Girare un film di mafia nei territori dell’entroterra siciliano può a volte rivelarsi un’autentica avventura, nel senso positivo del termine.
La gestazione del Mafioso di Alberto Lattuada è stata costellata da episodi anche abbastanza curiosi in tal senso, ma del tutto coerenti con le ambientazioni prescelte e, naturalmente, con il periodo storico in cui fu girato, 1962.
“Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano.” (F. Kafka)
Uno sguardo dritto alla macchina da presa, come fosse un invito a seguirlo, lui “il Dottore”, e appena varcata la soglia dell’appartamento di Augusta Terzi siamo subito diventati testimoni del delitto più imperfetto della storia del cinema. Imperfetto per premeditazione, per volontà, per sfida: il dileggio di un funzionario di polizia nei confronti della sua stessa divisa e attraverso il suo stesso potere, nel giorno della sua promozione a capo dell’Ufficio politico.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è la quintessenza del cinema di Elio Petri, primo atto della sua Trilogia della Nevrosi (che procede con La classe operaia va in paradiso, 1971 e La proprietà non è più un furto, 1973), quale capolavoro inarrivabile che teorizza l’impunità dei poteri forti anche in presenza di prove inoppugnabili ed incontrovertibili, le stesse che il Dottore – un memorabile Gian Maria Volonté – dissemina nell’appartamento dopo il misfatto.
Un giallo politico che fotografa abilmente la situazione italiana a cavallo tra la contestazione giovanile dei sessantottini e gli anni di piombo, ponendo in risalto dinamiche e linguaggi di due fazioni contrapposte, fra rivoluzionari e reazionari, in un eterno contrasto, una relazione dicotomica figlia di quel tempo eppure a volte così vicina ed attuale.
Se la natura politica della pellicola è marcata ed inequivocabile, tanto nella sua forza narrativa che in quella stilistica (e la qual cosa in effetti non sempre può essere apprezzata), è comunque la storia a funzionare, costruita secondo il tipico schema del giallo “all’inverso”, laddove sappiamo già chi ha compiuto cosa ma lo sviluppo della vicenda è assolutamente appassionante ed avvincente, tra il drammatico ed il grottesco, tra la commedia e la tragedia, che vede come protagonista indiscusso proprio Gian Maria Volonté, superlativo, ridondante, continuamente sopra le righe e totalmente perfetto per il suo ruolo. Un’interpretazione eccellente la sua, caricaturale e macchiettistica, di un uomo psicologicamente instabile, ambiguo e forse bipolare, che si destreggia per tutto il tempo tra la voglia di sfidare le istituzioni confidando nella propria insospettabilità, e quella autopunitiva del voler essere scoperto, in un gioco a tratti infantile tra depistaggi e mezze confessioni. Così come infantile e decisamente bizzarro è il rapporto che lo legava ad Augusta Terzi, la vittima, una Florinda Bolkan bellissima e sexy, quasi sempre in vestaglia e senza intimo sotto. Nei vari flashback li vediamo passare tra il gioco di ruolo nella ricostruzione di scene del crimine, l’istigazione da parte di lei ad abusare del proprio potere, fino alla derisione e allo sberleffo.
I toni e i dialoghi talora farseschi, unitamente a certi siparietti pregni di quell’umorismo da black comedy (e sono molteplici le sequenze a riguardo), sono assolutamente funzionali allo svolgimento della storia, mai banali e mai fuori luogo, sottolineando invece il realismo della pellicola e dei suoi personaggi. Il ritmo lento inoltre ci permette di comprendere meglio dinamiche e sfumature che una visione frenetica altrimenti non permetterebbe, puntando piuttosto all’analisi introspettiva e metaforica della vicenda, compreso lo spiazzante epilogo.
Se a tutto ciò includiamo la fantastica colonna sonora di Ennio Morricone (il cui tema principale diverrà un vero e proprio tormentone) dai pregevoli inserti di musica popolare con l’utilizzo del marranzano e del mandolino, le belle location romane e la fotografia curata da Luigi Kuveiller, allora possiamo veramente parlare di un grandissimo capolavoro assolutamente meritevole di tutti i premi che a suo tempo vinse, tra cui l’Oscar per il miglior film straniero nel 1971.
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Fin dove può spingersi la disperazione di un padre che ha perso tragicamente il suo unico, adorato figlio, e per il quale ha speso tutta la propria dignità al fine di garantirgli un futuro agiato “sistemandolo” lavorativamente? Una disgrazia che non riesce a trovare consolazione alcuna, al cui vuoto che lascia è impossibile dare un nuovo significato se non quello del senso di rivalsa, di giustizia privata, perché dinanzi al dolore e alla sconfitta che ne consegue, a volte, non vi è rassegnazione, volendo rispondere al torto subìto con altrettanta veemenza.
Se siete dei grandi sostenitori della tradizione del Giallo italiano ma intendete ora volgere il vostro sguardo verso qualcosa di più moderno, che sappia coniugare livide atmosfere simil-polanskiane al noir più cupo e intimista, con tocchi di drammaticità esistenziale ed esplosioni di violenza fisica e psicologica, questo potrebbe essere il titolo perfetto.
Qualche annetto prima che un certo Mario Bava ci mettesse definitivamente lo zampino, stabilendo con La ragazza che sapeva troppo (1963) le coordinate di un genere che tanta fortuna farà – il cosiddetto Giallo all’italiana – diversi furono gli autori che tra gli anni ‘50 e i primi ‘60 si approcciarono alle più cupe tematiche del mistery e del noir. Cronaca di un amore (1950) di Michelangelo Antonioni, Il rossetto (1960) di Damiano Damiani, L’assassino (1961) di Elio Petri o La commare secca (1962) di Bernardo Bertolucci possono tutti essere considerati perfetti esempi di gialli in odor di futura consacrazione.
Dalla penna di Leonardo Sciascia alla macchina da presa di Damiano Damiani il quale – sette anni dopo l’uscita editoriale e dopo quattro dalla prima teatrale al Teatro Biondo di Palermo (dati ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema) – adatta per il grande schermo l’opera del celebre scrittore di Racalmuto, prendendosi qualche licenza creativa in fase di sceneggiatura. Il giorno della civetta, un romanzo ed un film nati in un periodo storico -gli anni Sessanta – in cui non si aveva ancora la reale percezione del fenomeno mafioso, non ancora adeguatamente delineato e definito, tanto tra i palazzi del potere quanto presso l’opinione pubblica.
Marco Vicario “rilegge” Vitaliano Brancati in quello che è stato il suo ultimo romanzo, Paolo il caldo, per Bompiani Ed. nel 1955. Purtroppo incompleto degli ultimi due capitoli ma del quale lo scrittore siciliano aveva comunque autorizzato la pubblicazione postuma. Come già fu per Don Giovanni in Sicilia e Il bell’Antonio – entrambi già trasposti per il cinema relativamente da Alberto Lattuada nel 1967 e da Mauro Bolognini nel 1960 – anche in Paolo il caldo viene trattato il tema della sessualità come elemento cardine attorno a cui ruotano le esistenze dei protagonisti.