sempre notevole e preciso il montaggio. Un ottimo prodotto spettacolare insomma. E al di là del meccanismo spettacolare il film può avere un suo valore proprio come tentativo di approfondimento di questi tre personaggi, di questi tre “vinti”: più scontati certo quelli di Nino (un uomo coinvolto senza responsabilità in un affare più grande di lui) e della moglie (che cerca di essergli vicina e di dargli coraggio lottando insieme a lui), ma originale e azzeccatissimo quello del killer, pesce piccolo che vuol tentare di sfruttare la situazione a suo vantaggio fino a rimanerne schiacciato.

    L’ultimissima parte, il confronto fra le due vittime cui sono stati scambiati i ruoli (Nino da braccato è diventato “cacciatore”), è sicuramente la più bella e intensa del film: non solo per il colpo di scena a sicuro effetto, ma anche per la profonda disperazione, per il senso di sconfitta senza scampo che domina tutto l’epilogo, dove anche la natura i cui colori si sono fatti più cupi sembra partecipare al dramma dei due uomini. Come ne Il giorno della civetta, anche in Un uomo in ginocchio il finale non è consolante, e non potrebbe esserlo per il confronto che il racconto fa con la realtà. Magari bastasse un film a cancellare un fenomeno tanto radicato. Questa faida fra derelitti ha cadenze da tragedia greca, Damiani alterna con bravura le scene corali ai testa a dei due protagonisti, e mantiene nella misura giusta una recitazione “gridata” che rischia di scappare sopra le righe. Per cui , un film d’ordinaria ma non cattiva amministrazione, e  sullo sfondo d’una Sicilia che ancora una volta enfatizza il Male e il Bene, e dunque offre spunti efficaci a uno spettacolo popolare. Qui condensato nei profili dei due protagonisti, e diffuso nei modi del thriller sociale d’origine americana, senz’altra ambizione che l’indurre la grande platea a cogliere l’inevitabilità delle sorti riservate ai derelitti, lungo strade diverse, da un paesaggio violento e sinistro, dove il potere della mafia distrugge ogni speranza di riscatto e travolge i deboli. L’aspetto più interessante del film è nel confronto tra Nino e Platamone, ciascuno con una famiglia affamata alle spalle: un killer e il suo bersaglio che potrebbero essere amici se la paura e la miseria non li mettessero l’uno contro l’altro sconfiggendo le buone intenzioni.

    Nonostante qualche eccessiva concessione al melodramma, Damiani ne compie i caratteri con umana partecipazione, temperando il suo determinismo un po’ ottocentesco con una volenterosa analisi psicologica. e ci trasmette con abilità di giallista le tensioni prodotte dal reciproco sospetto. Dopoché, con qualche fatica, si è entrati nel meccanismo del racconto, la storia assume infatti colori disperati. Siamo al di là del sociologico e del politico, siamo nella tragedia di un gioco crudele.

    Conoscendo ormai la Sicilia come le sue tasche, l’udinese Damiani lo conduce con una fantasia che probabilmente non tradisce il vero, e che anche nelle figure di contorno ha giuste intuizioni. Pensiamo alle mogli sventurate di quei furfanti, al figlioletto di Nino che ha già cominciato a rubare, all’amico Colicchia borsaiolo di buon cuore ucciso senza colpa. Onesto prodotto d’un autore probo, insieme a due ore di avventura, Un uomo in ginocchio offre un altro viaggio alle amare sorgenti dell’angoscia collettiva.

RENATO RIGA

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