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Tag: Mario Monicelli

LA RAGAZZA CON LA PISTOLA (1968) – MARIO MONICELLI

20 Luglio 2021

Quella rocambolesca vicenda di “seduzione e abbandono” di germiana memoria viene rivalutata da Mario Monicelli attraverso il filtro della rivoluzione dei costumi di fine anni ‘60, nel pieno del fermento socio-culturale che investì l’Europa e l’Italia in particolare proprio a partire da quel fatidico anno, il 1968.

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CARNEVALE, CINEMA E COSTUMI. MASCHERATI E TI DIRÒ CHI SEI

12 Febbraio 2021

    Quest’anno, dall’11 al 16 febbraio, nessuna manifestazione pubblica. La festa, spesso celebrata dalla settima arte, è stata un vero e proprio banco di prova per i nostri grandi costumisti-scenografi che spesso hanno usato il travestimento in senso psicologico.

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CASANOVA ’70 (1965). QUANDO MASTROIANNI GIRÒ A PRIOLO

6 Febbraio 2021

    Marcello Mastroianni veste i panni di un ufficiale della Nato, novello aspirante Casanova, affetto da impotenza ed incapace di sedurre un donna, senza lo stimolo di un incipiente pericolo che renda appetibile la preda. Sempre pronto alla fuga, quando l’avventura sembra giungere al dunque, si trova infine coinvolto da una amante nel tentativo di eliminare un marito oppressivo ed indesiderato.

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MONICA VITTI, UNA GLORIA TUTTA SUA

25 Dicembre 2020

L’attrice preferita da Antonioni cammina anche da sola e raccoglie il consenso che merita

L’avventura (1959), La notte (1960), L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964), tutti film drammatici diretti da Michelangelo Antonioni. Ma anche comici come La ragazza con la pistola (1968) di Mario Monicelli. «Con Antonioni facevo coppia fissa nella vita e nel lavoro», dice Monica Vitti.

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UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO (1976). L’ITALIA DI PIOMBO DI MARIO MONICELLI

25 Dicembre 2020

Fin dove può spingersi la disperazione di un padre che ha perso tragicamente il suo unico, adorato figlio, e per il quale ha speso tutta la propria dignità al fine di garantirgli un futuro agiato “sistemandolo” lavorativamente? Una disgrazia che non riesce a trovare consolazione alcuna, al cui vuoto che lascia è impossibile dare un nuovo significato se non quello del senso di rivalsa, di giustizia privata, perché dinanzi al dolore e alla sconfitta che ne consegue, a volte, non vi è rassegnazione, volendo rispondere al torto subìto con altrettanta veemenza.

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MARIO MONICELLI

26 Luglio 2020

Mario Monicelli (Roma, 16 maggio 1915 – Roma, 29 novembre 2010) è stato un regista, sceneggiatore e scrittore italiano. Monicelli è stato uno dei più celebri registi italiani della sua epoca. Insieme a Dino Risi e Luigi Comencini, fu uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana, che ha contribuito a rendere nota anche all’estero con film come I soliti ignoti, La grande guerra, L’armata Brancaleone e Amici miei.

Candidato per due volte al Premio Oscar, nonché vincitore di numerosi premi cinematografici, nel 1991 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.

Nel 1945 Monicelli è aiuto-regista nel primo film di Pietro Germi: Il testimone. In L’arte della commedia, Monicelli racconta che tra lui e Germi si instaurò un profondo legame; egli afferma: “Credo di essere stato uno dei pochissimi amici con cui aveva davvero confidenza”. Ad esempio di questo legame Monicelli racconta di due episodi. Quando Germi entrò in un periodo di crisi dopo la morte della moglie, chiamò Monicelli per dirigere il film che stava preparando (Signore & signori, del 1966), dicendogli che lui non poteva più dirigerlo; a Monicelli piacque molto il film, ma comunque si rifiutò e incoraggiò Germi a fare il suo film. L’altro esempio è quando Germi, impossibilitato a fare Amici miei per problemi di salute, chiamò Monicelli per dirigerlo.

Nel 1946 Monicelli fu scelto, insieme a Steno, da Riccardo Freda per realizzare la sceneggiatura di Aquila nera. Il film ebbe molto successo e la coppia Monicelli-Steno fu chiamata per scrivere alcune gag e battute per il film Come persi la guerra, di Carlo Borghesio, e prodotto da Luigi Rovere; da quel film, Monicelli e Steno formarono una coppia di sceneggiatori. La collaborazione con Steno, che durerà fino al periodo tra 1952 e 1953, produrrà alcune delle commedie più interessanti del dopoguerra; tra queste vi è Guardie e ladri, film del 1951 con Totò premiato al Festival di Cannes con il premio alla miglior sceneggiatura. In L’arte della commedia, Monicelli afferma che il sodalizio tra i due si interruppe esattamente durante la realizzazione dei film Le infedeli e Totò e le donne.[24] Entrambi i film dovevano essere sceneggiati e girati a quattro mani da Steno e Monicelli, ma in realtà quest’ultimo si occupò solamente de Le infedeli poiché, come racconta, si era stancato di fare solo film comici; Steno si occupò invece di Totò e le donne. Tutto questo avvenne senza che i produttori lo venissero a sapere perché altrimenti, racconta Monicelli, non avrebbero dato fiducia alla coppia di registi.

Fu sceneggiatore, insieme a Federico Fellini, anche per film di Pietro Germi: In nome della legge (scritto con Pinelli, Germi e Giuseppe Mangione). Nel 1957 Monicelli vince il premio al miglior regista del Festival di Berlino con Padri e figli. Il film considerato lo “spartiacque” nella carriera di Monicelli è I soliti ignoti, del 1958, il quale segna l’avvio verso la cosiddetta “commedia all’italiana”. L’anno dopo è la volta di La grande guerra, che vince un Leone d’oro ad ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini ed ottiene una nomination all’Oscar al miglior film straniero. Nel 1963 Monicelli è autore del film I compagni, il quale varrà la seconda nomination ad un premio Oscar, quello alla migliore sceneggiatura originale. I soliti ignoti, La grande guerra ed I compagni sono tra i capolavori del regista viareggino.

I soliti ignoti, del quale Monicelli è anche sceneggiatore assieme ad Age e Scarpelli e a Suso Cecchi D’Amico, rovescia per la prima volta la dialettica di Guardie e ladri con la quale lo stesso Monicelli (insieme a Steno che lo affiancò alla regia) aveva impostato fin dal 1951 la rappresentazione del rapporto tra autorità e libertà, tra giustizia togata e semplice sopravvivenza delle classi più umili. Quattro anni dopo, Monicelli inverte i ruoli: in Totò e Carolina (1955) lo straordinario attore napoletano non è più un ladruncolo ma un poliziotto, e la censura dell’epoca non prende affatto bene l’ironia intorno alle forze dell’ordine: il film subisce pesanti e talvolta inspiegabili tagli, e benché in tempi recenti ne sia stata restaurata la copia originale, continua a essere trasmesso nella versione “epurata” e inquinata da un demenziale titolo di testa imposto dalla censura di allora, francamente insultante anche solo nei confronti del livello attoriale di Totò.

Così con I soliti ignoti Monicelli abbandona la dialettica antagonista tra tutori e trasgressori della legge, rappresentando esclusivamente il lato mite, confusionario e frustrato di un manipolo di aspiranti ladri votati all’insuccesso. La grande guerra, lontano dagli stereotipi classici della commedia, svaria notevolmente da un estremo all’altro del registro tragicomico affrontando un argomento doloroso e complesso come la tragedia della Prima guerra mondiale, ed è impreziosito dalle memorabili interpretazioni di Alberto Sordi e Vittorio Gassman. I compagni, film sulla storia del sindacalismo e, ancor prima, sulla fratellanza tra operai delle fabbriche, è poco noto al grande pubblico ma molto apprezzato dalla critica (con Marcello Mastroianni, Renato Salvatori e Annie Girardot).

Negli anni Sessanta Monicelli si dedica anche a film a episodi: Boccaccio ’70 del 1962, Alta infedeltà del 1964 e Capriccio all’italiana del 1968 (anche se l’episodio da lui diretto in Boccaccio ’70 fu tagliato dal produttore Carlo Ponti, scatenando la protesta dei registi italiani che decisero quasi tutti di boicottare il Festival di Cannes del 1962, che avrebbe dovuto essere inaugurato appunto da questo film). Ne L’armata Brancaleone (1966) e, con minor efficacia, nel seguito intitolato Brancaleone alle crociate (1969), Monicelli mette in scena un singolare Medioevo tragicomico, costellato dall’uso di un’inedita lingua maccheronica divenuta memorabile nel cinema italiano. Il film del 1966 viene anche selezionato per il festival di Cannes.

Nel 1973 il film Vogliamo i colonnelli è selezionato per il festival di Cannes. Tra gli altri film di rilievo occorre ricordare La ragazza con la pistola, terza nomination all’Oscar (1968), Romanzo popolare (1974) e i primi due capitoli della trilogia di Amici miei (1975, 1982) – quello conclusivo (1985) verrà infatti diretto da Nanni Loy. Caro Michele vale per Monicelli l’Orso d’argento al festival di Berlino nel 1976.[25]

Il film successivo, girato nel pieno degli anni di piombo, ne esprime il dramma ispirandosi a un’opera dello scrittore Vincenzo Cerami: Un borghese piccolo piccolo (1977) è un’opera interamente e profondamente drammatica, estranea alle suggestioni tragicomiche delle opere precedenti e successive (Il marchese del Grillo, 1981, che pure si avvale di un’ottima interpretazione dello stesso Sordi). La sua regia nel Il marchese del Grillo gli fa vincere l’Orso d’argento al festival di Berlino del 1982. Negli anni Ottanta e Novanta, lo sguardo del regista cambia ancora: dal maschilismo di Amici miei si passa all’esaltazione della donna contenuta nell’opera Speriamo che sia femmina (1985), con cui torna a ricevere ampi consensi di critica e pubblico. Il successivo Parenti serpenti (1991) presenta nuovamente una caustica rappresentazione del modello familiare attraverso la problematicità dei rapporti tra generazioni, culminante in un finale addirittura tragico e scioccante. Nel 1994 esce nelle sale il grottesco Cari fottutissimi amici, che vede come protagonista l’attore genovese Paolo Villaggio. La pellicola, presentata al Festival di Berlino nello stesso anno, si aggiudica un Orso d’argento, nella sezione menzione speciale.

Monicelli si dedica anche al teatro, sia in prosa che lirico, con alcune felici produzioni, soprattutto negli anni Ottanta. Per la televisione produce il cortometraggio Conoscete veramente Mangiafoco? (1981), con Vittorio Gassman, La moglie ingenua e il marito malato (1989) e Come quando fuori piove (2000), mentre come documentario Un amico magico: il maestro Nino Rota (1999) e vari collettivi. Mario Monicelli si è anche occasionalmente prestato a qualche cameo attoriale (L’allegro marciapiede dei delitti, 1979; Sotto il sole della Toscana, 2003; SoloMetro, 2007), dando anche la voce al nonno di Leonardo Pieraccioni ne Il ciclone (1996).

È da considerarsi probabilmente il regista che meglio di tutti ha interpretato lo stile e i contenuti del genere della commedia all’italiana. Il suo attore di riferimento è stato Alberto Sordi, da lui trasformato in attore drammatico in La grande guerra e Un borghese piccolo piccolo, ma ha anche avuto il merito di scoprire le grandi capacità comiche di due attori nati artisticamente come drammatici: Vittorio Gassman nei Soliti ignoti e Monica Vitti nella Ragazza con la pistola. Il sorriso amaro che accompagna sempre le vicende narrate, l’ironia con cui ama tratteggiare le storie di simpatici perdenti, caratterizzano da sempre la sua opera. Forse non è un caso che molti critici considerino I soliti ignoti il primo vero film della commedia all’italiana, e Un borghese piccolo piccolo l’opera che, con la sua drammaticità, chiude idealmente questo genere cinematografico.

Con l’avanzare dell’età la sua attività è gradualmente diminuita ma non si è mai fermata, grazie ad una forma fisica e mentale sempre buona. A dimostrazione di questo, a 91 anni è tornato al cinema con un nuovo film, Le rose del deserto (2006). In occasione della sua uscita ha confidato, in un’intervista a Gigi Marzullo, di non aver alcuna paura della morte, ma di temere moltissimo il momento in cui smetterà di lavorare, perché si annoierebbe moltissimo. In un’intervista del 2008 ha dichiarato di aver abbandonato definitivamente l’attività registica con il cortometraggio documentaristico Vicino al Colosseo… c’è Monti. Nonostante ciò nel 2010 realizza La nuova armata Brancaleone, un cortometraggio di protesta contro i tagli alla cultura e all’istruzione di questo governo, con la collaborazione del compositore Stefano Lentini, di Mimmo Calopresti in veste di sceneggiatore e di Renzo Rossellini come produttore. Il corto è stato presentato durante l’Open Day al Cine-Tv Rossellini di Roma il 3 giugno 2010, dove sono stati presenti diversi giornalisti e politici, e oltre ai professori e ai ragazzi vi ha partecipato anche lo stesso Monicelli. Nello stesso anno ha inoltre preso parte alla realizzazione del cortometraggio L’ultima zingarata, omaggio al suo Amici miei, in cui reinterpreta il ruolo del professor Sassaroli.

A partire dal 2009 il Bif&st di Bari assegna un Premio intitolato a Mario Monicelli per la migliore regia tra i film del festival.

Ormai minato da un cancro alla prostata in fase terminale, la sera del 29 novembre 2010 verso le ore 21, Monicelli, a 95 anni, decide di togliersi la vita gettandosi nel vuoto dalla finestra della stanza che occupava nel reparto di urologia, al quinto piano dell’Ospedale San Giovanni Addolorata, dove era ricoverato. Dopo le commemorazioni civili tenutesi nella sua casa romana al Rione Monti e presso la Casa del cinema, il suo corpo è stato cremato. Nel 2013 il cantautore toscano Appino, frontman degli Zen Circus, ha dedicato a Mario Monicelli il brano Il testamento, con particolare riferimento all’episodio della morte del regista.

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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CINESTORIA

MILENA VUKOTIC

23 Aprile 2020

Milena Vukotic (Roma, 23 aprile 1935) è un’attrice italiana, vincitrice di un Nastro d’argento e più volte candidata al David di Donatello (1983, 1991, 2014). È nota per le sue interpretazioni in Gran bollito di Mauro Bolognini, Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, per il ruolo della moglie di Raffaello Mascetti in Amici miei di Mario Monicelli, per il ruolo di Pina Fantozzi nella saga Fantozzi di Paolo Villaggio e per il ruolo di Enrica Morelli nella serie televisiva Un medico in famiglia.

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SILVANA MANGANO

23 Aprile 2020

Silvana Mangano (Roma, 21 aprile 1930 – Madrid, 16 dicembre 1989) , attrice. Annoverata tra le maggiori attrici del cinema italiano, per le sue interpretazioni ha ottenuto tre David di Donatello e tre Nastri d’argento.

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IL FENOMENO LANDO BUZZANCA (II)

8 Marzo 2020

    Sui film del periodo comédie érotique Lando dirà in seguito: “Ne Il prete sposato ci fu, con Rossana Podestà, una collaborazione stupenda. Grazie al cielo, perché il mio ruolo era difficilissimo e quindi avevo proprio bisogno della sua comprensione, della sua amicizia.Il film incassò una follia, tre miliardi del 1970! Io ho sempre cercato e vado alla ricerca di personaggi umani, non perché non mi andasse più e non mi vada di fare il burattino ma perché non voglio confinarmici. Anche perché ii burattino ti viene a noia mentre l’uomo no. E poi è più giusto raccontare uomini che raccontare burattini… Dal ’70 al’73 se c’è stato un attore che ha incassato, questo era il sottoscritto! Con cinque film. Non è mai successo a nessun altro attore di stare contemporaneamente in tre cinema di prima visione – il Barberini, il Metropolitan e il Quirinale – con tre film diversi. E mica soltanto a Roma, ma in tutta Italia! Tre locali, tre film che facevano tutti soldi a palate. Si intitolavano Homo eroticus, Il merio maschio, Il vichingo venuto dal sud. Be’, oggi tutto questo è come se non fosse mai accaduto. I critici, anche rivedendo vecchi film tipo Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, La parmigiana, sembra si vergognino a citarmi. Eppure ho dato tanto: all’industria cinema, ai produttori, al pubblico!…”.

    Il guaio era che a suo tempo l’attore era impegnato a girare un film dietro l’altro, senza un attimo di respiro, e inevitabilmente, vista la “richiesta” del mercato, veniva a trovarsi coinvolto anche in imprese frettolose trascurabili: accadeva così che anche se un suo film su tre era degno d’attenzione, la critica, almeno in generale, non ne teneva conto alcuno, avendo ormai etichettato Lando come il protagonista di un genere commerciale di grana grossa che ripeteva quasi invariabilmente il suo personaggio, sfruttando situazioni e motivi già oltremodo sfruttati. In tal modo parecchie sono state le sottovalutazioni, quando non le feroci stroncature, di film meritevoli invece d’essere giudicati senza pregiudizi. Se, infatti, titoli quali Quando le donne persero la coda (1972), nuova farsa cavernicola, e Jus primae noctis (1972), farsa erotica medioevale, entrambi di Pasquale Festa Campanile, sono apparsi, e restano, trascurabili, All’onorevole piacciono le donne (1972) di Lucio Fulci è una scatenata satira politica che non a caso ha subìto i fulmini della censura per aver messo alla berlina un perfetto onorevole democristiano Buzzanca, tra l’altro, è truccato in modo da apparire assai somigliante all’onorevole Colombo, allora ministro – il quale, destinato dal partito, ma soprattutto dalla Curia, a diventare presidente della Repubblica, scopre d’improvviso i piaceri del sesso e in particolare è attratto dal culo femminile. Il comportamento dell’onorevole, riprovevole in più occasioni, provoca il suo temporaneo allontanamento dalla politica per ùn periodo di riposo in un monastero, ma lì egli giunge a possedere una ventina di suore e a peggiorare i propri deliri erotici, finché, minacciato perfino di soppressione e beatificazione, cioè ridotto a mummia da portare in processione, non si ravvede e torna all’ovile, ma con ben scarse prospettive di un luminoso futuro. Il regista ha detto che il film era stato proiettato al Viminale di fronte a tutti i potenti democristiani, con le forze di polizia a custodire la sala, e che, secondo alcuni presenti, Andreotti e Fanfani avevano riso moltissimo.

    Certo è che non erano tempi favorevoli a beffeggiare il partito di maggioranza relativa e i suoi rapporti con ii sesso pesantemente condizionati dalla Chiesa. Quindi, sia pure nei suoi limiti, un film che ha il coraggio dell’irriverenza e del sarcasmo contro le convenzioni e le ipocrisie, con qualche godibile trovata surreale (le suore in calze autoreggenti che ballano in modo provocante, l’albero che al posto della frutta ha solo cui femminili) e con lo sfoggio di piacevoli nudità delle attrici (Laura Antonelli e Agostina Belli come desiderabili suore giovani, Eva Czemerys, Anita Strindberg). Anche L’uccello migratore (1972) di Steno non manca di notazioni satiriche azzeccate, narrando di un professore all’antica (Buzzanca) che dalla natìa Sicilia viene trasferito in un liceo romano in piena contestazione, si trova presto in difficoltà ma viene soccorso da un’avvenente insegnante di cui si innamora (Rossana Podestà), si convince alla solidarietà con gli studenti sessantottini in rivolta e infine ne paga il prezzo con il trasferimento in una sperduta isola mediterranea. Come si vede, anche questa commedia prende di mira i problemi e gli aspetti del costume dell’epoaa, con la presenza carismatica di Buzzanca a condurre il gioco, a garanzia del successo popolare. Così come Il sindacalista (1972) di Luciano Salce, che rivisita in chiave di commedia all’italiana le lotte operaie del tempo, riuscendo assai divertente nel seguire la parabola di un sindacalista donchisciottesco (Buzzanca) che s’impegna a fondo contro il padrone di una fabbrica (Renzo Montagnani), tendendo a strafare, finché non si accorge di esserne strumentalizzato e subisce l’ira violenta dei lavoratori esasperati dopo che la fabbrica è stata venduta. Una volta tanto le donne (Paola Pitagora, Isabella Biagini e Dominique Boschero) restano sullo sfondo.

    La crisi del maschio di fronte ali’imprevedibilità caratteriale e psicologica della donna moderna è al centro dell’assai modesto La schiava io ce l’ho e tu no (7972) di Giorgio Capitani, ove il protagonista (Buzzanca), afflitto da moglie e amante (Catherine Spaak e Adriana Asti), fugge in Amazzonia e torna con una giovane schiava che corrisponde al suo ideale femminile, cioè una creatura docile, servizievole e ubbidiente in tutto. Un curioso filmetto antifemminista, purtroppo anemico di vere invenzioni. Deludente anche Io e lui (7973) di Luciano Salce, dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, in cui uno sceneggiatore di cinema (Buzzanca) di scarse virtù, erotomane represso, parla con il proprio membro virile (visualizzato con varie allusioni a simboli fallici, colonne, pompe di benzina, alberi, eccetera), finendo rovinato per aver seguito i suoi consigli. A margine, si possono apprezzare certi scorci sarcastici sull’ambiente del cinema romano e certi tratti di sessualità grottesco-surreale, che ovviamente non bastano a salvare il film, pressoché disertato dal pubblico. Si salva almeno in parte, invece, La Calandria (1973) di Pasquale Festa Campanile, dall’omonima commedia cinquecentesca del cardinal Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, in cui Lidio (Buzzanca) conquista per scommessa la bella Fulvia, detta Calandria (Agostina Belli), ingenua consorte del vecchio impotente Calandro (Salvo Randone), ma poi, eccedendo in beffe sessuali, subirà una durissima punizione. Torna alla satira dell’arrivismo maschile e del gallismo Il magnate (1973) di Gianni Grimaldi, ove un ingegnere (Buzzanca) sfrutta la bellezza della moglie (Rosanna Schiaffino), lasciandola come garanzia a un conte (Jean-Pierre Cassel) per ottenere un prestito di cui ha gran bisogno, ma alla fine la donna, strumentalizzata dal primo e amata dal secondo, pianterà entrambi rivendicando la sua libertà. Tuttavia il film è un’occasione sprecata, disperdendo sia i motivi satirici che l’interessante tentativo di abbozzare i ritratti psicologici esemplari dei due uomini. Un tentativo, assai parzialmente riuscito, di satira del mondo del calcio e dei suoi eccessi, è L’arbitro (7974) di Luigi Filippo D’Amico, che narra come un arbitro siciliano (Buzzanca) troppo rigido, per fanatismo professionale trascuri la moglie, il figlio, l’amante e il lavoro, ma resti vittima delledonne e concluda la sua carriera in manicomio. Mentre II domestico (7974) dello stesso D’Amico è molto spassoso nel seguire il grottesco percorso di un cameriere per vocazione (Buzzanca) dall’8 settembre 1943 fino agli anni Settanta, al servizio prima dei tedeschi e poi degli americani, passando attraverso il cinema del neorealismo popolare alla Matarazzo e poi alle dipendenze di vari altri padroni non proprio irreprensibili, fino al carcere dove almeno potrà trovare un po’di tranquillità. In questa satira del servilismo Lando e al suo meglio in un personaggio che gli è congeniale, attorniato da Martine Brochard, Arnoldo Foà, Luciano Salce, Femi Benussi, Silvia Monti e Erika Blanc. Ancora un film tra i migliori dell’attore, Il gatto mammone (1975) di Nando Cicero, ambienta in un paesino siciliano l’odissea di un uomo (Buzzanca) che tenta invano di avere un figlio e, ossessionato dal desiderio di paternità, nonché convinto che la colpa sia della moglie (Rossana Podestà), con il consenso non entusiastico di questa ricorre infine a una bella cameriera veneta (Gloria Guida) da mettere incinta, ma senza alcun successo, finché non scopre che è lui sterile, e allora sarà la moglie a farsi mettere incinta da un aitante giovanotto, con ovvia disperazione del marito.

    Ricorrono i temi dell’onore, della gelosia delle corna e della vergogna di fronte all’opinione pubblica, insieme a quello del terrore della sterilità come ‘colpa’ che sottintende una minore virilità. Lando è molto bravo e le due attrici lo affiancano con le risorse del mestiere e dei loro fascino erotico. Quanto a Il Cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza (1975) di Lucio Fulci, non solo è squilibrato tra satira e farsa (difetto, come si vede, di molti film dell’attore) ma è andato incontro a un quasi insuccesso perché, secondo il regista, uscito sugli schermi quando la fortuna di Lando era già finita. Opinione discutibile. E se invece fossero stati film come questo a determinare l’inizio del declino irreversibile di una fortuna tanto strepitosa? Ci si può anche divertire, qua e là, con le avventure di un industriale (Buzzanca), tanto ben integrato in Brianza da vergognarsi delle sue origini siciliane, che durante un viaggio in Romania si ritrova a letto con un nobile locale (John Steiner) e crede d’essere diventato vampiro, nonché gay. il poveraccio cerca colli da mordere, preferibilmente femminili, e tenta anche di guarire ricorrendo al Mago di Noto (Ciccio Ingrassia), ma senza esito alcuno, così che gli operai della sua fabbrica saranno costretti a dare il sangue per il padrone. È un tentativo di satira del capitalista vampiro che riesce più efficace nel colpire il mito del gallismo, poiché il protagonista non fa una gran figura con le donne (Sylva Koscina, Valentina Cortese, Moira Orfei, Christa Linder). Con la sguaiata farsa paesana San Pasquale Baylonne protettore delle donne (1976) di Luigi Filippo D’Amico, Lando vede confermata la crisi del suo cinema per disaffezione di pubblico. Non risolleveranno le sorti dell’attore il fragile Travolto dagli affetti familiari (1978) di Mauro Severino, in cui Lando cerca invano di farsi mantenere dalle donne (Goria Guida e Andréa Ferréol), in Prestami tua moglie (1980) di Giuliano Carnimeo, una discreta commedia degli equivoci, ove lui ripropone il personaggio di maschio latino con moderazione autoironica, tra Janet Agren, Claudine Auger e Danieia Poggi, ed è chiaro che, perduta la carica trasgressiva e dissacrante del suo tipico personaggio, a Lando non bastano più le belle donne disponibili a spogliarsi per recuperare il favore delle platee.

    In una nostra intervista del 1980 l’attore ha tracciato un bilancio della sua attività: “Sai com’è andata. Qualche buon film, come Il merlo maschio di Festa Campanile e Il prete sposato di Vicario, altri discreti e di grosso successo commerciale, altri ancora mediocri: troppi certamente, e non avrei vovuto accettarli, ma i produttori premevano, il pubblico mi richiedeva, e sono stato un po’ travolto dall’intensità del lavoro, anche se avvertivo certi segnali d’allarme, certe insoddisfazioni mie e della platea, che si sono trasformate in stanchezza. E nel 1975, dopo San Pasquale Baylonne, mi sono fermato. Ho cominciato a rifiutare le offerte perché nessuna mi piaceva davvero. E, con l’assenza dallo schermo, la crisi: perché nessun copione decente? Perché nessun regista dignitoso mi cercava?…”. E, a proposito dell’eccesso di sfruttamento da lui subìto in prodotti frettolosi e di prevedibile facile successo: “Non ho avuto possibilità di scelta. Era il mio momento è mi offrivano un certo lavoro: direi che era quasi inevitabile che ne approfittassi. Dov’erano, però, in quel momento, i registi che avrei preferito? Non sono venuti più i Germi e i Lattuada, e nemmeno i Monicelli e i Risi, che hanno fatto la fortuna di attori comici in fase di maturazione. Così ho imparato a mie spese quanto sia difficile il mestiere di attore in Italia, spesso non legato alla bravura individuale ma alle occasioni che ti consentono di affermarti in un certo modo.

    Logico, dunque, che mi sia scoraggiato e abbia cominciato a rifiutare tutto ciò che non mi piaceva. (…) Ho viaggiato. Ho constatato, con sorpresa, che sono popolare in certi paesi stranieri, soprattutto sudamericani, ma anche in Iran, a Beirut e perfino a Hong Kong, dove c’era una coda di 400 metri per entrare a vedere Il gatto mammone. Incredibile. E guarda questo ritaglio di giornale: a Managua, dopo la caduta di Somoza, un guerrigliero, parlando ai giornalista italiano, dice: “Ah, lei è del Paese di Lando Buzzanca!”. Ma certe cose me le spiego rileggendo quel che hanno scritto di me critici stimati. Leggi questo pezzo di Pietro Bianchi, a proposito de L’arbitro: scrive che appartengo alla schiera di mimi e comici d’una volta, che si basavano sulla mimica e sulla gestualità più che sulle battute. E mi paragona a Totò. E sai cosa mi ha detto di recente un tassinaro? “Lei è come Totò, non muore mai!”. Non sono io che cerco di fare paragoni. Il popolo si riconosce in certi miei personaggi e li ama. E non solo il popolo italiano…”. È vero che verso la fine degli anni Settanta si era un po’ esaurita la ventata liberatoria del nostro cinema più spregiudicato, sia di “pratiche alte” che di “pratiche basse”, dunque che i tempi erano cambiati, e con essi i gusti del pubblico, ma tanti attori hanno comunque continuato a lavorare in altri contesti. Buzzanca no. E come se si fosse interrotto bruscamente un rapporto, non solo per ii rifiuto di Lando verso le banalità che gli offrivano, ma pure per disinteresse di produttori e registi che non gli riconoscevano più le notevoli potenzialità di commediante e di attore drammatico.

    Un caso davvero singolare. Così Lando ha preferito dedicarsi al teatro, a parte qualche impegno cinematografico all’estero, qualche partecipazione a film italiani, ma non più come protagonista, e qualche impegno in programmi televisivi di vario intrattenimento.  Ha proprio ragione quando dice che la carriera di un attore è condizionata dalle occasioni che gli si offrono per maturare e per reinventarsi in ruoli davvero significativi, tali da lasciare il segno. E il nostro cinema purtroppo è ben noto per sfruttare in misura esorbitante i generi ben collaudati al botteghino, per abusare di ripetitività fino a che il pubblico non si stanca, per coinvolgere nei suoi fallimenti anche interpreti degni di rispetto, e per la mancanza di coraggio nello sperimentare opere originali, affrontando tematiche e impiegando linguaggi non convenzionali.

VITTORIO ALBANO

Redazione, Archivio Siciliano del Cinema

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SICILIANI NEL CINEMA

NINO MANFREDI. PROFILO

28 Febbraio 2020

Nino Manfredi, all’anagrafe Saturnino Manfredi nasce a Castro dei Volsci il 22 marzo 1921, attore, regista, sceneggiatore, comico e cantante italiano. Interprete versatile e incisivo, tra i più validi e apprezzati del cinema italiano, nel corso della sua lunga carriera ha alternato ruoli comici e drammatici con notevole efficacia, ottenendo numerosi riconoscimenti.

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