MAFIOSO (1962) DI LATTUADA. RITRATTO DATATO DI UNA SICILIA PSEUDO EMANCIPATA

Girare un film di mafia nei territori dell’entroterra siciliano può a volte rivelarsi un’autentica avventura, nel senso positivo del termine.

La gestazione del Mafioso di Alberto Lattuada è stata costellata da episodi anche abbastanza curiosi in tal senso, ma del tutto coerenti con le ambientazioni prescelte e, naturalmente, con il periodo storico in cui fu girato, 1962.

    L’arrivo della troupe sul set – Belmonte Mezzagno, nell’hinterland panormita – incontrò al tempo stesso diffidenza, specialmente presso i più anziani, ma anche tanta curiosità e coinvolgimento fra i residenti. Parrebbe, inoltre, che l’avvio della lavorazione abbia dovuto ricevere il consenso del “potentato” locale che ne “condivise” gli sviluppi facilitandone la produzione. E così, la lavorazione poté finalmente prendere avvio.

    Tempo dopo, furono lo stesso regista e il protagonista, Alberto Sordi, a favoleggiare con presumibile enfasi – le chiavi di interpretazione dell’epoca erano piuttosto ridotti al mero luogo comune – circa questi aneddoti su un film che, ancora oggi, si riconferma uno dei migliori prodotti cinematografici sul tema “mafia” mai realizzati. Una pellicola che indaga essenzialmente il fenomeno della normalità con la quale il pensiero “mafioso” si insinua nel tessuto sociale, tanto da ricevere riguardi ed approvazione, ma soprattutto in grado di plasmare la mentalità e la percezione individuale. Come un pensiero radicalizzato che, una volta instauratosi, tornerà sempre a bussare alle porte della coscienza chiedendo il proprio personale tributo.

    Antonio Badalamenti (Alberto Sordi), emigrato siciliano e caposquadra di un’officina meccanica milanese, torna nella natia Càlamo per trascorrere le vacanze estive assieme alla moglie Marta (Norma Bengell) e le due figliolette. Il ritorno a casa è vissuto con molta trepidazione da parte dell’uomo il quale, con l’occasione, deve anche consegnare personalmente un pacchetto a Don Vincenzo, suo compaesano, affidatogli da un dirigente italo-americano dell’azienda.

    L’arrivo a destinazione rappresenta due esperienze contrastanti per i coniugi Badalamenti: lui è felice di ritrovare dopo anni la sua “calorosa” famiglia assieme agli amici del luogo, mentre Marta si sente un pesce fuor d’acqua in quel contesto così culturalmente distante dalla sua Milano. Nel frattempo, Antonio compie la sua missione relativamente alla consegna del misterioso dono ma non immagina ancora quale sarà il vero compito che dovrà portare a termine.

    Munito di un bel paio di baffi ed un posticcio ma non troppo abusato accento siciliano, Alberto Sordi mette in scena uno dei più bei ruoli della sua vasta filmografia, vestendo i panni del perfetto emigrato meridionale che si trasferisce al Nord, mette su famiglia e fa carriera in fabbrica. Meticoloso, preciso (è un cronometrista) ed ossequioso sul lavoro, il personaggio di Antonio Badalamenti è un uomo fondamentalmente felice della sua vita che tuttavia non vede l’ora di tornare nella sua terra, assaporando momento dopo momento il lungo viaggio in treno, contrariamente alla moglie che, invece, saluta quasi con tristezza il resto d’Italia che si allontana oltre lo Stretto.

    In tutta la prima parte del film, che scorre piacevolmente sui toni comico-grotteschi, Lattuada mette in risalto queste sensazioni antitetiche, contrapponendo all’entusiasmo di Antonio il disagio di Marta che fa fatica ad ambientarsi in quella casa piena di parenti dalle abitudini così diverse dalle sue. Il tipico folklore siciliano è messo ben in mostra, evidenziando i costumi e le consuetudini della gente locale, tra lauti pasti, cerimoniosità ma anche tanta diffidenza iniziale nei confronti del forestiero (una donna che fuma a tavola è cosa ancora inconcepibile nella Sicilia dei primi anni ‘60). Superato l’iniziale impatto, però, anche Marta comincia a vedere il tutto con occhio diverso, mettendo da parte i pregiudizi e stringendo amicizia in particolar modo con la cognata, fino al punto da voler restare a Càlamo oltre il tempo prestabilito.

    Se la rappresentazione pittoresca di certa forma mentis meridionale di cinquant’anni fa strappa più di un sorriso (basti considerare la scena della “pupa” di sabbia o, ancora, quella degli abitanti che spiano da dietro le finestre i movimenti della famigliola), man mano che la narrazione procede ci allontaniamo progressivamente dai lidi confortanti della commedia per inoltrarci in territori più oscuri e meno piacevoli da affrontare. Quel pacchetto che Antonio deve consegnare a Don Vincenzo, in realtà un boss locale, contiene nient’altro che una sentenza di morte commissionata dalla mafia italo-americana e dovrà essere proprio Antonio, tenuto fino all’ultimo momento all’oscuro, l’esecutore materiale del delitto. Contando infatti sulla sua pregressa esperienza come picciotto quando era un ragazzo, sulla sua immutata capacità di tiro e facendo soprattutto leva psicologica su un favore che Don Vincenzo concede al padre di Antonio, la cosca locale vede in lui il killer perfetto, tanto più che questi dovrà fare ritorno a Milano senza destare così alcun sospetto.

    Una volta messo di fronte al proprio compito, Antonio non osa tirarsi indietro, trovando tutto il proprio coraggio e spendendolo in un gesto che probabilmente sconvolgerà la sua intera esistenza (non aveva infatti mai ucciso prima di allora), pur continuando a mantenere un’apparente normalità, in famiglia come sul lavoro. Emblematica in tal senso la scena finale, con quella frase che racchiude in poche parole l’essenza di tutta la pellicola.

    Mafioso fa sorridere e indignare al tempo stesso, ma soprattutto induce a una profonda riflessione circa il radicamento di determinate concezioni nella personalità umana, frutto di retaggi mentali e culturali da cui non è quasi mai possibile sfuggire.

    Da segnalare, oltre all’eccezionale interpretazione di Alberto Sordi, la solida regia di un Alberto Lattuada sempre in grande spolvero e che viene a sua volta esaltata da una messa in quadro affascinante e curata delle ambientazioni con la scenografia di Carlo Egidi. Le musiche sono invece di Piero Piccioni.

    Curiosità: la località di Càlamo è di pura fantasia, probabilmente un anagramma della reale cittadina di Alcamo (TP) o la versione ridotta di Calamonaci (AG).

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