DANIELA GIORDANO FILES. L’INTERVISTA DI ASCINEMA

Nell’ambito divulgativo della cultura cinematografica, ASCinema ha incontrato Daniela Giordano, un’attrice in auge tra gli anni Sessanta e Settanta, nota nei generi del nostro cinema, incluse diverse coproduzioni italo-spagnole, nonché musa nell’incursione di Mario Bava nella commedia sexy all’italiana Quante volte… quella notte (1972), esempio preclaro di cinema felicemente intrecciato con elementi scenografici densi di estetica e design.

Personalità poliedrica e brillante, Daniela Giordano, classe 1946, vive nell’oblio che il mondo del cinema sembra averle assegnato a torto. Inizia il suo percorso subito dopo aver vinto il prestigioso concorso di Miss Italia nel 1966, l’anno successivo esordisce infatti sul grande schermo con il film I barbieri di Sicilia di Marcello Ciorciolini accanto a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Da quel momento, e fino al 1980, sarà attiva nel soprattutto nel western, la commedia, il thriller, il poliziesco e l’horror. La signora Giordano già da molti anni si è ritirata a vita privata e conduce un’esistenza molto tranquilla nella natìa Palermo, dedicandosi soprattutto alla scrittura, agli studi sui fenomeni paranormali e alla pittura (1, 2), attraverso la quale omaggia la sua Sicilia, ma con il cinema sempre nel cuore. Quando la nostra redattrice Manuela Giordano (nessuna parentela con l’attrice) le ha scritto per proporle un’intervista che toccasse anche aspetti insoliti lei ha subito accettato con entusiasmo. L’incontro è avvenuto all’Hotel Domina Zagarella alle porte di Palermo, il 7 luglio scorso.

Ciao Daniela e grazie di aver accettato questa intervista per ASCinema! Partiamo subito dagli inizi del tuo lungo percorso: da una rotonda sulla spiaggia di Mondello al famoso concorso di Salsomaggiore e, infine, l’approdo a Cinecittà. Come ha affrontato una ragazza così giovane quel periodo pieno di cambiamenti?

Cavalcando l’onda, o meglio, cavalcando le onde! Da parte mia, i cambiamenti sarebbero stati accolti con molto piacere se non avessi dovuto affrontare il turmoil dei miei genitori: un padre favorevole, una madre contraria. Quello non è stato facile! Comunque, gli inizi sono stati semplificati dal fatto che il fratello di mio padre lavorava a Roma e che la sua famiglia era disponibile ad ospitarmi per un po’ e a tenermi d’occhio – cosa molto impegnativa questa. Avevo vinto l’auto e i soldi e quindi mi sentivo indipendente. E chi mi poteva dire più qualcosa?

La fascia di Miss Italia ha significato per te una grande opportunità, se non avessi fatto cinema cosa avresti voluto fare? Avevi dei sogni?

A quei tempi – siamo nel 1966 –  già dipingevo, provenivo dal liceo artistico e avrei voluto fare la cartellonista pubblicitaria. Lavoro che potevi trovare solo a Milano. Questa volta, però, i miei erano d’accordo. Non mi avrebbero mai mandato a vivere da sola a Milano, così, pensando già allora di viaggiare e vedere il mondo, decisi che volevo imparare la lingua inglese. Anche questo fu un po’ difficile. Mia madre preferiva il francese per una ragazza. Quindi lottai anche per l’inglese e finii al British College palermitano. Dopo iniziai a dare delle lezioni private ai bambini. Non durò molto perché poco dopo vinsi Miss Italia. Avevo 19 anni e per la legge italiana ero ancora minorenne.

Dal 1967 al 1980 hai attraversato un po’ tutti i generi cinematografici, dalla commedia al western, dal poliziesco al thriller e persino l’horror. Qual è quello in cui ti sei sentita più a tuo agio e che ti piaceva maggiormente interpretare?

Mi sono sempre sentita più a mio agio con i film western. Li vedevo già al cinema Gaudium, la sala parrocchiale vicino casa a Palermo. Farli poi in prima persona mi gratificava molto. Mi piacevano i cavalli, mi piacevano i personaggi da interpretare e mi piacevano anche i protagonisti. Verso i 15 anni mi ero presa una cotta per Peter Lee Lawrence, attore tedesco, conosciuto soprattutto per i suoi molti spaghetti western e diversi fotoromanzi. Si può immaginare come mi sentissi emozionata quando poi feci un film con lui (I quattro pistoleri di Santa Trinità). Più tardi presi un’altra cotta per Peter Graves, l’attore americano che per anni aveva interpretato i telefilm di Mission Impossible, dove l’apertura era quella di un registratore che dopo le istruzioni date all’agente si autodistruggeva in una nuvoletta di fumo – a quel tempo Tom Cruise era appena nato! Quando poi ebbi l’occasione di lavorare con Peter Graves in un western purtroppo era già troppo vecchio per me.

A proposito di horror… Nel 1976 ne hai interpretato uno abbastanza particolare, per la regia dello spagnolo Paul Naschy, Inquisición. Che ricordi hai di questo film?

Belli e meno belli. È stato un film fisicamente faticoso, ma bellissimo da interpretare. Avevo un personaggio da creare: da semplice fanciulla a strega per amore, e non lo considererei propriamente un horror, piuttosto un film quasi storico. Ero la protagonista e mi piaceva molto quel personaggio. Paul Naschy era molto contento di aver scovato un’attrice che somigliava alla donna di cui lui raccontava la storia. Era un personaggio documentato storicamente e di cui Naschy aveva trovato un ritratto su un antico libro. E io le somigliavo. Le cose più difficili del film? Prendere in mano un teschio con tutti i vermicelli bianchi che entravano e uscivano dalle orbite, uccidere una gallina e spennarla, o costringermi a non fuggire quando mi accesero il fuoco tutt’intorno per bruciarmi sul rogo come strega. Il film, distribuito inizialmente solo in Spagna, successivamente fu venduto in Europa e negli Stati Uniti. Ha incassato molto. Recentemente ne hanno fatto un DVD blu-ray e viene considerato un “cult” dagli appassionati. L’Italia è stato uno dei pochi paesi che non l’ha distribuito. Nel 1976 quel genere di film non interessava (avevamo già la ‘sexy comedy’). In Inquisición, secondo i distributori, non c’era abbastanza nudo, gli attori spagnoli non erano conosciuti in Italia, solo il mio nome (unico italiano) non era abbastanza forte da tirare tutto il film e, soprattutto, il doppiaggio sarebbe costato molto.

So che non gradivi molto dover fare le scene di nudo, a tal riguardo è vero che una volta hai rifiutato una proposta nientemeno che da parte di Carlo Lizzani?

Si, è vero. Fu il primo film che mi propose la mia agenzia, la William Morris, appena fresca di Miss Italia. Insieme a mio padre, casualmente a Roma in quel momento, incontrai Lizzani con cui avevo un appuntamento. Per Lizzani andavo bene come ragazzina che avrebbe avuto una storia d’amore con un uomo molto più anziano di lei. Poco prima di andar via mi/ci chiese se ero disponibile alle scene di nudo previste nel film. Risposi di no. Così mi salutò e ce ne andammo. Poco dopo la William Morris mi propose I barbieri di Sicilia, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Ed accettai. Era il mio primo film!

Hai lavorato con tanti registi, anche stranieri, persino con dei nomi importanti come Dino Risi (in Vedo nudo, 1969) e Mario Bava (Quante volte… quella notte, 1972). Che rapporto riuscivi a stabilire con loro sul set? Il tuo punto di vista contava o semplicemente ti adeguavi alle necessità?

Dopo il periodo dei western è cambiata la tipologia dei film. Ed io mi sono adeguata, nel senso che se dal mio punto di vista c’erano delle scene troppo osé o rifiutavo il film oppure, se c’era spazio per una trattativa, comunicavo ancor prima di firmare il contratto che non ero disponibile alle scene troppo spinte. Devo dire che, secondo i registi, io ero “una gran rompiscatole”. Però, se mi volevano, dovevano trovare un accordo con me. In genere, se accettavano, o prendevano la controfigura o trasferivano le scene di nudo su altri personaggi. Per Quante volte… quella notte ho iniziato a discutere fin da subito. Sul copione c’erano troppe scene di nudo. Alla fine Mario Bava mi convince parlandomi di cache-sexe, un cerotto che si “impiccica” sulle parti intime, effetti di luce del tipo vedo-non vedo, e altri trucchetti cinematografici. Era molto paterno e sembrava capire i miei problemi. Alla fine, nelle scene che io consideravo più “forti” non si vedeva quasi nulla con tutti i cerotti che avevo incollati di sopra, di sotto e di dietro. Bava avrebbe risolto le sequenze che mi preoccupavano con provvidenziali piante, paraventi ed altri effetti. Il problema, per cui avrei voluto un pagamento extra, era quello di togliere i cerotti la sera a casa! Per quanto il bagno caldo aiutasse a sciogliere la colla, non era certo facile tirarla via tutta. Nemmeno con Dino Risi è stato un problema, ci siamo accordati subito.

Mario Bava è stato negli anni ampiamente rivalutato dalla critica e i suoi film sono divenuti oggetti di culto fra i cinefili. Quante volte… quella notte di cui sei stata la protagonista, è stato persino ridotto in formato cineromanzo sia in Italia che in Francia. Hai degli aneddoti curiosi legati alla lavorazione di questo film? Che tipo era Bava?

Già da quello che ho raccontato prima si può intuire che Bava era un’ottima persona. Aveva pazienza, almeno con me, ed era considerato un bravo regista. Ho dato qualche problema, invece, all’attore americano Brett Halsey, mio partner nel film. In una scena dovevo corrergli incontro, abbracciarlo e dargli un bacio sulla bocca. Facciamo due o tre prove (senza bacio) per le posizioni e per le distanze della piccola corsa. Poi Bava dà l’azione. Io parto verso Brett e sbaglio di qualche millimetro la posizione della mia bocca. Risultato: i miei incisivi sbattono contro i suoi e gli fanno saltare le capsule che rotolano da qualche parte sul pavimento. Brett urla: “Fermi tutti! Non si ricomincia a girare se prima non si trovano le capsule!”. Così, tutti si mettono a cercarle tra i cavi della luce, pedane, carrelli ed altri attrezzi del set. Ero mortificata e dispiaciuta. So quanto costano i lavori dal dentista, ma in fondo mi sento giustificata perché sono miope e un millimetro in più o in meno per me non fa grande differenza.

 

Daniela Giordano e Brett Halsey in Quante volte… quella notte (1972), nella riduzione in cineromanzo francese Erosfilm, n. 4, marzo 1977 (Fondo Cineromanzi di ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema)

 

Dei tanti attori con cui hai condiviso il set, anche siciliani – come Franco e Ciccio, Lando Buzzanca, Tano Cimarosa – con quali sentivi di avere più affinità? In questi lunghi 42 anni di assenza dall’ambiente cinematografico hai mantenuto dei contatti con qualcuno?

Parlando di affinità posso dirti che avevo una splendida intesa con i due interpreti del film La cameriera (1974, di Roberto Bianchi Montero) la multiforme e prolifica attrice palermitana Carla Calò, e Mario Colli, attore romano, doppiatore e direttore del doppiaggio italiano, noto soprattutto per aver dato la voce a Raymond Burr nei gialli di Perry Mason. Sono nomi di cui probabilmente la maggior parte della gente non ha memoria, ma erano due di quelli bravissimi. Naturalmente, c’è anche Lando Buzzanca, la comprensione tra noi era una cosa normale, ma avevo anche un’ottima intesa con Francesco Mulé, alla cui carriera di attore aveva affiancato quella di doppiatore e la sua voce è rimasta legata al personaggio dell’Orso Yoghi. Indimenticabili per me anche Marisa Merlini e Tuccio Musumeci. Con loro il lavoro era sempre una risata. E, in primis, Nino Manfredi. L’intesa è stata immediata. Così immediata che Risi fece un solo ciak con le nostre scene. C’era un affiatamento come se avessimo recitato insieme da sempre. Un altro attore con cui c’è stata una bella intesa professionale è stato Raf Vallone ne La casa della paura (1974) un thriller di William Rose distribuito anche negli Stati Uniti. Com’è bello capirsi al volo! Senti la realizzazione del tuo lavoro quando trovi l’abbraccio recitativo dell’altro. Sono momenti magici. È come se all’improvviso si formasse un fascio di energia che avvolge la scena. Non posso dimenticare nemmeno Elio Pandolfi con cui ho fatto una stagione teatrale di sei mesi con debutto al Teatro Sistina, a Roma. Si intitolava Che Brutta Epoque, per la regia di Mario Landi. I due mostri sacri erano Antonella Steni ed Elio Pandolfi. Poi c’eravamo solo noi: cinque ragazzi, tra cui Massimo Dapporto e la sottoscritta. Senza Pandolfi che mi capiva, mi confortava e mi faceva ridere non avrei sopportato sei mesi in giro per i palcoscenici dei teatri italiani. Sarei fuggita anche a costo di rompere il contratto. Devo però confessare che le intese e le affinità le trovavo più facilmente con gli attori americani. Mi era molto più congeniale affiancarmi ai loro ritmi di recitazione e ai loro tempi. È vero sono un po’ esterofila. Quando ho deciso di smettere di fare cinema sono andata via da Roma e tornata a Palermo. E da quel momento i contatti si sono interrotti. Se mi era rimasta qualche rara amicizia era comunque oltreoceano. Non ho mai sviluppato rapporti sociali nell’ambito della mia professione. Non andavo agli eventi o ai party che ogni tanto venivano organizzati da grandi nomi. Avevo timore di rimanere impelagata in situazioni che non mi sentivo sicura di riuscire a risolvere. Così preferivo non andare da nessuna parte. Uscivo con amici che poco o nulla avevano a che fare con il cinema.

Ad un certo punto avevi capito che il cinema italiano stava cambiando direzione dopo i fasti degli anni ‘60 e ‘70 e che era arrivato per te il momento di abbandonare le scene. Cosa ti ha portato a questa decisione?

È stata una decisione molto sofferta ma necessaria. Avevo sulle spalle diversi anni di cinema e amavo il mio lavoro, ma mi ero resa conto che la direzione che aveva preso non mi era congeniale e non era nelle mie corde. Non ero interessata a mantenere la bellezza con botulini o piccoli interventi. Inoltre, era arrivata una crisi spaventosa. Erano gli anni ‘80 e non c’era più, come prima, abbastanza lavoro per tutti. È stata una crisi che è andata peggiorando negli anni e di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi. Il mio agente, l’ultimo in ordine di tempo, figlio del produttore della famosa Scalera Film, mi comunicò che dopo 40 anni di cinema aveva trovato lavoro come rappresentante di una famosa ditta in Umbria di articoli per neonati. Mi sono sentita professionalmente abbandonata. Ma aveva comunque ragione. Che altro si può fare quando non c’è più lavoro? Mi avviavo verso i 40 anni e non prevedevo un futuro molto roseo. Non solo per me, ma per tutti. Ero al limite del tempo che mi era rimasto per cambiare la mia vita e trovare un lavoro più stabile e tranquillo. Avevo una salute delicata e gli eccessi del cinema, come per esempio fare un bagno in un bacino idrico nella stagione sbagliata, o indossare abiti non consoni alla stagione reale, mi portavano ad avere spesso febbre o bronchiti. Inoltre, ogni volta che andavo all’estero avevo problemi alimentari. Insomma, bisognava cambiare regime.

Dopo il tuo congedo dal cinema hai deciso di tornare a Palermo e di sposarti. Come hai vissuto questa transizione verso una vita più “normale”? Che cosa ti era mancato maggiormente mentre eri via dalla Sicilia?

Più che una transizione, lo definirei un caos epocale. L’uomo che poi ho sposato era il mio compagno dal 1975 e, quando ho iniziato a fare su e giù da Palermo per trovare casa e lavoro, si è sentito mancare il terreno sotto i piedi. Pensava che sistemandomi da un’altra parte prima o poi l’avrei lasciato. Così dopo un po’, risolti i problemi con la mia famiglia, l’ho trascinato a Palermo e l’ho finalmente sposato (come sono andate le cose le ho raccontate nel mio libro autobiografico con maggiori dettagli)! Il lavoro “normale” è stato per me un’esperienza ‘mistica’. È un eufemismo, nel senso che è stata dura. Ho dovuto rinunciare alla creatività lavorativa per affrontare i rapporti classici ‘da ufficio’ che mi erano completamente sconosciuti. È stato molto difficile. Soprattutto cercare di cambiare la mia maniera di essere, per non essere accusata di egocentrismo o altro. Dopo così tanti anni, essermi riappropriata del mio mare e di questo particolare cielo azzurro siciliano mi ha reso molto felice. Erano le cose che mi mancavano di più.

Già da molti anni ti occupi di studi nel campo del paranormale e dei fenomeni psichici, ne hai anche parlato nel tuo ultimo libro, Tre vite in una (Enigma Edizioni, 2020), che recentemente è stato anche tradotto in inglese per il mercato estero. Com’era nata questa tua singolare passione e dove ti hanno portato oggi le tue ricerche?

La passione è nata quando ho visto nel 1973-74, una trasmissione alla TV nazionale su questi argomenti con l’intervento di Uri Geller, un sensitivo israeliano scoperto da uno scienziato americano. Le polemiche suscitate da questa trasmissione nella comunità scientifica, pubblicate successivamente su vari quotidiani nazionali, avevano solleticato la mia curiosità e decisi di scoprire se tutto ciò era una bolla di sapone o se c’era qualcosa di vero. Così, sono partita lancia in resta per incontrare Geller, che nel frattempo si era spostato a Ginevra, in Svizzera, e abbiamo cenato insieme alla fine del suo spettacolo. Seduta al tavolo, insieme ai suoi amici di sempre, ho potuto verificare di persona le sue capacità e osservarne i potenziali meccanismi. In seguito alla suddetta trasmissione, anche alcuni bambini in Italia si sono ritrovati con le stesse capacità. A quel punto, un insieme di circostanze ha fatto sì che avessi l’opportunità di verificare queste capacità di alcuni di loro. Poi, rendendomi conto che su questi argomenti in Italia mancava l’informazione, ho iniziato a scrivere per alcuni giornali. Da lì a fare ricerca per conto mio il passo è stato breve. Ho avuto la soddisfazione di essere invitata a tenere una conferenza a Londra e a Parigi, non per il pubblico ma per i ricercatori scientifici che si occupavano di questi argomenti. Quella sì che è stata una grande emozione. Avrei saputo solo molto più tardi, come tanti, che proprio in quegli anni il governo americano stava addestrando personale militare ad un programma di intelligence-top secret per imparare ad usare le capacità psichiche che, senza saperlo, ogni uomo possiede in forma naturale. Nel 2009 uscì in Italia un film dal titolo L’uomo che fissa le capre, diretto da Grant Heslov, con attori del calibro di George Clooney, Jeff Bridges e Kevin Spacey. Il film è tratto dal libro omonimo, scritto dal reporter Jon Ronson, il quale partito per l’Iraq scopre casualmente che un reparto segreto dell’esercito statunitense si prefigge di utilizzare facoltà paranormali in campo bellico. L’incontro con il comandante, da oltre 20 anni membro del reparto, gli aprirà le porte verso nuove realtà. Il film è tratto da una storia vera ed è una pesante satira nei confronti dell’establishment militare americano che, senza capirci granché, cerca di insegnare ai suoi soldati come usare i poteri psichici contro il nemico. Il film non è andato molto bene in America ma è stato un colossale flop in Italia. Al cinema quell’anno eravamo in 8, inclusi mio marito ed io. E sicuramente ci avranno preso per pazzi perché eravamo gli unici che, avendo seguito negli anni le ricerche e gli sviluppi di queste capacità ESP (Percezioni Extra Sensoriali) nell’uomo, ridevamo a crepapelle sulle gag ed i tentativi dei soldati di sostituire o di aggiungere all’addestramento militare convenzionale delle nuove conoscenze che hanno origine nel campo delle energie sottili.

Chi è oggi Daniela Giordano? Ti prende mai la voglia di tornare a fare cinema e, se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe lavorare?

Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Sono sempre molto curiosa e sono quindi un mix di molte cose che a volte possono sembrare molto distanti una dall’altra. Ma tra queste c’è sempre un filo conduttore, anche se non si vede subito. In questi ultimi tre anni ho coltivato “l’autrice”. Infatti, ho finito adesso un altro libro, sempre autobiografico, che vedrà la luce a breve negli Stati Uniti. Non so se troverò l’editore in Italia. Gli argomenti di cui scrivo sono sempre molto controversi e non molti editori italiani sono al corrente di certe tematiche. Comunque, posso dire con sincerità che mi sento ancora un’attrice, anche se quella parte di me l’ho nascosta in un angolino. Certo, ogni tanto mi prende la voglia di tornare a fare cinema, specialmente quando vedo film e personaggi che mi piacciono. Potendo scegliere, con chi mi piacerebbe lavorare? Che gioco stupendo mi prospetti! Purtroppo, quelli con cui mi sarebbe piaciuto lavorare non ci sono più – come Rutger Hauer, Charlton Heston, Katharine Hepburn, Kirk Douglas, James Coburn, Yul Brinner… Se passiamo invece al presente e dimentichiamo i rimpianti, la prima che mi viene in mente è Judi Dench e poi Maggie Smith, seguite da Kevin Costner e Jim Caviezel. Mi piacerebbe invece essere diretta da Kathryn Bigelow, da David Twohy o da Clint Eastwood. E poi ancora Steven Spielberg e George Lucas. Mi piacerebbe tanto anche fare regia insieme a Chloé Zhao (Nomadland). Con lei un film sul risveglio della coscienza dell’uomo sarebbe bellissimo. E gli italiani? Mah, qualcuno bravo c’è, ma non riesce ad entusiasmarmi. E i generi che sono acclamati in questo periodo non sono quelli che mi piacciono. Sono consapevole: i miei gusti sono abbastanza ‘primitivi’. Non seguivo molto la televisione, ma con tutto quello che ci è capitato a livello nazionale (leggi Covid), a volte mi accade di apprezzare dei prodotti cinematografici passati in TV che ritengo notevoli – come Yellowstone o Il trono di Spade o al limite anche Vera, con la britannica Brenda Blethyn. Altre volte capita invece che, passando da un canale all’altro, trovi casualmente un bravo regista in alcune fiction italiane in TV. Non avrei mai pensato che ciò potesse accadere!

Un’ultima domanda. Qual è il tuo punto di vista sul panorama cinematografico, italiano e siciliano, attuale? Avresti degli appunti, anche critici, da fare in proposito?

Quando sono ritornata a Palermo, prima di trovare un nuovo lavoro, mi domandavo cosa potevo fare in quest’Isola. Conoscevo l’inglese, il cinema e la Sicilia. Così, nella mia ingenuità, m’inventai un nuovo lavoro: promuovere cinematograficamente la Sicilia all’estero. Erano gli anni ’80 e c’era un sito americano in inglese dove potevano accedere tutti quelli che lavoravano nel settore. Anche le case cinematografiche che avevano qualche esigenza di produzione usavano quel sito. Se cercavano location per i loro film, scrivevo loro promuovendo la Sicilia e le mie competenze come guida. Pian piano però scoprii tutti i problemi legati a questo lavoro. Se, per esempio, una casa di produzione che desiderava girare qui in Sicilia aveva bisogno di attrezzature tecniche per le riprese (come un semplice gruppo di continuità) o altro, aveva all’epoca un solo interlocutore – che richiedeva costi esosi e non convenienti per delle medie produzioni provenienti dagli Stati Uniti o anche da Roma. Inoltre, affacciato da un balcone (forse per motivi “domiciliari”), sceglieva maestranze, figurazioni speciali e comparse che imponeva quindi alla produzione. Per fortuna, trovai un altro lavoro!
Amo molto la creatività: quella che s’inventano i registi quando producono buoni film senza un plafond sufficiente – come Duel del 1971 di Spielberg, il suo primo lungometraggio. Questo è quello che mi piacerebbe vedere nel cinema italiano: idee creative. Siamo invece pieni di thriller, violenza, rapine, horror e tradimenti. Purtroppo, da diversi anni ormai, quelli che incassano di più sono film con sesso e violenza. Deviando così, secondo me, la crescita morale dei giovani d’oggi. E non considero questa retorica. Faccio fatica a trovare oggi un film che mi attiri. Non si trovano facilmente nella panoramica italiana film come Volevo Nascondermi, di Giorgio Diritti, sul pittore Antonio Ligabue, vincitore del Nastro d’Argento 2020 e il David di Donatello 2021 – anche se vederlo mi ha fatto soffrire. Non sono queste le emozioni che vorrei aver stimolate da un film. Soffriamo già abbastanza così. In anni recenti, invece, sarà l’età, ma soffro di invidia. Sì, invidia nei confronti della Puglia che ha saputo unire cinema e turismo e che, con la loro strategia vincente, stanno richiamando anche il cinema internazionale. Chapeau quindi alla Film Commission pugliese e al suo Presidente della Regione. In Sicilia, invece, siamo in po’ in ritardo. Al di là dei bravi registi che abbiamo e che raccontano la Sicilia, quella storica, quella della mafia e quella delle aspirazioni represse, non ci sono ancora tutte le competenze necessarie per velocizzare “questa barca” un po’ traforata. Pochissimi attori, attrici, maestranze o registi conoscono l’inglese e che potrebbero essere di supporto a produzioni straniere. Esiste un sito dove le Film Commissions di ogni regione italiana richiedono attori/attrici per film o fiction TV in produzione. Perché è così raro vedere le richieste della Film Commission siciliana? Abbiamo un potenziale enorme e non si riesce ad offrirlo con competenza. Raccontiamo la Sicilia che vorremmo, non quella che avevamo, non quella dei fatti di cronaca o quella che abbiamo. Usciamo dagli stereotipi cinematografici scegliendo altre facce, altre storie e offriamo emozioni diverse! Fantascienza? Forse. Non ci servono solo le produzioni italiane, ci servono anche quelle europee e quelle al di là dell’oceano. Perché la Germania va a girare gli esterni di un suo film in Almeria e non in Sicilia? Tutto quello che c’è lì, lo abbiamo anche qui! Ricordo che molti anni fa ci fu quasi un sovraffollamento di produzioni straniere a Budapest, in Ungheria. Cos’era successo? Avevano costruito dei mega stabilimenti cinematografici che poi offrivano a bassissimo costo. È partita così la loro fortuna con il cinema internazionale. È vero, i tempi sono cambiati, ma non per questo si deve mollare lo slancio che è in noi.

 

Daniela Giordano insieme alla redattrice di ASCinema Manuela Giordano all’Hotel Zagarella di Palermo (7 luglio 2022)