LA FONTANA DELLA VERGINE (1961). LA VENDETTA UMANA, NEL SILENZIO DIVINO

Direste mai che uno dei generi più controversi e scioccanti del Cinema bis affondi le sue radici nientepopodimeno che nella filmografia del maestro svedese Ingmar Bergman? Quelle sconvolgenti storie di stupri e vendette, conosciute come Rape&Revenge movies, sono state effettivamente sdoganate nel 1972 da Wes Craven con il suo L’ultima casa a sinistra, film ferocissimo dalle connotazioni “exploitative” ben marcate ma per nulla originale dal punto di vista del copione.

    Già, perché l’incolpevole capostipite di tutti i R&R è proprio quel La fontana della vergine del 1960 che darà (inconsapevolmente appunto) il via al suddetto filone cinematografico e di cui Craven farà una sorta di rifacimento, prendendo di peso gli spunti narrativi e recuperando in maniera semplicistica lo schema: “a violenza, segue sanguinosa vendetta!”. Naturalmente, gli intenti di Bergman erano ben differenti e risentivano delle sue personali riflessioni sui misteri della vita ma soprattutto sulla fede religiosa e il rapporto che lega l’uomo a Dio. Tutte cose che il grande cineasta svedese affronterà nella sua trilogia “del silenzio” ma i cui primi sentori affioravano già nel suo capolavoro supremo Il settimo sigillo (1957).

    In vista di un’importante festa religiosa, la giovane Karin (Birgitta Pettersson) viene scelta dai genitori, ferventi cattolici, per portare personalmente dei ceri ad un santuario dedicato alla Madonna. Il padre Töre (Max Von Sydow) sostiene infatti che a compiere il rituale debba essere una ragazza ancora vergine. Dopo essersi abbigliata per l’occasione con i suoi vestiti più pregiati, Karin si mette in viaggio per attraversare la foresta a cavallo, accompagnata dalla serva Ingeri (Gunnel Lindblom), rimasta incinta a seguito di violenza e, per questo, discriminata da tutti. Rosa da profonda invidia nei confronti di Karin a causa della sua condizione, Ingeri invoca una maledizione durante la preghiera al dio pagano Odino perché questi accorra in suo aiuto. Durante il tragitto Karin si imbatte in un gruppo di tre fratelli (di cui un bambino) con i quali condividerà le sue cibarie ma questi finiranno per aggredirla sotto gli occhi di Ingeri che, nascostasi, non riesce ad intervenire per aiutarla. La ragazza viene così dapprima violentata, infine uccisa con un colpo alla testa e derubata dei suoi abiti. I tre, spacciandosi per contadini in cerca di lavoro, si presenteranno al cospetto di Töre il quale in un primo momento li accoglie in casa sua rifocillandoli. Uno dei tre, però, commetterà lo sbaglio di proporre la vendita dei vestiti della ragazza alla madre che, ovviamente, li riconoscerà come tali. La vendetta di Töre sarà più che mai spietata.

    Bergman recupera il soggetto da una ballata svedese del XIV secolo e mette al centro della scena l’uomo ed il suo rapporto con il Sacro, relegando la rappresentazione grafica della crudeltà e della violenza non come fini a sé stesse, non come origine e compimento ultimo del Male (cosa che avverrà verosimilmente da Craven in poi), ma inscrivendo il tutto in uno scenario spazio-temporale ben preciso, permeato di misticismo e di conflittualità interiore, quello di una Svezia ancestrale, già cristiana (siamo in pieno Medioevo) ma non ancora completamente affrancata dai retaggi del paganesimo. Alla purezza e all’innocenza di Karin (la quale ha però ballato con alcuni uomini la sera prima e che serba un pizzico di vanità nello scegliere i vestiti da indossare) si contrappone il disonore della svergognata Ingeri, incinta, invidiosa e per di più pagana. Non sappiamo però se la sorte toccata alla giovane sia una diretta conseguenza della maledizione invocata dalla serva o, piuttosto, di una sfortunata circostanza sulla quale Dio non ha saputo (o voluto) apporre la propria misericordiosa mano. È proprio in questi termini che si interroga il padre Töre, reso impeccabilmente da un granitico Max Von Sydow, il quale ricorre appositamente ai rituali dell’abluzione e della fustigazione per prepararsi alla sanguinosa vendetta. Una vendetta che non risparmierà neanche gli innocenti (il bambino aveva soltanto assistito al martirio della ragazzina). Avendo preso coscienza del crimine del quale si è macchiato, Töre “accusa” in primis Dio di non aver impedito la tragedia occorsa alla sua unica figlia e di non aver fermato la sua mano vendicativa (“Ma tu vedi!” dice rivolgendosi a lui). In seguito, promette la costruzione di una chiesa come espiazione dei propri peccati.

    Malgrado il tono pessimistico della pellicola, il finale consolatorio (il presunto miracolo della sorgente d’acqua) rappresenta comunque un barlume di speranza circa i propositi divini, considerati al di fuori e al di sopra delle miserie umane e del libero arbitrio.
Si potrebbe scrivere ancora tanto su questo film che rappresenta uno dei tanti capolavori del grande regista svedese, soprattutto per ciò che riguarda le sue interpretazioni che – a ben guardare – non sono comunque univoche. Rimane il fatto che La fontana della vergine appare come un film molto sentito e dal tono infinitamente drammatico, grazie anche a una regia attentissima alle inquadrature dei volti dal sapore quasi espressionistico e ad un bianco e nero ruvido e tagliente. Le scene della violenza alla fanciulla sono rese, inoltre, con un certo realismo, pur scegliendo di suggerire piuttosto che di mostrare.

    Wes Craven ci edificò sopra, praticamente tal quale, il suo debutto registico del 1972. Il nostro Aldo Lado fece quasi altrettanto con il suo L’ultimo treno della notte (1975), soprattutto in relazione al finale, ancorché le intenzioni e le riflessioni ultime della sua pellicola siano comunque diverse dal pathos bergmaniano.

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