FRANCO ZEFFIRELLI, TRA CINEMA E TEATRO

Regista di cinema e di teatro (drammatico e lirico) di solida fama internazionale. Fiorentino, net teatro dal 1945, come attore e scenografo, la prima regia nel 1950 (Lulù, di Bertolazzi), regista lirico dal 1953 (La Cenerentola, di Rossini), ne1 cinema dal 1947 , assistente di Luchino Visconti per La terra trema. Il primo film come regista dieci anni dopo (Camping), cui seguirono due film shakespeariano di grande rilievo, La bisbetica domata (1967) e Romeo e Giulietta (1968), e poi, Fratello Sole, Sorella Luna.

Perché fai cinema?

    « Per le stesse ragioni per cui faccio teatro: per perpetuare i sogni giovanili, i balocchi, le illusioni, le fantasie. E per stare insieme con gli altri. Fare un film, mettere su degli spettacoli, vuol dire stare insieme con tanta gente, legati gli uni agli altri, come durante una ascensione in montagna, o, se vuoi, una crociera, un anno scolastico. Ecco, la fine di un film è proprio come la fine di un anno scolastico. Si piange persino, e se durante il film si è diventati amici, lo si resta per tutta la vita. La prima ragione, però, che mi lega allo spettacolo è quella dei sogni. Quelli che continuo a sognare, io, ad occhi aperti, come da ragazzo, e quelli che faccio sognare agli altri, al pubblico. Sempre balocchi, però, giochi innocenti. Questo è il punto, sarò un rompiscatole, ma io, facendo cinema (e teatro) mi sento una grande responsabilità; quella di non far del male agli altri. Questo mi “limita”, 10 so, ma preferisco così, piuttosto che realizzare uno spettacolo che domani possa vulnerare la coscienza di qualcuno. Per questo ho preso le posizioni che sai contro un certo tipo di cinema sudicio. Non per velleitarismo moralistico. Ma mi sai dire perché un certo cinema
debba sempre “flirtare” con gli scandali? Stiamo avviandoci ad un cinema di “guardoni”, visto tutto attraverso il buco dell serratura. Un cinema che svirilizza il pubblico, che gli toglie il gusto e il senso della privacy. Con la scusa infatti di farlo “crescere”, di liberarlo dai tabù, lo blocca, lo respinge, e gli dice: “il sesso tu puoi guardartelo solo al cinema, al, buio. Con la tua realtà, con te non ha niente a che fare”. E così quella possibilità che ogni individuo aveva di scaricare le proprie nevrosi attraverso il sesso si è dissolta nel nulla. Il sesso, che era uno dei fondamentali meccanismi liberatori della psiche, è stato smontato pezzo a pezzo da questo cinema di “guardoni” e non è più quella valvola di sicurezza che era una volta. Altro che liberazione dai tabù! La fabbrica delle nevrosi ».

Preferisci comunque il teatro o il cinema? Dove senti di esprimerti meglio?

    « Francamente non afferro la distinzione. Per me sono tutti e due dei grandi divertimenti. Come anche l’opera lirica. I miei film, più o meno, hanno sempre avuto una matrice teatrale. Romeo e Giulietta è stato un successo perché io quella materia l’avevo veramente sofferta, lavorata, portata a completa maturazione attraverso il teatro. È al teatro che debbo il mio cinema. Il teatro, per me, è sempre alla base di tutto. Comunque, quello che a me interessa e che ho dimostrato di fare finora con i miei film è di riportare all’attenzione degli spettatori di oggi, specie i giovani, i grandi capolavori della cultura; convinto, convintissimo che ce ne sia una larghissima “domanda”. Per questo faccio cinema. E per questo lo faccio come lo faccio. Da metteur-en-scène, cioè, come quei tanti, quei tantissimi (ad eccezione dei Fellini, dei Bergman, autori “assoluti”) che fanno film sulla base di testi preesistenti. Non è una deminutio. Il novantotto per cento degli “autori” di cinema sono autori a questo modo, e si chiamano anche Visconti, De Sica… Secondo me, vedi, il cinema è un’assemblea di professionisti, anzi no, meglio, è un lavoro di “bottega”, come nelle grandi “botteghe” del Rinascimento dove c’era un Maestro che scolpiva o dipingeva e tutti gli altri che aiutavano. E ne venivano fuori il Perseo e Le Madonne di Duccio da Buoninsegna. Certo, a volte, anziché l’impronta di un Maestro, la “bottega” di un film rivela quella del fabbricante di… souvenir per turisti. Ma è proprio per questo che in altri casi puoi apprezzare il valore di un regista, le sue capacità di mettere in scena, di governare gli allievi della sua bottega ».

E il cinema di problemi?

    « Mi sta bene fino a quando non si dice: “se non si agitano dei problemi non si fa del buon cinema”. Il cinema non è un podio, e neanche un pulpito. Sarà la mia natura, ma io trovo che i problemi bisogna esporli il meno possibile e mai a casaccio, con l’aria di dire: “io butto il sasso, tanto qualcosa si rompe e se rompi va bene”. Oggi si abusa un po’ troppo di questo potere del cinema e il pubblico, alla fine, ne è lacerato, percosso. Un continuo dibattito ideologico può esser pericoloso per il cinema. Il cinema “politico” non è mai buon cinema. Non lo è mai stato, non lo sarà mai. Dimmi un film politico che sia stato un capolavoro. L’unico esempio, forse è All”ovest niente di nuovo, di Milestone. Ma lo definiresti davvero un film “politico”? E La grande illusione di Renoir? E i film sovietici muti? Che cosa avevano di politico? Ėjzenštejn ha visto quello che gli succedeva attorno, non poteva non fare che quello, gli eroi di quei giorni erano i marinai di Odessa e lui ha “cantato” quelli. È cinema politico Eisenstein? No, è solo buon
cinema.

    « Questo non significa, naturalmente, che uno debba chiudere gli occhi di fronte ai problemi. Al contrario, ma a me ripugna chi, con il cinema lo strumentalizza secondo questa o quella ideologia, condizionando il pubblico. Soprattutto perché oggi i problemi “veri” sono così gravi che chi li affronta deve sentire il dovere di farlo per tutti, non per servire interessi di parte. Il nostro modo di vivere, la nostra civiltà sono seriamente minacciati. Lo sentiamo tutti ed è per questo che ci dibattiamo disperatamente in questa furia di voler sopravvivere con le nostre strutture, il nostro modo di pensare, la nostra maniera di essere uomini, intuendo che presto vi dovremo rinunciare perché ci saranno tolti, strappati. I migliori anni della nostra vita ormai sono finiti, non i nostri di cinquantenni, ma quelli di un certo tipo di società, le fiducie, le attese, le speranze degli anni Sessanta, arrivate tutte al tramonto.

    « Il mondo cambia. È a una svolta importantissima. Ci sono milioni e milioni di uomini nuovi che premono per conquistarsi g1i stessi diritti che oggi appartengono ancora soltanto a popoli di élite. È qualcosa come il disgelo dell’era terziaria, che con le sue gigantesche masse di ghiaccio diventate acqua creò persino uno spostamento dell’asse terrestre. Fino a ieri, dietro a ognuno di noi che stava bene (o quasi), c’erano decine di individui sparsi per il mondo che stavano male, che non avevano niente. Adesso quei dieci cominciano a chiedere di dividere con te la torta, e da domani il pezzetto che toccherà a ciascuno di noi sarà molto più piccolo di quello che finora ci mangiavamo da soli, noi e i nostri figli. Questo è il problema che ci aspetta. Non così schematizzato, naturalmente. Comunque tutto prenderà le mosse da questo “assestamento” di cui sentiremo le conseguenze almeno per qualche decennio. In Italia, del resto, un problema “riflesso” lo si può già individuare nei dieci milioni di “borghesi” in più che abbiamo rispetto a venti anni fa. Prima erano nei campi, oggi sono “classe media”. E questo non può non influenzare tutto: anche il cinema, naturalmente. Un problema che il cinema dei problemi ancora non ha trattato. E dire invece che, proprio per la cultura, è un problema gravissimo, perché in attesa che questa nuova “classe media” si conquisti la cultura, il generale livello culturale, fatalmente, si è abbassato. Oggi, per fortuna, un po’ meno che non cinque anni fa, come ha dimostrato il miglioramento del livello televisivo di questo ultimo quinquennio. Che prima, invece, era ancorato nei porti della sottocultura ».

La televisione la segui, ti interessa?

    « Il documentario sull’alluvione di Firenze è stato per me un’esperienza straordinaria. Mi son reso conto, direttamente, che c’è un tipo di operazione che solo la televisione può fare: un discorso più vivo nel corpo della società, più quotidiano, perché ti mette a contatto veramente con i problemi, senza darti il tempo di interpretarli, di farne una tua “creazione”. La televisione deve essere soprattutto commento di quello che succede nel mondo: attorno a te, lontano, vicino; in un uomo, in una donna. Un discorso creativo, rimpastando tutto, lo fa meglio il cinema. La televisione non può farlo. Ma il contatto immediato con i problemi e la realtà, la televisione, invece, lo attua come nessun altro mezzo di comunicazione. Anche perché te lo consegna subito ».

L’inchiesta, insomma. Bergman, però, in televisione fa teatro.

    « Sì lo so, Il flauto magico. Ma come si può rappresentare il mondo fantastico di Mozart su un piccolo schermo? A meno di non ridurlo a un’espressione grafica, ballettistica. Un altro tipo di teatro, comunque, in televisione ce lo vedrei l’Otello di Shakespeare, ad esempio. Anche se i “tempi” di Shakespeare sono molto diversi da quelli televisivi. Sono brucianti, drammatici, stringenti. In teatro, certi ritmi li puoi tenere, in televisione no. E anche questo è un problema. Se vuoi rappresentare un’opera in televisione, devi sempre scegliere un’opera che richieda un ritmo disteso. Il ritmo tipico della televisione, a meno che non sia la rivista del sabato sera, è la lentezza. E io non lo sopporto. Per natura io sono contrario alla noia. Una volta esposto un concetto, basta, bisogna passare a un secondo. Invece no, in televisione devi insistere, ribadire, come nelle opere de Settecento. Quasi che uno abbia paura che il telespettatore, intento a mangiare, o a leggere il giornale, o a chiacchierare, abbia bisogno ogni tanto che gli si ricordi o, peggio, che gli si riassuma quello che ha visto o sta vedendo. Le grandi biografie, i grandi sceneggiati, ad esempio, sono di una lentezza che non finisce mai. Io quel tipo di lavoro lì non saprei farlo. Il documento vivo sì, specie se dal vero. Ecco, la televisione che mette uno specchio davanti al mondo per fargli il ritratto, quella la farei volentieri ».

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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