OLTRE L’EDEN DI ALAIN ROBBE-GRILLET

Scrittore, autore di cinema, fondatore, con il suo primo romanzo Les gomnes (1953), del Nouveau Roman di cui è anche il principale teorico. Nel cinema dal 1961, con il testo de L’anno scorso a Marienbad, realizzato da Alain Resnais, Leone d’oro a Venezia. Seguirono, con le proprie regie, quattro film dal 1962 al 1970 tutti pubblicati in seguito, anche come cineromanzi, presso Les Editions de Minuit, a Parigi.

Nel 1974, sempre su un proprio testo, ha realizzato un nuovo film, Spostamenti progressivi del piacere: un’indagine su un omicidio che si conclude ricominciando tutto da capo. Al centro, l’accusata; una ragazza enigmatica che potrebbe anche essere una strega moderna. Attraverso i suoi racconti sempre diversi e contraddittori, le sue esperienze erotiche ora violente ora tenere, i suoi ricordi ora torbidi ora sanguinosi, si sviluppa e prende forma l’architettura mobilissima di un racconto che collega fra loro, con spostamenti progressivi, tutti gli oggetti che gli inquirenti hanno catalogato fra i corpi di reato. E questi oggetti, alla fine, per una serie di mutazioni, di sortilegi e di slittamenti successivi, troveranno la loro collocazione in un delitto nuovo che questa volta, forse, verrà provato.

Spostamenti progressivi del piacere. Un titolo fuori dal comune. Ritiene opportuno spiegarlo?

«Il piacere, qui, va inteso come godimento, come voluttà. E nasce – come nella gigantesca dissonanza non risolta che si sviluppa dal principio alla fine del Tristano e Isotta di Wagner – dal modo con cui, attraverso l’architettura del racconto, vengono a formarsi delle ondate successive. E dagli spostamenti di significato (imprevisti e necessari ad un tempo) da una ondata all’altra. Gli “spostamenti progressivi”: una ragazza accusata di un atroce delitto coinvolge progressivamente i suoi carcerieri, l’avvocato, i giudici, il confessore in un mondo mobilissimo di filtri, di morsi velenosi, di cerimonie profane, di sacre ferite. Somiglia alla giovane strega di Jules Michelet, desiderabile, fragile, dominatrice, turbata dal proprio corpo, dal sangue della deflorazione futura. Tutto materiale da leggenda: carezze che sfiorano la carne nuda, uova vischiose e crude, sciroppo di ribes, pennelli viscidi inzuppati di vernice rossa… ».

Un titolo come questo, naturalmente, si riflette poi anche nel film?

«Sì, perché, a sua volta, la struttura narrativa del film si compone di spostamenti successivi, di deformazioni, di slittamenti. la strega sovverte l’ordine prestabilito delle cose. Messa a confronto con una serie di oggetti che gli inquirenti considerano “corpi di reato” (una bottiglia rotta, un inginocchiatoio, una zappa da becchino, una scarpa azzurra sotto una campana di vetro, tre uova in una tazza bianca, un manichino), sostituisce all’ordine cronologico-causale, all’ordine poliziesco del vero e del falso, all’ordine morale del bene e del male, un intrigo in perpetuo movimento nel cui ambito il racconto si sposta da un oggetto all’altro, riprendendoli poi tutti ad uno ad uno, investendoli, associandoli, modificandoli, rovesciandoli… fino a momento in cui se ne farà scaturire un delitto nuovo, quasi identico al primo».

Si torna al punto di partenza, allora il tempo non conta più?

«In tutti i miei romanzi ma soprattutto ne Les gomnes, e in molti miei film, specialmente ne L’uomo che mente (1968) e in Oltre l’Eden (1970), la narrazione si conclude con una scena simile a quella con cui si è iniziata. E non a caso. Nella narrativa tradizionale gli avvenimenti debbono susseguirsi, in crescendo continuo, per dare corpo a una passione, a una vita, a un destino; è il trascorrere del tempo che veste le cose del loro significato. Nei miei romanzi, invece, e nei miei film, il tempo è come se si fosse frantumato, dissolto in una serie di momenti che corrispondono, ciascuno, alla totalità dell’azione. Ogni nuova scena, anziché dare un seguito al racconto, si ripete distribuendo in modo diverso i propri elementi. Tutto, così, accade di continuo; e nello stesso momento».

Secondo lei, perciò, a differenza di quanto succedeva nella narrativa tradizionale, l’autore moderno non si colloca mai al di fuori degli avvenimenti raccontati, ma ne è sempre contemporaneo?

«Parlare di avvenimenti raccontati lascerebbe supporre che esistano anche degli elementi anteriori o esterni al racconto. L’opera moderna, al contrario, edifica da sé il suo universo di riferimenti, creandolo e distruggendolo ad ogni momento. Non le è possibile altra realtà, altra cronologia, altra durata ».

Anche questa volta, dopo aver realizzato il film, ha scritto il cineromanzo?

«All’uscita di ogni mio film ho fatto seguire sempre la pubblicazione del “libretto” corrispondente. Come il musicista che dà alle stampe lo spartito della sua composizione. Con i miei ultimi tre film, però, le cose si sono abbastanza complicate. Con Marienbad era stato semplice. Per il film che avrebbe poi diretto Alain Resnais avevo scritto la “descrizione di un film” in cui tutto era già stato previsto: inquadrature, movimenti di macchina, indicazioni di montaggio. Ed è questo che ho poi pubblicato, senza riportare le innovazioni e i cambiamenti effettuati da Resnais durante le riprese. Nessuna difficoltà neanche con L’immortale (1963). I.a regia era mia, non avevo neanche scritto una sceneggiatura vera e propria e così ho stampato il testo del film esattamente come lo avevo realizzato. Le difficoltà sono cominciate con Trans-Europ-Express (1966) perché, essendomi appassionato sempre di più all’avventura delle riprese, ho finito per scrivere una cosa, per girarne un’altra e, da ultimo, per montare il tutto in modo diverso da come lo avevo prima previsto e poi girato. Questo modo di lavorare “aperto” ha raggiunto il suo acme soprattutto in Oltre l’Eden, un film nato dall’avventura di un film che ha generato se stesso attraverso una serie di variazioni continue, ma come mettere tutto questo nero su bianco? Il libro rischiava di diventare o una nuova variazione o un ennesimo rifacimento: il contrario, insomma, di uno spartito. Questa volta, perciò, ho deciso di riprodurre nel libro tutto quel movimento creativo, contraddittorio e complesso, che è il film dall’idea alla copia stampata. Il cineromanzo, così, si compone di tre parti distinte: la sinossi, che consiste in una sorta di riassunto, la sceneggiatura con i dialoghi, cui si accompagnano, a fianco, le sostituzioni, le aggiunte, le modifiche effettuate durante le riprese, e finalmente l’elenco completo delle 624 inquadrature del film a lavorazione ultimata. Il risultato è non solo un film, ma anche la sua coscienza critica e creatrice che, per un verso, ne costruisce di scena in scena l’architettura e, per un altro verso, ne mette in forse i significati».

La lettura della sinossi aiuta a scoprire la chiave del film?

«La storia, certo, vi è esposta in modo relativamente coerente; e rassicurante. Ma vi si intuisce nello stesso tempo anche dell’altro. L’abbozzo, se vuole, di una struttura. Ed è questa struttura che si afferma nella seconda parte, mutando e snaturandosi in virtù dello stesso movimento che la sviluppa. E complicandosi, nell’ultima parte, fino alla polverizzazione totale dei significati».

Ma allora, il significato vero del film?

«Mi è difficile rispondere a una domanda del genere. L’opera moderna non è più l’espressione di un significato, sia pure confuso; è attraversata soltanto, in direzioni molteplici e non di rado opposte, da una pluralità di significati; contiene dentro di sé delle correnti di significati, e dei mulinelli profondi, e delle rocce contro cui ogni significato si infrange…».

Soggettivismo?

«Credo sempre di più al cinema soggettivo. L’epoca del neorealismo è finita. Anche i seguaci della nouvelle vague, che sembravano indulgere a un certo verismo, stanno arrivando ad esso a una concezione più personale della realtà. O di quella che ci sembra essere la realtà».

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