SPERDUTI NEL BUIO (1914), IL CAPOLAVORO PERDUTO (?) DI MARTOGLIO

Non ho mai visto Sperduti nel buio (1914). Benché sia ormai quasi un vegliardo, appartengo a quella generazione che per pochi anni, per un pelo, direi, ha mancato la possibilità di conoscere quest’opera chiave nella storia del cinema muto italiano, del quale si continua a parlare da decenni senza una cognizione diretta, e che ha finito per assumere i contorni indefiniti e i colori evanescenti della cosa mitica. Scritto sull’acqua, diceva Zavattini del cinema, tanti anni fa.

    Definizione oggi un po’ meno vera, oggi che con lavoro paziente ed oscuro, da segugi e da certosini, conservatori di cineteche e di archivi vanno raccogliendo e individuando, restaurando e convertendo su supporti di sicurezza, duplicando e conservando e divulgando tutto quanto è possibile ancora reperire dell’eredità cinematografica del passato, e hanno ottenuto finora risultati sorprendenti, accumulando nei loro magazzini decine e forse centinaia di migliaia di opere di molte delle quali sembrava essersi spento anche il ricordo. E ancora oggi, quando sembra che tutti i possibili terreni siano stati arati, capita di fare delle scoperte entusiasmanti: di trovare, per esempio, gli incunaboli del cinema americano depositati tra i fondi di magazzino della Library of Congress di Washington, stampati su carta, fotogramma per fotogramma, come altrettante fotografie e come tali a suo tempo registrati a fini di copyright, in un’epoca in cui ancora non esisteva la tutela del diritto d’autore sulle opere cinematografiche; o di scoprire in una landa ghiacciata dell’entroterra canadese uno stock di pellicole mute ben conservate grazie a un perfetto sistema di… refrigerazione naturale; o di riconoscere – ed è già cosa che ci riguarda più da vicino – in un archivio nordamericano, mimetizzati sotto titoli diversi da quelli originali ad uso delle nostre comunità di immigrati, un bel gruppo di film italiani, non tutti minori, degli anni Trenta, e fra essi qualcuno di cui da tempo si era persa ogni traccia in Italia.

    Ma di fronte a talune vittorie, a scoperte curiose e talvolta esaltanti, quante sconfitte, quante frustrazioni, attese deluse, tracce seguite invano, piste imboccate speranzosamente e poi insabbiatesi senza rimedio, ricerche destinate a non dare frutto. E quante sparizioni di cose già esistenti. È il caso di Sperduti nel buio: secondo fra i quattro film diretti da Nino Martoglio e primo fra i tre realizzati dallo scrittore per la Morgana Film, la casa produttrice da lui stesso creata assieme a Roberto Danesi tra la fine del 1913 e gli inizi del 1914; l’unico, che dopo la fine repentina di quella casa – Danesi, ii vero finanziatore, viene chiamato alle armi e muore pochi giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia – fosse sopravvissuto al dissolvimento della ditta stessa e di cui negli anni successivi fosse ancora possibile avere una conoscenza diretta. Fino a quando quest’ultima testimonianza dell’attività cinematografica di Martoglio non conobbe anch’essa una sorte avversa, e si disperse, dolorosamente e, dovremmo dire, definitivamente: svanita, sperduta in un buio che nessuno proiettore cinematografico potrà più illuminare.

    Con questa mia comunicazione vorrei appunto ricordare brevemente questa vicenda, che ha il sapore di una penosa odissea senza, ahimè, il consolante approdo finale. Ad altri il compito d’inquadrare storicamente I’importanza di Nino Martoglio nel cinema italiano dell’immediato anteguerra, la sua originalità, gli influssi che assorbì e quelli che esercitò su altri; o di ricordare i successivi, non frequenti ma neanche rari, ricorsi che il cinema italiano ha fatto al repertorio teatrale dello scrittore catanese. Io mi limito ad assolvere un compito cronologico: riferendo fatti in parte già noti, e aggiungendo qualche particolare sconosciuto ai più, dar ragione del perché quelli della mia generazione – e a maggior ragione quelli delle generazioni più giovani – non hanno potuto vedere né, allo stato dei fatti, potranno mai vedere Sperduti nel buio. Dunque, qualche copia del film, sopravvissuta al disastro della Morgana, aveva continuato a circolare durante e dopo la prima guerra mondiale, fino all’avvento del sonoro.

    E verso la fine degli anni Trenta una copia in buono stato era stata accolta presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, i cui animatori, la grande trimurti Chiarini-Barbaro-Pasinetti, andavano inseguendo e sottraendo al macero vecchie pellicole e formando il piccolo ma prezioso nucleo iniziale di quella che sarà la grande raccolta della Cineteca Nazionale, che io ho adesso I’onore di dirigere e che oggi può inorgoglirsi dei suoi più che ventimila titoli. Contribuivano a formare questo nucleo opere come La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer, Il milione (1920) di Mario Bonnard, Femmine folli (1922) di Erich von Stroheim, Alleluja! (2929) di King Vidor, L’uomo di Aran (1934) di Robert J. Flaherty e, assieme a pochi altri, Sperduti nel buio di Martoglio. Sono gli anni in cui un folto gruppo di giovani, raccolti appunto nelle aule del C.S.C. e nelle redazioni di Cinema e di Bianco e Nero, iniziano dapprima confusamente ma via via con sempre maggiori consapevolezza a palesare la loro insofferenza per la cinematografia italiana dell’epoca, a porsi dei modelli sgraditi o addirittura tabù – il cinema americano, quello del Front populaire francese, quello sovietico -, a dare battaglia contro il cinema d’evasione, contro il cinema dei Telefoni bianchi, contro “i film che parlano al vostro cuore”, contro il cinema del regime o di regime. Parlano di realismo; di un cinema dell’uomo; di un cinema “antropomorfico”.

    Alcuni nomi: Ingrao, Alicata, i fratelli Puccini, De Santis, Lizzani, Antonioni; e – esterno al gruppo ma ben presto loro leader culturale – Visconti. Si parla di realismo, se ne cercano, anche con salutare tendenziosità, le tracce attraverso la storia della cultura italiana del Novecento, il teatro, la narrativa, il cinema. Ci si richiama a Verga; al teatro dialettale d’impronta veristica; si inseguono i fantasmi di un cinema diverso dalle mistificazioni pseudo-romane dei Quo vadis? e dei Cabiria o dalle vacuità salottiere dei Ma l’amor mio non muore… (1914) o di La serpe (1920) o di La piovra (1919). Si scoprono Martoglio, Bracco, Di Giacomo, Ferdinando Russo: letteratura, poesia e teatro dialettali, voci del popolo, alimentate dai sentimenti genuini e dalle passioni reali della gente del popolo. Assunta Spina, bozzetto naturalistico di un autore la cui più autentica vocazione era quella del lirico appassionato e solare, aveva acquistato sullo schermo accenti di verità assoluta, grazie a una semplicità di messinscena e all’apporto creativo di un’attrice ispirata. Diviene uno dei punti di riferimento di quel gruppo di giovani. Più ancora Sperduti nel buio, e non soltanto per la circostanza di poterlo visionare in moviola o in sala, di commentarlo, di discuterlo, ma anche perché in esso trovano una carica di passionalità popolaresca, una vigorosa contrapposizione tra la falsità del mondo aristocratico e la verità di un mondo di diseredati, di miserabili, di umiliati e offesi, che appaiono molto consonanti con le loro posizioni di violenta polemica anti-borghese.

    Sperduti nel buio diviene una bandiera, la testimonianza del sussistere, nella nostra più lontana tradizione cinematografica, di un filone realistico più volte riaffiorante anche in seguito – e pensano a Sole! di Blasetti, a 1860 del medesimo Blasetti, a certi film di Camerini, a Treno popolare di Matarazzo che è tempo di riprendere e alimentare con nuovo vigore. Ma qui hanno inizio le vicende penose di questo film diventato, suo malgrado e certo contro ogni ragionevole previsione del suo autore, una sorta di film-manifesto. La guerra, la sconfitta, l’occupazione. Dopo l’8 settembre Roma è presto in mano ai tedeschi. Occupano, requisiscono, depredano. Legge di guerra; non voglio discutere. E mentre i fascisti covano il sogno di ricostruire al nord d’Italia una effimera Cinecittà lagunare, trasferendovi attrezzature, macchinari e un gruppetto di cineasti sciagurati, ecco che Cinecittà, l’Istituto Luce, il Centro Sperimentale, i luoghi deputati del cinema italiano diventano bivacco di reparti di truppe tedesche, pronte a stringere in una morsa di ferro la capitale d’Italia. I tedeschi sanno, o presentono, che la loro è una presenza effimera, un’occupazione aleatoria. Stanno a Roma ma già si preparano a uno sgombero improvviso e più o meno prossimo: e portano via quanto possono. Il 31 ottobre 1943 un gruppo di militari germanici, guidati da un tenente, requisiscono tutti i film della modesta ma preziosa cineteca del Centro Sperimentale: la data è certa perché attestata da documenti. I tedeschi, burocrati pur nella razzia, esibiscono un ordine di requisizione avallato da autorità italiane, e firmano una regolare ricevuta. Le copie, spiegano cortesemente ai funzionari del Centro costernati, saranno custodite presso il Reichsfilmarchiv di Berlino, al riparo dai possibili disastri della guerra che si avvicina. Stiano tranquilli: a Berlino la guerra non arriverà mai, e a guerra finita – a guerra vinta, avrà detto – i film verranno restituiti intatti.

    Ai funzionari, tutt’altro che tranquilli ma certo impotenti, è giocoforza ubbidire. Un usciere riesce a nascondere in un anfratto una trentina di copie; le altre partono per incerta destinazione. Fra esse, Sperduti nel buio. Passano i mesi, alcuni anni. La guerra è finita, ma in modo diverso da quello ipotizzato – e garantito, con teutonica osservanza – dall’ufficiale della Wehrmacht. Nello sfacelo generale non sembrerebbe che si potesse annettere gran parte di una cultura e di una civiltà che hanno subito ben più gravi offese. Eppure, appena riaperto il C.S.C., nel 1947, i suoi dirigenti si mettono immediatamente sulle tracce delle copie razziate, tentano con pazienza e tenacia i loro recupero. Segnalano la questione alla Commissione alleata per il recupero delle opere d’arte; ma poiché pare che i film della Cineteca siano finiti in una località della Germania ora controllata dai russi, nulla può fare la Commissione, competente solo per le zone controllate dai francesi e dagli anglo-americani. Interventi presso il nostro Ministero degli Esteri e presso I’Ambasciata sovietica a Roma rimangono senza esito.

    La questione sembra ormai chiusa. Commissioni, Direzioni Generali, Ministeri, Ambasciate se ne disinteressano. Ma gli uomini di cineteca non si arrendono. E nel 1951 il mio collega e predecessore nella direzione della cineteca del Centro – nel frattempo divenuta Cineteca Nazionale -, Fausto Montesanti, riesce a prender contatto con l’antico direttore del Reichsfilmarchiv, e gli chiede notizie sulla sorte dei film italiani. Ne riceve risposta a volta di corriere. Una risposta cortese, precisa, particolareggiata, persino attendibile. L’ex direttore dell’archivio tedesco, ora a riposo o forse “epurato”, ricorda. e riferisce con molta esattezza. Dalla sua lettera vien fuori una storia inenarrabile di vagoni ferroviari partiti, annunciati, ritardati, arrivati, rifiutati, dirottati, ispezionati, sigillati, rinviati, fermati, scaricati, spariti. Conclusione: tutto l’enorme stock di pellicole – 50 milioni di metri, precisa, di cui quelle italiane eran solo una parte – sarebbe finito nelle mani dei sovietici. Rivolgersi a loro. Ma, avverte l’ex conservatore, un incendio ha devastato quei materiali durante la loro odissea, distruggendone una parte. Sulla traccia di questa informazione, pur inficiata da un interrogativo – quali materiali saranno bruciati in quell’incendio? – si riprendono le ricerche, ci si rivolge direttamente ai russi, favoriti anche dai frequenti, stretti e amichevoli rapporti ormai esistenti tra gli archivi cinematografici di tutto il mondo, operanti in un organismo unitario che li raggruppa tutti e che è la F.I.A.F. La risposta è sconsolante: non solo non hanno i film italiani requisiti tanti anni fa al Centro Sperimentale da un tenentino della Wehrmacht, ma nulla hanno mai saputo di questa operazione, e del sinistro andirivieni di quel carico ferroviario su e giù per l’Europa. Di questa ennesima e, sembrerebbe, definitiva notizia è giocoforza prendere atto, almeno sul piano ufficiale. Su un piano ufficioso, informale, quasi privato, vorrei dire, le ricerche ancora continuano. Le frontiere si aprono, gli scambi culturali si fanno più intensi, i rapporti interpersonali, fondati sulla stima e fiducia reciproca, fioriscono. In seno alla F.I.A.F. lo scambio di informazione è continuo, aperto, privo – debbo dire – di riserve.

    Io stesso ho modo di visitare il Gosfilmofond, la grande cineteca moscovita; vado a Berlino Est, dove opera un altro fra i maggiori archivi del mondo. Rinnovo più volte la richiesta: chiedo gli elenchi di film italiani giacenti in quelle cineteche, cosi come in altre. Li ottengo, attuo recuperi di una certa importanza: non sussiste, ragionevolmente, alcun motivo per dubitare della buona fede degli interlocutori, per supporre riserve mentali o risposte mendaci. La realtà oggi è questa. Nel campo dei ritrovamenti di documenti cinematografici del passato nessuna parola può mai essere definitiva: tutto si crea e nulla si distrugge, potrebbe essere l’insegna, e la speranza, di chi si occupa di questa materia. Dalla Bulgaria mi viene, anni fa, una copia eccellente di Inferno (1911), un film della Milano Films realizzato tra il 1909 e il 1911: primissimo esempio, in Italia e nel mondo, di lungometraggio. Dagli archivi del Museo di Arte Moderna di New York mi vien segnalata, e poi inviata, una copia di Darò un milione (1935), una delle opere maggiori di Mario Camerini, da oltre quarant’anni irreperibile in Italia.

    Per restare a Nino Martoglio, è recentissima la scoperta, in Francia, di un ampio brano, pur se lacunoso, del suo Teresa Raquin (1915), che non dispero di acquisire in tempi non lunghi, e che costituirà per ora l’unica vivente documentazione dell’attività cinematografica dello scrittore. Continuiamo dunque il nostro lavoro, con una fiducia cui i periodici, spesso fortuiti ritrovamenti danno nuovo alimento. Tutto è possibile: e chissà che un giorno – che mi augurerei venga, prima o poi – non possiamo ritrovarci a Palermo o a Catania per vedere assieme, con commozione e trepidazione, emerso miracolosamente dal buio nel quale oggi sembra irremissibilmente sperduto, quello Sperduti nel buio del quale ho voluto ricordarvi brevemente la disgraziata vicenda.

 

GUIDO CINCOTTI

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