ERCOLE PATTI, NELL’ERA DELLA CONTESTAZIONE

Nato il 16 febbraio 1904 e scomparso il 15 novembre del 1976, il catanese Ercole Patti è stato uno scrittore, giornalista, sceneggiatore e drammaturgo di grande spessore. Lo incontrai a Roma nell’era della contestazione sessantottina. Molti i soggetti e le sceneggiature tradotte da suoi romanzi e novelle. I giovani lo adoravano, lo cercavano, lo vezzeggiavano. Amavano parlare con lui – interi pomeriggi, lunghe estenuanti nottate – confidarsi. Gli raccontavano i loro crucci, la loro sfiducia e le speranze, confortati dalla sua calda sicurezza, dalla sua tenerezza sottile sospesa fra malinconia e il rimpianto.

    I giovani, anche se ostentano atteggiamenti sicuri, spesso sono irritanti e una spavalderia oltraggiosa, offensiva, anche se si illudono di risolvere la loro protesta indossando abiti assurdi, dalle tinte improbabili e dal taglio avveniristico, anche se credono che il loro totale, incondizionato rifiuto delle realtà sociali – ordinamenti, leggi, principi precostituiti – risulti espresso in maniera esplicita e accorata dal ricorso all’anticonformismo, dalla disperata irrequietezza che accompagna i loro gesti e i loro discorsi, sono rimasti sensibili alle cose che sanno dare calore, che sono vere e un po’ struggenti.

    Ercole Patti aveva capito i giovani, i loro dubbi, il loro bisogno di mettere tutto continuamente in discussione, la loro sconfinata solitudine e i giovani gliene erano grati. Gli manifestavano come potevano la loro simpatia, in quella maniera ruvida ed anti-retorica alla quale non sanno rinunciare. E se lo contendevano. Con affetto. Senza pudore dei sentimenti che provavano, irrimediabilmente conquistati dalla mitezza del suo sguardo soffice e chiaro. Lui raccoglieva i tormenti dei suoi giovani amici e condivideva le loro pene d’amore.

    Un velo di tristezza, però, copriva lo sguardo dolce di questo scrittore che amava il passato e che assecondava i giovani; che viveva, agiva, operava nel senso dei principi e delle convinzioni moderne ed aveva bisogno di rifugiarsi, quando scriveva, nel ricordo di un sogno lontano, mai vissuto; che svolgeva la sua vita in prospettiva, attento alle novità, ai cambiamenti, agli imprevisti, sempre in mezzo alla gente, curioso, inquieto e poi trascorre lunghi mesi ogni anno lontano da tutti, dagli intellettuali romani e milanesi, dagli aristocratici della capitale, dai suoi giovani amici, protetto dal silenzio assoluto che c’era a Pozzillo, nella sua casetta sul mare.

  Se ci penso, lo vedo e lo sento ancora chiacchierare con me quella vola che lo intervistai. Il mare. Un elemento fondamentale della vita e della sensibilità di Ercole Patti. Lo esaltava, lo affascinava, gli faceva compagnia. Lui lo inseguiva tutto l’anno e, d’inverno, non riusciva a rassegnarsi per averlo perduto. E nella sua casa di Pozzillo, immersa fra gli ulivi e affacciata sul mare, si sentiva isolato, sicuro, salvaguardato dagli inviti insidiosi degli amici che, quando era a Roma, riuscivano sempre a strapparlo alla sua ostinata solitudine e a trascinarlo, tutte le sere, nei salotti, nei circoli culturali, nelle pittoresche trattorie di Trastevere e quando era a Venezia riuscivano ad insinuargli perfino la diabolica idea dello smoking, costringendolo a partecipare annoiato e riluttante a ricevimenti favolosi come il ballo Volpi, frequentato dalle dive e dai personaggi del jet-set e le riunioni sofisticate che si tenevano negli antichi palazzi sulla Laguna, dalle quali fuggiva puntualmente prestissimo, costernato e trionfante.

    “A Pozzillo è diverso – spiegava, con toni flautati, Ercole Patti. – Non corro il rischio di vivere una vita disordinata e dispersiva, fatta di incontri casuali con gente estroversa, loquace e noiosa, fatte di lunghe nottate insonni e di interminabili soste al tavolo di un ristorante, alle prese con menù laboriosi e difficili, fatta di alienanti, sbadate conversazioni da caffè.

    A Pozzillo alle dieci già dormo e al mattino mi alzo prestissimo, mentre i galli lanciano la prima acuta, insistente sfida al sole che sorge.

    A Pozzillo la mia giornata è densa, piena. Lavoro senza pause, con lena, con fatica, tutto concentrato dietro a un’idea, senza mai perdere di vista l’obiettivo che mi sono proposto, riempendo i fogli rapidamente, uno dopo l’altro, di appunti, annotazioni, idee, traducendo in parole le sensazioni, in immagini i pensieri”.

    La Sicilia che descrive nei suoi libri è una terra più sospettata che vissuta, un paese fiabesco che reinventa ogni volta che tesse una storia o costruisce un racconto e al quale ama affidare i ricordi e le intuizioni dell’adolescenza.

    Una terra che si è trasfigurata nella memoria nel periodo del lungo distacco, la giovinezza passata a Roma, i viaggi attraverso il mondo, in Cina, in Giappone, in Libia, in Russia, che dovevano suggerirgli reportage coloratissimi e originali, i quattro mesi di prigione, duri, solitari, quando fu accusato di antifascismo e arrestato.

  Allora aveva già vinto la battaglia aspra con i familiari, era riuscito a superare l’ostinata resistenza del padre che lo avrebbe voluto avvocato a Catania, così come era avvocato lui, e come lo erano stati prima di lui il nonno e il bisnonno, secondo una tradizione familiare rispettata con ossequiosa convinzione da molti decenni, e che non riusciva a capire quel figlio ostinato e caparbio che preferiva fare lo scrittore, una professione così scapigliata, improbabile e incerta, piuttosto ché l’avvocato, una professione così dignitosa, severa e sicura, che voleva abbandonare la Sicilia, costruirsi da solo, lontano dalla terra d’origine, un avvenire non programmato, sovvertire l’ordine di quattro generazioni e vivere alla sua maniera, non come aveva vissuto il padre e gli avi precedenti.

  Cominciò a scrivere i primi romanzi di successo, alternandone a uno di ambiente romano uno di intonazione siciliana (una forma di voltura espressiva che ricorda un principio fondamentale in agricoltura – seminare la terra un anno con le fave e il successivo con il frumento – al quale i contadini si affidano per consuetudine perché sanno di ricavare messi abbondanti, gonfie di semi) senza mai perdere di vista lo stile, la maniera narrativa, la sensibilità degli autori che lo avevano suggestionato da ragazzo, Manzoni, Flaubert, Stevenson, Cecov e Poe.

    “Lo stile – sostiene – dev’essere una manifestazione spontanea, felice, non costruita: non è necessario dire cose difficili in maniera difficile, non è necessario essere involuti per personalizzarsi, non è necessario ricorrere a vocaboli e ad aggettivi inconsueti, curiosi, balordi per qualificarsi. Basta servirsi degli aggettivi, dei sostantivi, delle espressioni di uso corrente, i più logori e triti, e metterli nella giusta luce, armonizzarli secondo un ideale di scrittura che sfugge alla retorica e punta diritto ai sentimenti”.

  Ecco perché gli scrittori d’avanguardia gli fanno dispetto. “Avanguardia!… Cosa significa questa parola? Avanguardia!…Ma se è una parola priva di senso, vuota di significato, spoglia di contenuto…Prendiamo una definizione molto diffusa: “scrittore d’avanguardia”. Cosa vuol dire? Nulla. Esistono scrittori veri e scrittori fasulli. Questa è l’unica distinzione possibile. Semplice, lineare, senza equivoci. L’arte è una categoria, diciamo dello spirito, del tutto individuale.

    È assurdo dare credito a quelli che, avendo individuato segni di stanchezza o di deterioramento, ritengono sia tempo di proporre un nuovo modo letterario, di fondare una scuola di stile, di dar vita a una nuova corrente intellettuale e, da un giorno all’altro, con decisione estemporanea, ma premeditata, suggerita di solito da motivi utilitaristici o da interessi di natura politica, rendono nota la loro miracolosa identità di pensiero, come se fosse possibile alimentare dentro di noi le stesse inquietudini degli altri o coltivare la stessa sensibilità degli altri o esprimere le stesse intenzioni e gli stessi slanci degli altri.

    Non credo nei gruppi letterari e meno ancora credo nei premi letterari. Negli ultimi dieci anni molti bravi, interessanti, originali scrittori non hanno avuto nessun riconoscimento. Al contrario, a tanti mediocri, esangui, incerti autori sono stati assegnati i premi più prestigiosi. È una realtà malinconica e bisogna prenderne atto: i vincitori di premi letterari sono scrittori di serie B.

    Con l’etichetta di cultura e di nuova cultura vengono contrabbandate idee scialbe, risapute, la letteratura viene trattata come fenomeno commerciale. Il pensiero diventa una macchina per far soldi, i libri sono strumento di potere, gli editori scendono a compromessi mortificanti, gli scrittori sono le morbide, agevoli pedine di un mostruoso, logorante ingranaggio speculativo.

    Un tempo, molti anni or sono, un romanziere non costituiva mai incentivo di lucro: poteva capitare che un ragazzino scrivesse una storia curiosa, bizzarra, divertente e che la storia gli venisse pubblicata con grande rilievo, da un giornale attendibile e diffuso, non allo scopo di creare un caso letterario, di montare una campagna pubblicitaria clamorosa (capace di produrre, come succede oggi, denaro e gloria e non importa se l’ingegno risulta poi sproporzionato al risultato commerciale, inadeguato ai termini della propaganda), ma soltanto per il piacere di mettere in luce un talento appena abbozzato”.

    Ercole Patti aveva appena quattordici anni quando scrisse la prima storia. Era un racconto bizzarro, curioso, divertente e il Corriere dei Piccoli lo ospitò in una grande pagina centrale, con i disegni e le illustrazioni colorate.

  L’idea del racconto era nata da uno strano episodio: era tornato a casa molto tardi una sera e il padre, per punirlo, gli aveva nascosto le scarpe.

    Fu per lui un’umiliazione cocente. Chiuso nella sua stanza, a piedi nudi, allontanato a forza dalle cose che amava, il sole, la campagna, il mare, gli amici, trovò conforto in quella prima novella. Ad essa poteva affidare la sua ansia di evasione, il suo desiderio di nuovi orizzonti, la sua necessità di una dimensione diversa della vita. A quel primo racconto se seguirono molti altri, fino ai servizi di viaggio, alle rubriche sui giornali, alle cronache psicologiche che firmava “signor Pott” dal nome del più straordinario personaggio di Dickens, ai romanzi, ai lavori teatrali e alle tante traduzioni cinematografiche e sceneggiature, apprezzatissime all’estero.

    “Sono considerato uno scrittore romano anche se sono nato a Catania e anche se molti dei miei romanzi sono di intonazione siciliana. In realtà Roma e l’ambiente che esprime mi hanno molto influenzato: scrivo solo di fatti, situazioni, personaggi, atmosfere che conosco a fondo e che, in qualche modo, mi appartengono.

    È giusto che nei romanzi mi riferisca sempre a Roma e alla Sicilia, la Catania barocca, vivida ed estenuata dei primi anni del Novecento”.

   Roma rappresentava la sua realtà. A Roma vivevano i suoi amici più cari, Carlo Laurenzi e Sandro De Feo, a Roma frequentava gli intellettuali della cafè society di via Veneto, quella che è stata la protagonista delle vicende della cultura di quegli anni e che dal mondo surreale, svagato e un po’ magico inventato dalla fantasia degli artisti del pennello e della macchina da presa, ha ricevuto una impareggiabile dimensione visiva.

    La Sicilia custodisce i suoi ricordi: un momento della vita che ha avuto fretta di fuggire e che ritorna adesso con insistenza alla memoria, dissolto nei toni fluidi, sfumati, un po’ ambigui, del tempo perduto.

    Affermava di non avere rimpianti anche se la sua casa luminosa, zeppa di libri e di quadri, affacciata sul Tevere e a pochi passi da quella abitata da Saragat prima di diventare presidente, con uno stupendo paesaggio davanti, i monti fitti di verse, il cielo aperto e liquido come un oceano, era solitaria e silenziosa.

      Anche se i suoi giovani amici non riuscivano a portare, in quella casa, un soffio di gioia autentica.

BIANCA CORDARO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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