VAMPYR (1932). LA POETICA DEL VAMPIRO DAL VOLTO UMANO DI DREYER

Vampyr – Il vampiro (1932), capolavoro dell’espressionismo tedesco, noto anche col suo titolo originale Vampyr – Der Traum des Allan Grey, distribuito in Italia anche come La strana avventura di David (o Allan) Gray, è una grande opera il cui fascino rimane intatto nonostante i suoi quasi novant’anni.

    Al suo regista, il danese Carl Theodor Dreyer, va il merito di aver ideato un capolavoro del genere horror che, da diversi punti di vista, rappresenta l’anello di congiunzione tra il passato rappresentato dall’universo del cinema muto con i suoi limiti ma, soprattutto, con la sua grande capacità comunicativa ed anche evocativa attribuita alle immagini ed alle espressioni, ed il futuro con l’avvento del sonoro, grande punto di svolta per la settima arte ma anche una sfida impegnativa per chi come Dreyer si accinge ad utilizzarlo per la prima volta in un suo film.

    Il risultato è un’opera che presenta un parlato molto ridotto, un uso dei suoni particolarmente evocativo che ben si presta alla rappresentazione surreale ed onirica della realtà, una voce fuori campo che guida lo spettatore nei meandri di un mondo oscuro ed invaso dalle tenebre della morte e della paura ed una componete testuale, prezioso retaggio del cinema muto. Doppiato sin da subito in inglese ed in francese, in poco tempo conquistò il mondo occidentale facendo anche molto discutere l’opinione pubblica dei diversi Paesi in cui fu distribuito con la conseguenza di svariati tagli della pellicola originaria. Il tema intimamente connesso con l’occultismo ed il soprannaturale possono anche giustificare tutto ciò ma a Dreyer bisogna riconoscere la capacità, a distanza di un anno dal Dracula (1931) di Tod Browning e di dieci dal Nosferatu (1922) di Murnau, di aver realizzato una rappresentazione originale e molto soggettiva del mito complesso ma che tanto fascino desta all’immaginario umano come quello legato ai vampiri ed a tutti quegli esseri che vivono nel limbo tra la vita e la morte, le creature delle tenebre che prendono forma di ombre e comunicano al mondo dei vivi che esiste un’altra dimensione sospesa in cui alle regole del bene vengono sostituite quelle del male, alla vita la morte dell’anima e della dannazione eterna.

    Punto di riferimento importante dal quale Dreyer ha tratto la sceneggiatura per il suo film fu il racconto Carmilla dello scrittore irlandese Joseph Sheridan Le Fanu il quale, ancor prima di Bram Stoker (dal quale sono stati tratti i Dracula di Murnau e Browning), ha ridestato dal passato leggende e racconti legati, in particolare, al vampirismo femminile.

“Che notte meravigliosa, tutto sembra irreale, straordinario, fantastico. David Gray si è coricato ma un’atmosfera carica di mistero lo tiene sveglio”. 

    Il film inizia con queste parole focalizzando l’attenzione dello spettatore su un viandante, studioso di filosofia ed occultismo, David Gray (Julian West) che, giunta la sera, si appresta a passare la notte in una locanda nel villaggio di Courtempierre. Nell’aria si percepisce qualcosa di strano, le tenebre avvolgono la materia preparando gli animi ad un viaggio tra sogno e realtà, tra paura e mistero.

    Così come alla morte richiamano le parole che un vecchio (Maurice Schutz) scrive su un biglietto attaccato ad un pacco: “Zu öffnen nach meinem Tode, (Da aprirsi alla mia morte)”. Lo lascia proprio nella stanza di Gray e sparisce nel nulla. L’atmosfera si fa ancora più cupa quando il giovane decide di uscire fuori dalla locanda, guidato da inquietanti ombre, verso un castello. Qui ne scorge delle altre proiettate sul muro intente a danzare accompagnate da una musichetta di sottofondo mentre d’improvviso si riscopre catapultato all’interno di una dimensione oscura ed incomprensibile. Ha con sé il pacchetto ma anche la consapevolezza che il limite tra la luce e le tenebre è già stato rotto. Ma il giovane viandante ha già fatto la sua scelta: non si lascia atterrire dalla paura ma le va incontro.

“… segue le ombre misteriose fino ad un parco dove sorge un castello solitario in cui vive lo sconosciuto con le sue due figlie che aveva lanciato il grido d’aiuto fino a David Gray…”.

    Nel castello Gray scorge il vecchio che gli aveva lasciato il pacco ma viene ucciso poco dopo il suo arrivo con dei colpi di fucile; scopre pure che una delle sue figlie, Léone (Sybille Schmitz), è posseduta da forze oscure che la imprigionano in un letto in preda a strane visioni ed allucinazioni. Il giovane può, adesso, aprire il pacco e vi trova dentro un volume del 1820, Die Seltsame geschichte der Vampyre (La strana storia dei vampiri) di Paul Bonnard. Incuriosito, inizia a leggere mentre a far luce allo spettatore interviene la voce fuori campo che, oculatamente inserita nella trama, rappresenta una bussola preziosa che lo guida nel tenebroso viaggio:
“La gente crede nei vampiri fin dai tempi antichi; questi mostri orrendi, insensibili alla pietà, sono avidi di sangue che amano attingere di preferenza da esseri giovani e belli. Secondo alcuni i vampiri sono individui infelici, traditi, con la vendetta nel cuore. Secondo altri sono criminali particolarmente odiosi che tornano dall’aldilà per tormentare la gente innocente. (…) Durante il plenilunio i morti senza pace a causa degli atti tremendi che hanno compiuto da vivi, escono dalle bare per succhiare il sangue di bambini e giovani e prolungare la propria vita nella terra delle ombre”.

    È leggendo il testo che David Gray capisce che la sua missione in quel posto è quella di salvare le due sorelle e gli abitanti del borgo dalla presenza di una donna vampiro che infesta la zona da secoli. E lo farà dando il sigillo del lieto fine all’angosciosa storia.

    Nella continua lotta tra la vita e la morte, tra il bene ed il male, Dreyer riesce ad intessere un’opera che ben rappresenta la “terra delle ombre” come solo i grandi cineasti sanno fare, sperimentando un linguaggio originale e contornandosi di bravi assistenti tecnici nella troupe. In questo caso il ruolo della fotografia (affidata a Rudolf Maté e Louis Née) è prezioso soprattutto nel contrasto tra il bianco e nero della pellicola particolarmente accentuato, nelle inquadrature studiate ad hoc per creare attesa e suggestione oltre che nella grande poeticità con la quale riesce a restituire tramite gli esterni una realtà onirica e quasi priva di tridimensionalità come si conviene ad un grande maestro dell’espressionismo. Ma va anche oltre tutto ciò poiché riesce, differenziandosi da Murnau che ha donato al vampiro delle sembianze grottesche e mostruose, a mantenergli una forma umana creando delle immagini destinate a rimanere topiche nella storia della settima arte: l’ombra ricorrente dell’uomo con la falce, metafora della morte, costante presenza all’interno del film ma anche la scena della sabbia che ha tanto ispirato L’esorcista (1973) di William Friedkin, la scena della tomba, tra quelle che maggiormente hanno segnato le fantasie dei registi, forse la più inquietante di tutto il genere horror, fonte d’ispirazione per Wes Craven ne Il serpente e l’arcobaleno (1988), e quella del volto riflesso che appare in 70% degli horror moderni.

    Da ciò sembrerebbe che Vampyr oggi non ha nulla di nuovo da comunicare all’uomo del terzo millennio, avvezzo a ben altri tipi di paure ed ansie. Eppure non è così: l’invito a guardare con occhi nuovi capolavori come questo è motivato dalla grande poesia e naturalezza che traspaiono limpide da un’opera che più di tante altre ci porta innanzi ai nostri occhi la realtà oscura che va oltre la vita così come noi siamo abituati a viverla con tutta la paura del caso ma con un filo di speranza luminoso a cui aggrapparci.

ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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