DESTINO (1921): QUANDO IL CINEMA DÀ UN VOLTO ALLA MORTE

Il primo importante capolavoro di Fritz Lang, vero precursore del genere fantasy tra mito e analisi sociale nella Germania di Weimar.

La forza del “racconto per immagini”. Questa frase può ben sintetizzare l’essenza di Destino (Der müde Tod) (1921), film muto, primo di una lunga serie di capolavori firmati da Fritz Lang, il cineasta visionario ed innovativo a cui va riconosciuto il suo grande contributo donato allo sviluppo della “settima arte” nel mondo occidentale.

  Si tratta di una pellicola che, per molti aspetti riguardanti sia il livello tecnico-espressivo che quello delle tematiche affrontate, è rappresentativa di come il regista austriaco naturalizzato tedesco, abbia interiorizzato e rielaborato in una maniera del tutto soggettiva taluni aspetti che caratterizzarono l’avanguardia artistica rappresentata dall’espressionismo, terreno fertile e ricco di spunti di ricerca e sperimentazione che dalla pittura ed alle altri figurative passò in primo piano proprio nel cinema. Per Lang Destino (1921) ha anche rappresentato il suo primo vero grande successo internazionale ma anche un significativo riscatto personale a seguito della deludente esclusione dalla regia de Il gabinetto del dottor Caligari (1920), in cui fu preferita l’altrettanto originalità di Robert Wiene.
Con Destino inizia anche la ricchissima stagione artistica di Lang che collaborò all’affermazione di taluni valori della Germania della Repubblica di Weimar, un processo destinato a culminare nella lavorazione di veri capisaldi entrati a far parte dell’Olimpo del cinema di tutti i tempi, quali Il dottor Mabuse (1922) e, qualche anno più tardi, lo stesso Metropolis (1927), opera magnifica per eccellenza.

  Scendendo più nello specifico di alcuni dettagli, l’appartenenza di Destino alla corrente espressionista può essere individuata nella presenza di taluni elementi tecnici ma anche in alcune componenti strettamente tematiche. Per il primo aspetto Lang si avvalse della preziosa quanto esperta collaborazione di Hermann Warm e Walter Röhrig, famosi per aver firmato le scenografie di Caligari. Costoro, però, non si limitarono a semplici impalcature teatrali, cosa che fecero per il film di Wiene, ma realizzarono delle magnificenti strutture architettoniche sostituendo alla spiccata ed arzigogolata bidimensionalità propria di Caligari una tridimensionalità sapientemente costruita per simmetria, linearità e grandiosità.

  Fu grazie a questo tipo di operazione che Lang riuscì a creare all’interno della pellicola una realtà spaziale propria di chi vive in una dimensione astratta dal tempo e dallo spazio ove i canoni della geometria euclidea vengono sostituiti da una nuova geografica visionaria ed astratta, in cui le ombre proiettate sulle pareti, le inquadrature dal basso, le rigorose simmetrie e composizioni delle inquadrature servissero a rappresentare una storia in cui la protagonista personificata è la Morte, unica ed eterna costante che accomuna, assieme alla vita, tutti gli esseri umani.

  Da qui il ricorso ad una trama sapientemente scritta e sceneggiata da Thea von Harbou, che proprio con questa pellicola inaugura la sua fruttuosa collaborazione con Lang, nel frattempo divenuto anche suo marito. La storia si sviluppa a partire da un racconto centrale che funge da cornice in cui si inseriscono altre tre storie in cui sono evidenti buona parte degli elementi tematici che hanno caratterizzato l’avanguardia espressionista rappresentati dal costante ricorso al soprannaturale, non senza limitarsi alle suggestioni provenienti dalla religione più diffusa nella Germania di quei tempi rappresentata da un cristianesimo che si innaffia di credenze e miti provenienti direttamente dal sostrato popolare ma includendo anche le citazioni di alcuni passaggi tratti dalla Bibbia, unica fonte di Verità e simbolo di quell’ideologia protestante che proprio nel popolo tedesco aveva avuto origine.

  Ma non manca nemmeno il ricorso all’irrazionale ed all’elemento legato all’esotico che si colora a tratti anche di fiabesco, fino ad arrivare al meraviglioso, tutti componenti che permettono alla stessa trama di valicare i confini europei ed esplorare mondi lontani e continenti poco conosciuti quali l’Asia ed il Medio Oriente. E non fu un caso che in ambiente anglosassone quest’opera fu definita per la prima volta un film fantasy, termine che avrebbe segnato il futuro di un genere in fieri destinato, come sappiamo, ad avere grande apprezzamento nell’evoluzione produttiva del cinema fantastico. Ruolo centrale, tuttavia, viene assunto dalla Morte col suo grande potere esercitato all’interno dell’esistenza degli uomini di tutti i tempi, già di per sé la metafora della caducità delle cose terrene, un concetto centrale che Lang riesce a tramutare con la sua grande bravura in delle immagini destinate a diventare topiche.

  Una tra queste è la sua personificazione nel volto e nelle sembianze sinistre di un uomo (Bernhard Goetzke), dalle magre fattezze che irrompe nella tranquillità di un villaggio, un posto indefinito in un tempo imprecisato a cavallo del Settecento e dell’Ottocento; porta con sé un cappello dalle grandi falde sotto al quale si cela l’immagine di un volto scarnato con due occhi che incutono paura e terrore. E il suo arrivo non manca di stravolgere la serenità di quel luogo e, soprattutto, di due giovani fidanzati (Lil Dagover e Walter Jansen) ignari che il loro amore sarebbe stato presto sconvolto proprio dalla presenza di quella funesta persona. Nel frattempo nella locanda del villaggio il sindaco (Hans Sternberg), il notaio (Max Adalbert), il pastore (Ernst Rückert), il medico (Wilhelm Diegelmann), e l’insegnante (Erich Pabst) discutono sulla strana richiesta di quel forestiero di acquistare il terreno adiacente al cimitero per farvi un giardino. Accettano la sua richiesta e nel pezzo di terra viene subito eretta una gigante muraglia. Alla stessa locanda irrompono i due giovani innamorati che, per festeggiare il loro amore, accettano di bere nella coppa nuziale che l’ostessa gli porge, simbolo di un cammino di fortuna e prosperità. Improvvisamente, però, a scuotere la felicità dei due giovani ci pensa proprio quell’uomo dal cappello grande e dallo sguardo inquietante. Si siede nel tavolo accanto ai due giovani innamorati ma la donna percepisce subito uno strano presagio nel bicchiere di birra che il misterioso personaggio tiene in mano ed in cui appare una clessidra.

  Da qui il dramma che si compie: il promesso sposo viene rapito dall’oscura presenza mentre la ragazza capisce che quell’uomo non è altro che la Morte. Ma la giovane donna, guidata proprio da quest’ultima, riesce ad entrare in una stanza piena di candele, simbolo della vita di ogni uomo. Quasi incredula di ciò che sta vivendo, riesce ad ottenere dalla morte la possibilità di riavere il suo fidanzato in vita se riuscirà a salvare quella di tre uomini rappresentati da tre candele che sono sul punto di spegnersi e che si trovano in posti lontani ed in epoche diverse. Le tre vite da salvare vivono rispettivamente in una città musulmana, a Venezia durante il Rinascimento e nella Cina degli imperatori. Purtroppo in tutti e tre i casi la giovane donna non riesce a salvare le vite ma la Morte le mostra un segno di compassione dandole un’ultima chance: salvare qualsiasi vita in un’ora e il suo fidanzato sarebbe ritornato tra le sue braccia.

  Alla donna, però, questa volta la possibilità non viene a mancare: un neonato sta per morire in una casa avvolta dalle fiamme ma non riesce a mettere a tacere il suo amore per la vita di un piccolo innocente, lo salva e lo consegna nelle braccia della madre. Da qui la sua scelta di consegnare la sua vita alla Morte morendo tra le fiamme e, così, potersi ricongiungere al suo amato per l’eternità. Un finale drammatico che segna il significato profondo dell’esistenza umana che non ha nessun potere di opporsi con il suo libero arbitrio ad un “destino” già deciso dall’Alto.

    Il film non ebbe, in un primo momento, un particolare successo in Germania e, negli Stati Uniti, subì ampi tagli che ne compromisero la reale fruizione da parte del pubblico, tuttavia ricevette un particolare apprezzamento sia in Francia che in Inghilterra. Si trattò, però, solo di un punto d’inizio che condusse Destino e lo stesso Lang ad ottenere la giusta stima di pubblico e di critica anche in Germania. Qui ottennero particolare fama anche gli attori che possono essere considerati i due volti più carismatici nonché i pilastri portanti della pellicola: Lil Dagover, già divenuta famosa in ambiente mitteleuropeo grazie alla sua partecipazione in Caligari e Bernhard Goetzk che con la sua magistrale interpretazione della morte ha contribuito a segnare col suo volto la storia del cinema di tutti i tempi.

  Il significato profondo di questo primo capolavoro di Lang sta nella consapevolezza che, per quanto arbitrarie possano sembrare, le azioni dei tiranni sono manifestazioni del fato. E non è un caso che il film finisca col sacrificio della giovane donna che sceglie di immolarsi alla morte abbandonandosi alle fiamme, una scena che è anche accompagnata da una didascalia che ne accentua il significato religioso: “Colui che perde la vita, in realtà l’acquista”. Lang, dal canto suo, ha di certo elaborato un linguaggio cinematografico che dà un grosso contributo alla resa di questo significato profondo e, più in particolare, in una scena in cui la ragazza si trova in piedi davanti al muro, momento in cui il contrasto tra la l’immensità e la donna dall’esile figura serve a simboleggiare proprio il fato, inaccessibile alle suppliche degli uomini. Un concetto che si rende manifesto anche negli innumerevoli gradini che la fanciulla sale per andare incontro alla morte alla quale si consegna, spoglia della sua completa volontà.

  Quelli che Destino racconta sono certamente concetti molto vibrati per gli spettatori di ogni epoca: Lang è riuscito a trovare un volto alla Morte condensando in un’unica pellicola la storia dell’uomo attraverso i secoli e il suo tentativo unilaterale di disegnare il corso della sua vita, per poi cedere al succedersi degli eventi preordinati contro i quali nulla può il suo libero arbitrio di cui va (troppo) fiero. A volte il destino dell’umanità, poi, si può trasformare in quello di un popolo, quello tedesco, impotente ai piani “mortali” di un tiranno che, qualche anno dopo l’uscita del film, avrebbe condotto la Germania e il mondo intero nel buio della guerra e nella notte più oscura per l’umanità intera.

    Non furono pochi i cineasti che, per diversi motivi, si lasciarono influenzare da Destino e, tra loro, uno in particolare: Alfred Hitchcock. Il regista britannico decise di dedicarsi al cinema subito dopo la visione del film. Un altro effetto seminale dell’opera di Lang, che influenzerà l’evoluzione cinematografica in chiave orientativa.

GALLERIA FOTO

GALLERIA VIDEO