VINCENZO BELLINI, “DIVO” CINEMATOGRAFICO

Nel quadro del programma del “Bellini International Context” si è svolta a Catania (Palazzo della Cultura, la mostra “Bellini al Cinema” (9,10, 11 settembre 2022), a cura di Ninni Panzera – manifesti, fotobuste, flyer, locandine, foto di scena – delle monografie cinematografiche dedicate al “Cigno di Catania” e dei film opera tratti dalle sue composizioni. Alla mostra è stata abbinata anche una breve retrospettiva di sei film: Norma (1911), Casta Diva (1935) regia di Carmine Gallone, The Divine Spark (1935) sempre di Gallone, La Sonnambula (1952), Casta Diva (1954) e Casa Ricordi (1954) ancora di Carmine Gallone.

Pubblichiamo il breve saggio di Franco La Magna, che accompagna il catalogo della mostra.
Una presenza “carsica” che risplende o balugina fino a dissolversi del tutto per riapparire accecante, a volte ecletticamente ma costantemente, lungo l’ormai ultracentenario e avventuroso cammino del cinema mondiale. Grande evangelista dell’italico melodramma, il catanese Vincenzo Bellini o meglio l’immortale creazione della sua “lenta, rara, insolitamente meditata ed accurata” (Mila) produzione operistica, non impiega molto a stregare e catturare anche la neonata settima arte, il cinema, che da subito spregiudicata, già dai primi anni del secolo scorso, ne saccheggia titoli e arie, in pratica senza più abbandonarlo, anzi vieppiù diffondendolo fino all’agognata mecca hollywoodiana. Senza esondare, Bellini vive sul grande schermo un’esistenza in principio geograficamente circoscritta divenuta man mano planetaria, pendant dell’eterna fama raggiunta dai pochi geni “cari agli dei”, stroncati nel pieno degli anni e consacrati al mito.

All’inizio del XX secolo mentre il genere peplo (storico-mitologico), magniloquente e spettacolare, colloca momentaneamente l’Italia al vertice dell’imperialismo cinematografico mondiale, due sono gli eponimi che danno origine alla “filmografia belliniana” seppure, questi primi titoli, fuori dal conforto d’un paternità attribuita dalle rare fonti d’epoca. Nessun esplicito riferimento al biondo compositore etneo appare, infatti, in due film degli anni ’10, nel kolossal Beatrice di Tenda, che il librettista Felice Romani ha tratto dalla tragedia di Carlo Tedaldi Fores e ancora nell’esotico Zaira, sempre da Romani adattato da Voltaire, irrimediabilmente perduti (come gran parte della produzione muta) e dei quali restano ignote perfino le regie. Prontuari in tandem di passioni estreme, eterni e già stucchevoli stereotipi, transcodificati in immagini per sedurre e stordire l’ingenuo pubblico dei primordi. Ancora un binomio, ma stavolta inoppugnabilmente belliniano come recitano i flani pubblicitari del tempo, segue appena l’anno successivo con un primo Norma (Episodio della Gallia sotto il dominio di Roma Imperiale, 1911) di Romolo Bacchini e un contestuale La Norma (v. testo a parte). La stessa osannata tragedia lirica diviene oggetto, nel 2005, del secondo film-opera belliniano prodotto fino ad oggi, un teatrale Norma del russo-armeno Boris Airapetian. Proiettato al cinema Trevi di Roma durante il Festival del Cinema russo del 2006, organizzato dal Centro Sperimentale di Cinematografia-Scuola Nazionale di Cinema, forse a tratti viziato da eccessivo naturalismo e da contemplazioni estetizzanti, la Norma di Airapetian, pervasa di violenza e ascesi mistica, compendia i pregi maggiori nell’intenso uso dei primissimi piani spesso abbinati a furiosi elementi atmosferici psicologicamente usati, insieme al cromatismo, come pendant al subbuglio dei sentimenti dei protagonisti. Impeccabile l’esecuzione degli interpreti. Filologicamente corretto, con qualche bella invenzione visiva (la falce con la quale Norma recide il vischio, oggi in teatro raramente rappresentata, che s’invola in cielo trasformandosi nell’astro lunare durante l’esecuzione di Casta Diva), il film di Ayrapetyan esalta tutta la drammaticità dell’opera belliniana, con vere e proprie punte d’eccellenza linguistica (la fine del primo atto, la fine dell’opera) e una mise en scéne complessiva molto suggestiva.

Tornando agli anni del muto, quando in Europa già infuria la Prima guerra mondiale, ecco curiosamente apparire in contemporanea due film tratti dalla celeberrima canzone napoletana Fenesta ca lucive (la cui attribuzione a Bellini resta incerta; il brano, infatti, non è mai citato da Francesco Florimo, intimo amico e primo biografo di Bellini). In Fenesta ca lucive (1914) di Roberto Troncone e Addio mia bella addio, l’amata se ne va (1914) di Gian Luigi Giannini (furbescamente ripescato nel 1925) la mesta canzone, attribuita a Rossini secondo alcune fonti, a Bellini secondo altre, ne diviene appunto fonte d’ispirazione, per poi spandere la sua mesta melodia anche ne Gli amanti di Ravello (1951) di Francesco De Robertis, nei pasoliniani Accattone (1961), Decameron e Racconti di Canterbury e perfino nel francese Mélo (1986) di Alain Resnais.

Al “Cigno” di Catania va la palma della primogenitura musicale cinematografica nazionale per un’aria di “Norma” – che echeggia malamente nel primo film sonoro italiano (tale considerato, in realtà Resurrectio di Blasetti fu prodotto prima ed editato dopo) – La canzone dell’amore (1930) di Gennaro Righelli, lagnosa esaltazione della piccola borghesia, molto liberamente tratto da un accomodante Pirandello, uscito simultaneamente alla scoperta hollywoodiana del compositore etneo avvenuta con il biografico A Lady’s Morals (Jenny Lind una pagina d’amore) di Sidney Frankilin e Romance di Clarence Brown, interprete la “divina” Greta Garbo, entrambi dunque del 1930.

Sulla scia dell’asse cinematografico nazifascista, nel centenario della morte (1935), la prima, fumossissima, biografia romanzata del “Cigno di Catania” irrompe fragorosamente sullo schermo con Casta Diva (Coppa Mussolini alla Mostra del Cinema di Venezia) del veterano Carmine Gallone (vedi testo a parte). Presentato con lo slogan “il primo film sonoro cantato e parlato al 100 per cento” La canzone dell’amore, quasi totalmente girato in studio, non esistendo ancora il missaggio, fa uso di registrazioni dal vero (apprezzatissimi in sala il rumore del treno e il pianto del neonato) e alla fine lo stesso Pirandello, dalla cui novella è tratto, non mancherà di spendere parole di lode per il grado di maturità tecnica raggiunto e lo per stesso Gennaro Righelli, esperto metteur en scène già attivissimo fin dagli anni ‘10.

Nel 1940 esce nelle sale uno svolazzante Troppo tardi t’ho conosciuta, unica regia dello sfortunato Emanuele Caracciolo (fucilato alle Fosse Ardeatine). Il film è interpretato da Franco Lo Giudice, nato a Paternò (CT), uno dei massimi tenori del tempo, chiamato a celebrare le “autarchiche” celebrazioni del centenari della morte dei Bellini. Ritenuto smarrito fino al 2003, è stato ritrovato in una cantina di Cuneo in buone condizioni. Singolarità e sicilianità fanno tuttavia di questo filmetto un ritrovamento da non sottovalutare, a partire dalla dichiarata musicalità del titolo ripreso da una celeberrima aria della “Norma” di Bellini. Il film, prodotto dall’Anonima Cinematografica Impero di Milano e presentato per la prima volta al pubblico l’11 novembre 1940, è tratto dalla commedia Il divo tre atti di Nino Martoglio, eclettico scrittore-regista-drammaturgo di Belpasso (al suo attivo tre o, secondo altre fonti, quattro regie cinematografiche, tra cui il mitico Sperduti nel buio, 1914) e si snoda su un registro narrativo mantenuto su toni leggeri, come vuole in fondo l’autore letterario. Andata smarrita (senza troppi rimpianti) una seconda, non meno immaginifica, biografia cinematografica belliniana, La sonnambula, 1942, di Pietro Ballerini, circa vent’anni dopo il primo Casta Diva nel 1954 Gallone ne gira a colori un autoremake, aggiungendo nel coevo Casa Ricordi, una pluribiografia che passa in rassegna momenti di vita dei più noti musicisti italiani dell’ottocento, l’episodio della morte del musicista etneo (sui tre film v. testo a parte).

L’evolversi dell’uso estetico-espressivo della musica nel cinema spinge le note del “Cigno” – ove si trascuri l’impressionante iterazione e l’impiego semanticamente stucchevole della celeberrima Casta Diva – su territori sempre più audaci e diversificati di una serie i film girati tra gli anni ’40 e ‘50: “psicanalitico” in Fascino (1942) di Giacinto Solìto, in vari modi nella messe dei film dei “telefoni bianchi” (La donna è mobile e Voglio vivere così, entrambi di Mario Mattoli) o in quelli musicali (Sarasate, I pagliacci, Follie per l’opera, Il carnevale di Venezia, Il barbiere di Siviglia, Musica proibita) o ancora nelle biografie dei grandi interpreti (Maria Malibran, La Malibran, Gayarre). Bellini diventa addirittura “antifascista” nell’amarissimo Anni difficili (1947) di Zampa, tratto dal racconto Il vecchio con gli stivali di Vitaliano Brancati, con cui lo scrittore siciliano beffeggia l’ignoranza dei ras fascisti o “patriottico” (in Romanticismo, 1951, di Fracassi, drammone amoroso tratto da un racconto di Gerolamo Rovetta), “eroico” (in Fortunella, 1958, di Eduardo De Filippo, con Giulietta Masina), “patetico” (nel surreale e poetico Un ettaro di cielo, 1958, di Casadio) e perfino “horror” (in Opera, 1986, di Argento, dove la Casta Diva riesce a creare un’atmosfera sospesa). Un notissimo brano belliniano usato in forma celebrativa e prolettica (cioè anticipatrice) è presente in La terra trema di Visconti, girato ad Acitrezza nel 1947, insuperato capolavoro del neorealismo d’un Visconti innamorato del melodramma e di Bellini. Durante la sequenza della salatura delle acciughe, lo zio Nunzio con il flauto suona arie belliniane e il maresciallo del paese, passato a salutare le lavoratrici, sottolinea stentoreo: “Bella musica, musica di Bellini”. A cimentarsi in un film belliniano sarà anche Giuseppe Di Martino, poi direttore della Scuola di recitazione del teatro Stabile di Catania, che nel un film, L’amore di Norma (sua unica sfortunata regia), proiettato a Catania con tenitura di soli tre giorni, vagamente ispirato all’opera lirica, immette immortali romanze di Bellini e Donizetti.

Anche Umberto D (1952) di Vittorio De Sica (e Zavattini), canto del cigno del neorealismo ricorre a Bellini sempre in forma prolettica, mentre ben tre film tutti del 1958, Vento di primavera, I sogni muoiono all’alba e il già citato Fortunella includono anch’essi brani del “Cigno”, come lo scombinato Anema e core (1951) di Mario Mattoli. Lo spagnolo Gayarre (1959, grande tenore ottocentesco) regia di Domingo Viladomat, non dimentica il “Cigno”, mentre in omaggio alla Sicilia, ma attribuendo a Bellini quel ruolo di musicista risorgimentale che molto più avrebbe rivestito se la morte non l’avesse colto così prematuramente, l’aria Vi ravviso, o luoghi ameni da La Sonnambula – introdotta da un ponte sonoro (si ascolta già alla fine della sequenza precedente) – modula il generale amico di Tancredi (Giuliano Gemma), nel grandioso e decadente Il Gattopardo (1963) regia di Luchino Visconti tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, maestoso affresco storico attraverso cui Visconti affronta gli ancora irrisolti temi del penoso e contorto processo unitario nazionale, insieme al malinconico tracollo dell’antica aristocrazia legittimista di fronte all’ascesa di un nuovo, spregiudicato e corrotto, ceto politico dirigente nato dal compromesso e già affetto da inguaribile tartuferai.

Cult-movie mafiologico, tratto da un romanzo del magistrato palermitano Giuseppe Guido Lo Schiavo (presidente della Corte di Cassazione, autore d’uno scandaloso ed encomiastico necrologio sul patriarca mafioso don Calogero Vizzini, capo riconosciuto della cupola), In nome della legge (1949) di Pietro Germi è una delle prime opere cinematografiche che innalza Bellini a nume tutelare dell’amore infelice o irrealizzato ed altresì a mallevadore della siderale moralità del protagonista (come ne Il prefetto di ferro, 1977, di Squitieri). “Casta Diva”, sempre in forma di prolessi, si ode suonata al piano per anticipare l’impossibile amore tra il giovane pretore e un’infelice baronessa succube del dispotico marito, colluso con la mafia. La presenza diegetica o extradiegetica dei suoi brani – parallelismo geografico a parte (nel Il cammino della speranza di Germi si limita ad indicare la provenienza dei personaggi) – prefigura dunque col sonoro la mesta conclusione d’un amore impossibile, divenendo quest’uso una delle cifre estetiche e narrative più caratterizzanti di molti film d’autore: dagli anni ’50 con Umberto D (1952) di Vittorio De Sica, a Il sole negli occhi (1953) di Pietrangeli, a Ripudiata (1954) di Chili, ai successivi anni ’60, ’70 e ’80, da Il posto (1961) di Ermanno Olmi, a Un bellissimo novembre (1969) di Mauro Bolognini tratto dal romanzo omonimo di Ercole Patti, da Raphael ou le débauché (1971) di Deville (maestro francese dell’erotismo), Adèle H (1975) di Francois Truffaut, San Michel aveva un gallo (1976, ma prodotto nel 1972) regia di Paolo e Vittorio Taviani, Oblomov (1979) di Michalkov (tutto percorso da un continuo ricorso a Casta Diva, in una perfetta resa estetica) ad Atlantic City USA (1980) di Louis Malle, La famiglia (1986) di Ettore Scola, The Dead-Gente di Dublino (1987) di John Huston, religioso finale di una ateo, fino agli anni ’90 e 2000 con Storia di una capinera (1993) di Franco Zeffirelli, dal romanzo di Giovanni Verga, Un colpo al cuore (1998 ) e Porte aperte (1989) di Gianni Amelio, Morti di salute (1994) di Alan Parker, I ponti di Madison County di Clint Eastwood (1995), Brother (2000) di Takeshi Kitano, In the Mood for Love, 2046 (2004) di Wong Kar Wai, Callas Forever (2002) di Franco Zeffirelli, Le seduttrici (2006) di Mike Baker tratto da Oscar Wilde (sofisticatissima scelta di due rare incisioni d’epoca, sorprendentemente non ricordate nei titoli di coda), Noi credevamo (2011) di Mario Martone, The Iron Lady (2011) di Phyllida Lloyd, con Meryl Streep, Tutta colpa della musica (2011) di Ricky Tognazzi, La scomparsa di Patò (2012) di Rocco Mortelliti, dal romanzo omonimo di Andrea Camilleri, i cartoni animati Le straordinarie avventure di Jules Verne (2013) regia di Enrico Paolantonio e L’arca di Noè (2012), fino al francese Marguerite (2015) di Xaver Giannoli, incredibile storia della ricca Florenz Foster Jenkins, stonata come una campana fessa e, ancora tra i più recenti, Lazzaro Felice (2018) regia di Alba Rowacher.

In conclusione, dunque, suddivisi in film biografici, film muti, anche con possibili attinenze con la produzione del Catanese , film che fanno uso di brani tratti dalle opere o ispirati a composizioni di Bellini e film opera, tutti i film che utilizzano brani belliniani appaiono spesso fortemente indicativi di un genere (il melodramma) e di un uso espressivo ed estetico della musica nel contesto dell’opera cinematografica che va da un impiego prolettico (quindi come anticipazione d’un amore infelice o irrealizzato), ad uno narrativo ossia caratteriale dei personaggi, fino ad usi più eclettici, psicanalitici, satirici, comici, patetici, eroici, grotteschi, horror, ecc… Esiti talvolta clamorosi ma non raramente semanticamente stucchevoli e privi di originalità, in particolare laddove si consideri l’iterazione davvero impressionante di Casta Diva, celeberrima e dolcissima aria di Norma, contenuta almeno nella metà dei film citati. Da non scordare poi che la figura di Bellini è stata anche trattata in una non ricchissima, per quanto consistente, videografia (opere liriche, brani, balletti, opere di fiction e ancora documentari trasmessi e/o prodotti dal piccolo schermo) che, tuttavia, completano un apparato di informazioni imprescindibile dall’incombente e ingombrante presenza della televisione, ormai invadente totem mediale dell’età contemporanea. Una filmografia, come è stato detto non raramente d’autore, che ha contribuito ad accrescere nel mondo la fama ormai immortale del “Cigno” catanese, il maggior ambasciatore culturale al mondo della città etnea e verso cui noi catanesi in particolare abbiamo tutti un debito di riconoscenza.

 

Una foto di scena di Casta Diva (1935) di Carmine Gallone, con Sandro Palmieri nel ruolo di Vincenzo Bellini.

 

Affiche francese di Casta Diva (1954) diretto ancora da Carmine Gallone, con Maurice Ronet nei panni del musicista etneo.