CARNEVALE, CINEMA E COSTUMI. MASCHERATI E TI DIRÒ CHI SEI

    Quest’anno, dall’11 al 16 febbraio, nessuna manifestazione pubblica. La festa, spesso celebrata dalla settima arte, è stata un vero e proprio banco di prova per i nostri grandi costumisti-scenografi che spesso hanno usato il travestimento in senso psicologico.

    Non esiste ormai, nella sempre più caotica e ridondante letteratura dei premi cinematografici, una manifestazione degna di tale nome che non includa tra i riconoscimenti da assegnare almeno uno destinato ai costumi. Dall’americana “notte delle stelle” (la celeberrima cerimonia degli “Oscar”) che vi riserva una delle ambitissime statuette, agli italianissimi “David di Donatello” o ai “Nastri d’argento”, al “Ciak d’oro” e perfino ai premi di neonata costituzione. Un premio, dunque, a suggello di un “mestiere di cinema”, che ormai superato l’oscuro anonimato in cui per molto tempo è stato relegato, ha conquistato un ruolo di star di prima grandezza nel rutilante mondo della “celluloide”, oggi sempre più contaminato dalla tecnologia digitale che ormai ha soppiantato l’obsoleta ultracentenaria pellicola perforata.

    Il costumista (una volta scelto dall’Architetto scenografo con il compito di disegnare i costumi da affidare alla paziente cura delle sarte) ha dunque assunto all’interno della composita troupe cinematografica un ruolo riconosciuto di primissimo piano, non soltanto come insostituibile collaboratore del regista, fondendosi non raramente addirittura in un’unica figura di scenografo-costumista (come nel caso del “felliniano” Danilo Donati), ma perfino divenendo anche assistente personale della primadonna o della diva. “…il costumista – si legge nella “Garzantina Cinema” – generalmente svolge il proprio lavoro in due modi a seconda che crei e appronti ex novo abiti e accessori o che si limiti a sceglierli tra gli esistenti, magari apportando piccole e significative modifiche o assemblando elementi diversi. Esempio macroscopico del primo caso è la grande industria del divismo hollywoodiano che si rivolge a stilisti di fama solo episodicamente…e non sempre con reciproca soddisfazione…, indirizzandosi di preferenza ad alcuni formidabili professionisti cresciuti in ‘casa’ “.

    E a proposito di formidabili professionisti, figure straordinarie di costumisti pullulano nel nostro cinema, da cui spesso vengono “rubati” dalla strapotente industria d’oltre oceano, come nel caso della Magrini (famosa per i costumi della borghesia “malata” descritta da Michelangelo Antonioni o per gli abiti che Dominique Sanda indossa ne Il conformista e quelli di Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi entrambi di Bernardo Bertolucci; o ancora Giorgio Armani che appronta l’intero guardaroba di Richard Gere di American gigolò, 1980, di Paul Schrader, fino al grande Piero Tosi, Danilo Donati, Gabriella Pescucci (Oscar per L’età dell’innocenza, 1993, di Martin Scorsese e ormai notissima nel mondo intero), per citare solo i nomi più altisonanti.

    Dunque una professione, una professionalità, a cavallo tra genialità artistica ed esigenze commerciali, tra arte e mercato, anch’essa parte di quell’insormontabile dicotomia nella quale da sempre si dibatte il cinema e che come molte altre figure della troupe non manca di teorizzazioni, come quelle che Elisabetta Montaldo (figlia d’arte) avanza ne “Il mestiere di costumista”, prezioso manualetto apparso per i tipi della Dino Audino Editore, in cui l’autrice (premio David di Donatello nel 2001 per i migliori costumi de I cento passi di Marco Tullio Giordana) illustra con chiarezza tutti i passaggi necessari ad intraprendere e svolgere questa professione, aiutandosi con illustrazioni, foto, bozzetti e soprattutto soffermandosi con preziose interviste ai maggiori costumisti cinematografici, teatrali e televisivi, sulla ratio e sul fascino del mestiere.

    Nel cinema un particolare banco di prova della grandezza del costumista-scenografo non di rado, per la possibilità non soltanto d’investire in fantasia ma di travestire i personaggi assecondandone le oscure pulsioni dell’animo, è stata la rappresentazione della festa del Carnevale. Il rapporto tra cinema e Carnevale – in Italia iniziato assai presto (considerando l’imprescindibile matrice documentaristica) – può essere compreso e scisso storicamente in due tronconi principali: quello iconografico, caratterizzato da una più o meno elegante accentuazione del materiale figurativo e l’altro, per così dire, psicologico-sentimentale che viceversa, ponendo l’accento su diversi elementi del racconto o della narrazione (diegesi) finisce, solo apparentemente in modo paradossale, per assumere il travisamento e generalmente l’epilogo della festa, come momenti “catartico-epifanici”, ossia di disvelamento della vera personalità o dei reali proponimenti del o dei protagonisti. Parimenti, dal punto di vista situazionale la condizione di squilibrio creata dall’eccezionalità festaiola tende a risolversi, sempre a chiusura del martedì grasso (mercoledì delle ceneri), in un nuovo equilibrio per lo più diverso da quello iniziale ma generalmente meno precario, presentandosi quest’ultimo come quello definitivo o comunque normalizzato dal ritorno alla realtà o alla “verità”, dopo il travisamento della ordinarietà1. Probabilmente il mascheramento carnevalesco più famoso nella storia del cinema (e del teatro, anche se non raramente ricondotto ad una semplice festa mascherata) resta indubbiamente – per l’eccezionale paternità della fonte letteraria – quello di Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, gli sventurati ed immortali amanti di Verona, divenuti ormai simbolo d’amore universale e opera tra le più celebri di William Shakespeare di cui è pressoché impossibile annoverare l’infinita iterazione delle rappresentazioni teatrali o delle opere (a vario titolo) ispirate all’infelice storia d’amore, dai balletti ai documentari, dalle opere liriche alle infinite semplici citazioni, dalle decine e decine di trasposizioni televisive e cinematografiche, musical, parodie e perfino cartoni animati. Nella prima, Romeo e Giulietta (1968) elegante e fortunatissima versione di Franco Zeffirelli, Romeo (il diciassettene Leonard Whiting, doppiato da Giancarlo Giannini) proprio grazie al mascheramento carnascialesco (come vuole il grande drammaturgo inglese) riesce ad introdursi al ballo in casa dell’odiata famiglia Capuleti, dove farà il fatale incontro con Giulietta (la quindicenne Oliva Hussey, doppiata da Anna Maria Guarnieri). La superficialità con cui Zeffirelli tratta il testo del Bardo è compensata dalla puntigliosa ricostruzione scenica (il film è girato a Gubbio, Siena e in zone del Lazio), dalla splendida fotografia di Pasqualino De Santis e gli sfarzosi costumi di Danilo Donati (entrambi premiati con l’Oscar), permesse anche dall’alto budget. Azzeccata e coinvolgente la colonna sonora di Nino Rota. L’età dei protagonisti (non troppo apprezzati dalla critica) e il clima sociale e politico di quegli anni, consentirono al film un facile accesso e un notevole successo proprio tra il pubblico più giovane “…attratto anche da una certa attualizzazione della vicenda, con qualche, più o meno velato, risvolto di contestazione giovanile nello scontro con gli adulti…”.

    Da un carnascialesco incipit d’oniriche fattezze prende, anche, le mosse l’incantevole e “mostruoso” Casanova di Federico Fellini (1976), impossibile ricerca di una donna ideale e rappresentazione delle frustrazioni del più famoso tombeur de femmes della storia, il veneziano Giacomo Casanova (interprete Donal Sutherland), letterato, filosofo, ingegnere, ingegno illuminista sprecato dalla fama di stallone. “…La più funerea – scrive Di Giammatteo delle pellicole felliniane…e funereo, nonostante l’aggressività erotica, è il Giacomo Casanova di Sutherland, sorta di meccano sessuale al perenne inseguimento di un sesso femminile mai fonte di gioia… Se ne ricava l’anomala sensazione di una regia fantasmagorica, colori, luci, movimenti convulsi, contorsioni…”. L’intera sequenza iniziale del film è dunque occupata da uno spettacolare Carnevale che introduce l’impossibile dispiegamento della vera personalità di Casanova, attraverso una gigantesca testa che non riesce ad emergere dalle gelide e nere acque lagunari. Evidente simbolismo in forma di prolessi, che anticipa cioè la sconfortante conclusione dell’agitata vita del veneziano.

    Inimitabile affabulatore, Fellini rivela la strabiliante potenza sessuale e l’orripilante universo femminile del veneziano, per mezzo di una saltellante e assatanata monachella, l’attrice Tina Aumont, sorprendentemente acconciata da un Danilo Donati in stato di grazia, che nascondendo le fonti (manipolando stoffe e colori) si ispira a Ritratto di monaca di Giacomo Ceruti, mentre per il gobbo Du Bois trae spunto da Il cantante Scalzi di Pietro Longhi. Liberamente ispirato alle “Memorie”, il Casanova di Federico Fellini, meravigliosamente onirico e magistralmente impeccabile nelle pitture d’ambiente, è forse l’opera più visionaria e nel contempo angosciante e sbalorditiva del regista riminese, mescolanza di pietà e ribrezzo, incubi, personaggi repellenti, fantasia sfrenata e geniale reinvenzione del settecento, risultato forse insperato in fase di riprese ma infine ottenuto con il contributo decisivo di Danilo Donati, “Daniluccio” come lo chiamava Fellini, premiato con il suo secondo l’Oscar per i costumi (il primo lo aveva avuto per Romeo e Giulietta, 1968, di Zeffirelli). Con Donati costumista-scenografo-arredatore i film dell’ultimo Fellini (Satyricon, I clowns, Roma, Amarcord, Il Casanova, Ginger e Fred) raggiungono il punto cromaticamente e scenograficamente più sbalorditivo di tutta l’opera dell’ineguagliato maestro riminese. La strepitosa carriera artistica di Donati, formatosi alla scuola del pittore Ottone Rosai iniziata con Visconti è poi proseguita con alcuni dei massimi registi italiani: Zeffirelli, Monicelli, Pietrangeli, Benigni e soprattutto Pasolini (memorabili i costumi di Pontormo e Rosso Fiorentino ne La ricotta, 1963, e quelli della c.d. “trilogia della vita”, in particolare nell’ultimo episodio del Decameron, dove ricrea attraverso tableaux vivants la visione del Paradiso e la dannazione infernale del Giudizio Universale della Cappella degli Scrovegni a Padova).

    Per una strana coincidenza nello stesso anno del Casanova, Re Burlone irrompe – addirittura deflagrando e con una lunghissima sequenza – nell’elegantissimo L’eredità Ferramonti (1976) di Mauro Bolognini, tratto da un’opera letteraria di Gaetano Carlo Chelli, scrittore verista ingiustamente dimenticato, in cui il clou del film può considerarsi proprio la lunga sequenza del Carnevale. La tortuosa protagonista (una crudelmente affascinante Dominique Sanda, nei panni di una diabolica dark lady ottocentesca, resa ancor più inquietante di quanto non sia nel romanzo) appalesa il piano per impadronirsi dell’eredità del vecchio e ricchissimo mugnaio Ferramonti (Anthony Quinn, perfettamente a suo agio nelle vesti d’un tipico rappresentante del “generone” romano) durante il veglione di Carnevale. Strappandosi significativamente la mascherina dagli occhi e lasciando di stucco l’attonito amante-cognato (Fabio Testi), che si suiciderà e già da tempo preferito al marito-fantoccio sposato solo per interesse (Gigi Proietti, in un ruolo insolitamente drammatico), la donna tornerà dall’anziano suocero rimasto solo in casa per divenirne l’amante ed ereditarne il cospicuo patrimonio. Rabbrividente mélo a tinte fosche ben recitato da un cast all-star molto eterogeneo, ambientato in una Roma post-risorgimentale già abbondantemente corrotta.

    Dominique Sanda, “creatura mostruosa”, vera e formidabile protagonista del film nelle vesti dell’anima nera destinata a soccombere contro il nuovo ceto ormai potente e spregiudicato (che lei definisce “rispettabili mediocrità”), ebbe la Palma d’Oro a Cannes. Ingiustamente accusato di calligrafismo e molto sottovalutato dalla critica, il film conserva invece una sua eleganza decorativa (la Roma ministeriale ispirata a modelli pittorici d’epoca) e dipinge un affresco interessante dell’escalation sociale di una famiglia di bottegai, sullo sfondo di una ben schizzata capitale umbertina grondante di scandali e speculazioni. Inoltre gli effetti flou e le luci morbide sapientemente organizzate da un esperto direttore della fotografia come Ennio Guarnieri e le riprese in esterno effettuate (per problemi di circolazione) alle prime luci dell’alba, conferiscono all’intero film un’atmosfera particolarmente sospesa e magica, pur nel crudo realismo d’una vicenda oscillante tra romanzo popolare e feuiletton.

    Straordinariamente adeguati alle psicologie dei personaggi gli abiti di Gabriella Pescucci, che fa propria la lezione del grande Piero Tosi (costumista teatrale e cinematografico) il quale concepisce i costumi non già come semplice vestizione del personaggio “…ma – si legge nell’Enciclopedia del Cinema Treccani – come una componente fondamentale della sua definizione, ovvero – in base al principio che un abito dev’essere letteralmente ‘habitus’ – come un elemento che deve porsi in stretta relazione con i suoi connotati specifici”. Una lezione minuziosamente interiorizzata e pedissequamente applicata dalla Pescucci ad ogni personaggio del film di Bolognini, che raggiunge la vetta proprio nella vestizione carnascialesca della protagonista, il cui travestimento simboleggia magistralmente avidità sessuale e sfrenata brama di denaro attraverso uno scandaloso costume-simbolo, indossando il quale ella “confessa” la sua vera natura e più intimi e segreti proponimenti.

    Del fiorentino Tosi, forse il più grande costumista italiano, sodale con Visconti da Senso (1954) a Le notti bianche (1957) nel quale cura anche le acconciature e il trucco di Mastroianni, da Rocco e i suoi fratelli (1960) all’accuratissima ricerca del Gattopardo (1963, indimenticabili l’abito bianco indossato dalla Cardinale nella lunghissima sequenza del ballo e i continui riferimenti ai macchiaioli, vertice sommo del suo magistero), fino a La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973) e L’innocente (1976) ultimo film del milanese, dove “i colori (il nero, il rosso, il fucsia – ancora parole della Treccani – connotano la posizione sociale dei personaggi femminili”. “Il desiderio di Visconti – scrive Tosi a proposito di Senso – era uno solo: avere della gente viva, vera, di fronte alla macchina da presa. Il costume non come elemento esteriore, decorativo, ma vita. Niente sfilate di modelli, niente stupori di capricci di colore all’ingresso della prima donna. Così ci siamo imposti di sottolineare prima i sentimenti, poi la ‘buccia’ dei personaggi”. Copiosissimi i riferimenti pittorici del film: Cammarano, D’Ancona, Gioli, Signorini, Fattori, Abbati, Feuerbach, Stevens, Durant (quest’ultimo usato per affrescare il mondo della contessa Serpieri), Hayez (celeberrimo “Il bacio” tra Alda Valli e Stanley Granger). Dunque un mondo di citazioni figurative indispensabili non solo per l’azione, ma ancor più per l’essenza psicologica e drammatica dei personaggi.

    Nino Manfredi attore-regista (nelle vesti di Sandro) sceglie la splendida città lagunare, sede del più famoso Carnevale nazionale, per ambientarvi Nudo di donna (1981) con Eleonora Giorgi nei panni della giovane consorte veneta Laura, stanco rapporto di coppia riattizzato da un singolare caso di “doppio”. Sandro, dopo un ennesimo litigio con la moglie, abbandonato il tetto coniugale e rifugiatosi in un palazzo settecentesco, incontra uno strano fotografo nel cui studio scopre un ritratto di donna nuda vista di spalle. Egli crede di riconoscere nel ritratto la moglie, finché indagando incontra Rirì, una prostituta sosia di Laura. Vagamente imparentato con il celeberrimo racconto di Stevenson, il caso si “risolve” enigmaticamente proprio alla fine del Carnevale, durante il quali Manfredi indossa il costume d’un soldato (ma il sospetto che la prostituta Rirì sia la stessa Laura, non viene affatto rimosso, sebbene l’uomo riprenderà il rapporto con la moglie). Al solito bella (ma scontata) collezione di immagini, condite da un po’ d’erotismo e qualche tensione misteriosa.

    Abbandonando frettolosamente il cinema italiano per trasferirci nella Mecca del cinema mondiale, la mitica Hollywood, ancora per lo stretto rapporto Carnevale-cinema-costumi, svetta su tutti il burrascoso Gilda (1946), uno dei più grandi cult di tutta la storia di Hollywood, per il complesso e stratificato uso che della festa ne fa il regista Charles Vidor e per l’esplosiva presenza dell’attrice protagonista, una sensuale, morbida e al tempo stesso oscura e crudele Rita Hayworth, bellissima e indimenticabile in almeno due o tre sequenze (tra cui quella dello “spogliarello”, mentre canta Put the blame or mame o mentre danza e canta Amado mio), noir violento, turbinoso, in cui i temi dell’odio-amore, del masochismo e della gelosia s’intrecciano in un melodramma dalla trama vertiginosa e rocambolesca e dalle articolazioni sottilmente psicanalitiche .

    La bella sequenza del Carnevale contiene in nuce tutti i livelli narrativi e psicologici del film: i loschi traffici del marito di Gilda con gli ex nazisti; i turbamenti esistenziali espressi da Gilda prima di recarsi al veglione (un dialogo con la cameriera, in cui viene perfino fornita una sorta di spiegazione del Carnevale), il crudele gioco di odio-amore tra Gilda e Johnny (un Glenn Ford in splendida forma) durante il ballo in cui entrambi appaiono mascherati, ecc… Tutti elementi a cornice della burrascosa love-story sado-masochista tra i due protagonisti. Sottolinea la sadica crudeltà della protagonista l’ambiguo costume scelto da Gilda per la festa in maschera, accompagnato da una frusta con la quale metaforicamente infligge e si autoinfligge insopportabili tormenti d’amore ed esistenziali.

    E gli esempi potrebbero continuare numerosi, a partire dalla fascinazione della catarsi, con colpi di scena finali che svelano una verità dapprima creduta diversa e che appartiene comunque alle cinematografie di tutto il mondo. Analoga costruzione semantica regge lo sfarzoso ed elegante Capriccio spagnolo (The Devil is Woman, 1935, prodotto dall’americana Paramount) dell’austriaco di origini ebree Joseph von Sternberg, autore del celeberrimo e straziante L’angelo azzurro, 1930 “che segna l’incontro con Marlene Dietrich, con la quale ad Hollywood realizzerà – avvolgendola di luce, veli, trine, fumo, movimenti di macchina, dissolvenze, filtri – altri sei film” (Di Giammatteo) e tra questi, appunto, Capriccio spagnolo totalmente ambientato con continuità temporale (ad esclusione di alcune analessi esterne, ovvero i flashback che accompagnano la storia dell’incontro tra Don Pasqual e Cocha Perez) durante il Carnevale di Siviglia. In questo caso “la donna più pericolosa che si può incontrare”, una seducente e capricciosa sigaraia interpretata da Marlene Dietrich (allora ancora per poco compagna, delirio erotico e musa ispiratrice del regista), riesce a far odiare due amici al punto da provocare un duello, per tornare poi sorprendentemente al primo amore al termine della baraonda carnascialesca, rivelando una sconcertante moralità. Tratto dal romanzo La femme et le patin di Pierre Louys (ripreso anche da Buñuel per Quell’oscuro oggetto del desiderio) interpretato oltre che dalla Dietrich, da Lionel Atwill, Cesar Romero, Edward Everett Horton, Alison Skipworth, nell’edizione italiana il film mutua il titolo dal celeberrimo Capriccio spagnolo di Rimskij Kosakov, usato – insieme a canzoni popolari spagnole – come colonna musicale.

    E ancora al celeberrimo Les enfant du Paradis (1945, tradotto in Italia con l’improbabile ed offensivo titolo Amanti perduti), capolavoro del realismo poetico francese firmato Marcel Carné e sceneggiato da Jaques Prevert, un’opera che la stessa critica d’oltralpe ha definito il più grande film francese mai girato e in cui finzione e realtà, arte e vita, universalità dei personaggi, ricostruzione ambientale, atmosfere, sceneggiatura letteraria, si fondono in un equilibrio così perfetto da farne uno dei più grandi capolavori dell’arte cinematografica; oppure ambientata in una postmoderna Verona Beach (il film è un mix di location tra cui Città del Messico,Vercruz e Los Angeles) la sconvolgente versione dell’australiano Baz Luhrmann (lo stesso di Moulin Rouge!) Romeo + Giulietta di William Shakespeare (William Shakespeare Romeo + Juliet, 1996), in cui le due famiglie – quella bianca wasp, anglosassone e protestante dei Montague e quella latino-americana cattolica dei Capulet – si scontrano tra grattacieli, elicotteri, pistole e odi razziali, “in una messa in scena antitradizionale (con occhiali da sole, macchine sportive e camicie hawaiane)”, dallo stesso regista definita “una visione psichedelica di una passione giovanile senza tempo”. Singolare e visivamente scioccante l’incontro tra i due futuri amanti, entrambi in abiti di Carnevale: su un motivo rock a tutto volume, attraverso un piscina illuminata dal neon dove nuotano pesci dai colori sfavillanti Romeo Matague (Leonardo Di Caprio, da allora idolo delle teenager), travestito da guerriero e momentaneamente solitario e appartato, incontra lo sguardo d’una angelica Juliet Capulet (Calire Danes) travestiva da angelo. Uno sguardo interminabile durante il quale Cupido scocca, inesorabile, una delle frecce del suo arco.

    Versione kitsch e psichedelica, pout-pourri multigenere, dalla come sempre terribile conclusione, che aggiunge un ulteriore e non banale capitolo alle innumerevoli versioni della tragedia shakespiriana, qui narrata attraverso “spettacolari peripezie con la steadycam in un incalzante ritmo da videoclip. Un’opera…in cui l’affastellamento dei mezzi espressivi respinge e affascina nello stesso tempo” (Patanè). Per arrivare allo sguaiato e irriverente Amadeus (1984) di Milos Forman, singolare interpretazione della geniale e sconcertante personalità del più grande musicista mai vissuto, Wolfang Amadeus Mozart, ripreso anche durante uno scoppiettante Carnevale (durante il quale indossa una bizzarra testa di cavallo) a canzonare pesantemente il “rivale”, imitando per penitenza al clavicembalo il “maldestro” Antonio Salieri. Straordinaria, raffinatissima, reinvenzione del settecento, con un immaginifico e truffaldino espediente (l’inesistente rivalità tra Mozart e Salieri) attraverso cui Forman penetra l’affascinante mistero mozartiano con una interpretazione ellittica ed esasperata che coglie l’essenza della genialità attraverso la disarmante goffaggine dello sghignazzante protagonista. Otto Oscar, tra cui naturalmente, quello agli sbalorditivi costumi.

    Ma si consideri anche l’ambiguo, misterioso e sfuggente significato della maschera (contemporaneamente espressione di inautenticità, ma anche manifestazione di sé) nella tredicesima, ultima e chiacchieratissima opera di Stanley Kubrick, Eyes wide shut (2001), con l’ex coppia stellare Tom Cruise e Nicole Kidman, in cui oltre alla lunga sequenza dell’orgia mascherata l’oggetto maschera riappare sinistramente su un cuscino alla fine di un film che indaga impietosamente sulla fragilità del comportamento etico e sulle pulsioni nascoste provocate dall’eros. Non a caso Schnitzeir, autore del romanzo Doppio sogno da cui Kubrick ha tratto il film, fa svolgere tutta l’azione non nei giorni di Natale (come mostra l’opera cinematografica) ma proprio durante il Carnevale, con un chiaro rimando ai significati della festa, quindi al travestimento come alterità da sé, ma anche al sovvertimento dell’ordine sociale e delle regole morali. Bill, infatti, che si è recato ad un party con la moglie dopo aver salvato la vita ad una giovane donna drogata, apprenderà tornato a casa la rivelazione di un tradimento mentale della moglie, soltanto il sogno d’un tradimento, sicché successivamente, per una sorta di vendetta, assisterà (poi scoperto, smascherato, ma miracolosamente e misteriosamente salvato) ad un rito orgiastico notturno e segreto, proprio come avveniva durante i “Saturnali” romani, rievocazione del mitico regno di Saturno fatto di orge e di piaceri

    E ancora, tornando all’Italia, come dimenticare i poveri costumi di provincia e la faccia piangente all’indomani della festa del grande Alberto Sordi, ne I vitelloni (1952) di Fellini dove sbozzola già con consumata maestria un personaggio celeberrimo e da antologia, fanciullone, scioperato, burlone, mammone e perdente, sempre pronto ad infrattarsi di fronte alle responsabilità della vita? O la sequenza della lite dall’esito imprevedibile durante una festa di Carnevale in uno dei cult-movie della commedia all’italana, il celeberrimo I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, parodia dialettale di Du rififi chez les homme (Rififi, 1955) di Jules Dassin, storia di un ridicolo furto con scasso, con tutto un cast eccezionale e un Gassman (Nastro d’Argento) per la prima volta chiamato ad interpretare un personaggio comico? O ancora la complessa e stratificata organizzazione dello sguaiato carnevale e in Allonsanfant (1974) di Paolo e Vittorio Taviani, con Marcello Mastroianni, stremato rivoluzionario del 1816 poi traditore, tutto luci ed ombre, membro della setta dei “Fratelli Sublimi” portatori di una sempre più lontana e improbabile rivoluzione.

    Tra le sequenze girate dal vero, pur nell’organizzazione filmica, Una lunga sequenza del Carnevale di Paternò, una volta rinomato ed oggi (dopo la rinascita della festa) tornato in auge, fa da sfondo alla crisi di un rapporto di coppia tra un operaio milanese (Carlo Cabrini) trasferito in Sicilia e la fidanzata Liliana (Anna Canzi) rimasta al Nord, nel malinconico I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi, dove il senso di solitudine e spaesamento è magistralmente espresso dall’ostilità dell’ambiente (la zona industriale di Siracusa e perfino dallo stesso Carnevale di Paternò, dove non esiste più la vecchia abitudine delle donne di mascherarsi con un lungo mantello nero, per ballare con uomini sconosciuti). Con un abbondante uso di flashback e flashforward Olmi costruisce un dramma intimista, ambientando turbamenti esistenziali e sbandamenti della coscienza (così come aveva fatto nel 1957 Visconti con Il grido) tra un proletariato ormai lontanissimo dalla palingenesi rivoluzionaria, alla ricerca di valori profondi. Altro film paradigmatico, suggello dell’esito “redenzionale” del mercoledì delle ceneri è il mediocre Una donna allo specchio (1984) di Paolo Quaregna (anche attore) con Stefania Sandrelli, in una delle sue ultime apparizioni da femme fatal e Marzio Honorato, interamente girato ad Ivrea durante lo storico Carnevale (simbolo, nella tradizione rinnovatasi nel Medioevo e fatta propria dalla religione cristiana, della rivolta popolare contro l’oppressione feudale del tiranno-castellano) e la cruenta battaglia delle arance. Breve, intensissimo, incontro d’amore-rivelazione di Fabio con una sfuggente personalità di “donna-amantide”, Manuela, la quale all’indomani della festa abbandona il suo provvisorio e spaesato compagno, fragile vittima dell’atonìa dei sentimenti, rivendicando una sorta di revanche post-femminista su un ormai perdutamente innamorato e rassegnato macho declassato (ancora la fine del Carnevale e dell’eccezionalità e il ritorno alla vita di ogni giorno). ) Il “regno dei piaceri” – inteso nel puro senso letterale del temine – fagocita negli anni ’80 l’attenzione di un improbabile produttore siciliano, che abborracciando un approssimativo cast artistico e inventando nomi di cast e troupe gira in doppia versione Perdizione (1985) filmetto erotico in versione soft e porno in quella hard, passato, con incerte fortune, su uno schermo catanese nel giugno dello stesso anno.

    Interamente girato tra Catania, Acireale e poche altre località isolane il film si avvale della debordante presenza dell’allora notissima porno diva Marina Lotar (ex-moglie di un altrettanto conosciuto giornalista televisivo della Rai) che mostra abbondantemente le sue prosperose fattezze e d’un cast locale a cui vengono richieste prestazioni non proprio shakespiriane. Firmato da Bill Levis (chiaramente uno pseudonimo) Perdizione, in versione porno-soft, narra i non irresistibili dolori d’una giovane vedova giunta in Sicilia in compagnia del segretario per trascorrere una vacanza ospite del cognato, il conte Santo dei Trinacria. Nella saporosa, calda e inebriante Trinacria non è arduo immaginare un seguito di sbornie sessuali per l’incontenibile vedovella, passata a più amene occupazioni dopo i presunti alti lai levati a seguito della, non si sa bene se provvidenziale o funesta, scomparsa del consorte. Una breve (nella finzione filmica) vacanza, durante la quale l’eccitata e sempre più incontrollata Lotar incappa in una delle serate del Carnevale acese (montando anche su un carro) e si abbandona poi ad innaminabili amori. Giustamente sprofondato nell’oblìo insieme alla sua ormai attempata protagonista. Indimenticabile Jack Nicholson che, nei panni d’un avvocato alcolizzato e mattoide, vaneggia di extraterrestri e la colonna sonora con musiche dei Byrds, Bob Dylan, The Band, Robbie Robertson, Jimi Hendrix, Speppenwolf) in Easy Rider (1969) regia di Denis Hopper viaggio attraverso gli Stati Uniti d’America di due motociclisti sui loro chopper, partiti dalla California verso il Carnevale di New Orleans, dalla tragica conclusione.

    E finalmente, per chiudere, senza particolari valenze simboliche o psicanalitiche, ma solo con lo scopo di stupire e sollazzare lo spettatore ecco il volgare e clamoroso mascheramento di Nino Manfredi (un’andalusa) nel divertente Straziami ma di baci saziami (1968) di Dino Risi, che utilizzando temi culturali da feuilletton dell’immaginario collettivo popolare, disegna un desueto triangolo provinciale: una moglie ciociara (Pamela Tiffin) confessa, durante un ballo in maschera, all’amante ritrovato (Nino Manfredi) l’intenzione di voler sopprimere il marito sordomuto (Ugo Tognazzi); drastica soluzione per riprendere senza ostacoli l’antico rapporto d’amore. La terribile soluzione s’affaccia sinistra durante il ballo, ma anche qui una conclusione miracolosa metterà a posto ogni cosa, evitando inutili spargimenti di sangue.

    Ecco, dunque, cosa può fare il costumista-scenografo-arredatore per un film. Semplicemente renderlo – attraverso atmosfere, cromatismi e stoffe – indimenticabile.

1Per un maggior approfondimento v. il mio Maschere di celluloide. Il Carnevale nel cinema dalle origini ai nostri giorni, Bonanno Editore, Acireale-Roma, 2004

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