METROPOLIS (1927). QUANTO ADERISCE ALLA REALTÀ IL FUTURO DISTOPICO DI FRITZ LANG?

Capolavoro del cinema fantascientifico e la sua profonda attualità di significati. Metropolis (1927), film muto diretto da Fritz Lang, è un monumento indiscusso del cinema mondiale di tutti i tempi il cui fascino, interesse per le tematiche trattate e bellezza artistica valica le mode ed i confini nazionali.

    Definirlo come un’opera tra le più raffinate nonché rappresentative dell’espressionismo tedesco rappresenta una restrizione di campo poiché è tra quei film che non solo incarnano in pieno i contenuti artistici ed espressivi dell’avanguardia da cui provengono ma, contemporaneamente, li superano aprendo dei varchi significativi per intere future generazioni di cineasti. La sua storia è intimamente legata alla Germania della Repubblica di Weimar, un momento storico rilevante per il Paese che cercava di risollevarsi dall’amara sconfitta della Grande Guerra, rinsaldando i suoi valori civili, nazionali oltre che il suo importante spessore culturale; la fama di Metropolis, tuttavia, bisogna collegarla al grande spessore artistico di Fritz Lang che, proprio con questo film, confermò le sue eccezionali doti di maestro della settima arte di ampio respiro internazionale riuscendo a valicare in confini europei ed aprendosi una strada, importante per la sua carriera ma anche per la sua vita privata, anche negli USA.

    Austriaco di nascita, tedesco d’adozione, Lang ebbe la fortuna di lavorare in una Germania ricca di fermenti culturali con un governo che non metteva grossi limiti alla libertà d’espressione di artisti ed intellettuali. Qui, però, una prima delusione la ricevette dalla Decla Film per la quale aveva anche scritto la sceneggiatura de Il gabinetto del dottor Caligari (1920) sperando che gli fosse affidata anche la sua regia che, invece, andò a Robert Wiene. Lang decise, pertanto, di cercare una strada alternativa presso la May-Film GmbH, casa di produzione che lo fece incontrare con la sceneggiatrice ed attrice tedesca Thea von Harbou, la donna che sposò e con la quale condivise il suo primo importante successo cinematografico segnato proprio con la scrittura e la direzione di Metropolis.

    La gestazione del film, che ebbe la sua prima assoluta il 10 gennaio 1927 all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino, ha una storia singolare legata soprattutto ad un viaggio che lo stesso Lang compì a New York in occasione della prima americana del suo film I Nibelunghi – La morte di Sigfrido (1924): il regista rimase colpito dallo skyline di New York trovandovi importanti elementi d’ispirazione per quella che sarebbe poi stata la sua Metropolis per la cui realizzazione importanti furono le ingenti somme di denaro che Eric Pommer e la casa di produzione UFA decisero di mettergli a disposizione. Il film impegnò la troupe per diciannove mesi di lavorazione con la complessità delle riprese notturne, importanti per la resa futuristica del film, oltre alla grande mole di comparse, ben 36.000 persone.

    Approcciabile al genere fantascientifico oltre che drammatico, la sua trama si snoda proprio come se fosse un’opera lirica con un prologo in cui è compresa una buona parte del film, un intermezzo abbastanza breve ed un furioso in cui si concretizza il finale. La riscoperta di questo film la si deve anche al rinvenimento, nel 2008, a Buenos Aires, in Argentina, di una sua versione quasi completa in possesso di un collezionista privato che permise di colmare delle lacune sulle pellicole molto evidenti nelle versioni tagliate che da tanti anni circolavano. La sua trama è particolarmente articolata ma tanto ricca di suggestioni oltre che presagi in cui è possibile individuare, oltre alla critica del sistema di produzione capitalista e della società borghese, anche le possibili conseguenze, nefaste, di un cattivo uso della tecnologia e, più in particolare, della robotica per finalità distruttive molto pericolose per la sopravvivenza dell’umanità intera.

    Elemento centrale per la comprensione di Metropolis, città del 2026, collocata, non a caso, ad una distanza temporale di un secolo rispetto all’anno di lavorazione del film (il 1926), è la sua essenza manichea che si snoda nella forte contrapposizione tra il “regno” della luce e quello delle ombre che si annida nel suo sottosuolo: nel primo vivono i borghesi, capitalisti, amanti del piacere e del “bello”, un luogo ameno fatto di immensi grattacieli, di macchine, aerei e con uno stadio in cui giovani avvenenti ed in salute praticano sport e vivono in serenità. Una perfezione a cui fa da contraltare il mondo sotterraneo in cui un grande esercito di operai schiavizzati, ridotti alla stregua di automi, lavorano incessantemente per alimentare proprio quell’universo luminoso a cui non potranno mai accedere.

    Possesso, potere, fama, ricchezza, bellezza: sono questi i valori sui quali si poggia Metropolis, la città-stato dentro la quale svetta imponente la torre in cui il suo “signore”, Johann (Joh) Fredersen (Alfred Abel), la governa e la domina col suo potere assoluto. La Metropolis di Fredersen è il mondo in cui logica del profitto è portata alle sue estreme conseguenze, in cui non viene minimamente contemplato il valore dei sentimenti, dei legami e degli affetti. In quel posto l’unica religione che è rimasta è quella della matematica e dei calcoli, delle regole perfette e scientificamente provate che donano senso alla sua stessa esistenza propria di un mondo dei “vivi” che, però, poggia le sue radici sul “buio” di un vasto universo sotterraneo. Ma si scopre presto che anche gli operai hanno un’anima e viene fuori all’interno di un piccolo anfiteatro, un luogo sacro dominato da una croce messa al centro di un altare in cui una luce speciale infonde calore all’aria fredda di quel posto dimenticato dal mondo. Il cuore di questo tempio nascosto, però, risiede negli occhi della sua sacerdotessa, Maria (Brigitte Helm), dalle sue labbra fuoriescono parole di conforto ma anche l’invito ad un riscatto per tutti gli operai che stanno a sentirla e che si esplica nel suo racconto della storia della Torre di Babele, un passaggio molto noto della Bibbia, a cui la donna richiama alla riflessione da parte di tutti gli uomini presenti, prostrati ai suoi piedi in segno di devozione – un importante parallelo in un poema sumerico più antico, Enmerkar e il signore di Aratta, e nel Libro dei Giubilei -. Tra costoro, però, si nasconde un uomo, Frederer Fredersen (Gustav Fröhlich), il figlio del “signore” di Metropolis, arrivato in quel posto mosso dalla voglia di conoscere quel mondo sotterraneo, che alla vista di Maria se ne innamora perdutamente. Al sentimento d’amore che lega sin da subito i due giovani cerca di contrapporsi la cattiveria di Joh Fredersen che ricorre all’aiuto dell’inventore che ha costruito tutte le macchine che governano Metropolis, C. A. Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), un uomo dalle sembianze mostruose, emblema dello scienziato pazzo, che vive in una casa isolata. Costui mostra al suo capo la sua ultima invenzione, un robot dall’aspetto femminile capace di prendere le sembianze complete di una vera donna in carne ed ossa. Da qui la trama si arricchisce di dettagli da sfondo ai quali appare chiaro l’intendo di Joh Fredersen di disfarsi di Maria pur consapevole di far del male a suo figlio. Ma non riuscirà a portare a termine il suo progetto diabolico ed alla fine colui che avrà la sua vittoria finale sarà il l’amore.

    Centrale per la comprensione di Metropolis l’aforisma, vero fil rouge di tutta l’opera: “Il mediatore fra la mente e le braccia deve essere il cuore”. Una frase che nella sua semplicità e sintesi incarna l’orizzonte che gli uomini non dovrebbero mai perdere di vista se vogliono che l’umanità intera non si avvii verso un processo di autodistruzione dovuto a guerre e pestilenze. In fondo, la bellezza eterna di un monumento qual è quello che Lang ha lasciato ai posteri non si ritrova solo nei suoi complicati effetti visivi, nella perfetta geometria delle forme e nella estrema bellezza armonica tra le sue singole parti ma soprattutto nel suo messaggio di amore e fratellanza, gli unici antidoti che ci possono salvare dalle conseguenze deleterie del materialismo e del capitalismo estremi.

    Da sottolineare la grande prova d’interpretazione di colei che rappresenta il faro luminoso di tutto il film, Brigitte Helm, che qualche anno dopo l’uscita di Metropolis ebbe modo di confermare la sua bravura come attrice di fama internazionale con La mandragora (1928) di Henrik Galeen, altro importante capolavoro del cinema espressionista tedesco.

    Oggi Metropolis è riconosciuto come il modello del filone Sci-Fi moderno così come importante fonte d’ispirazione è stato per capolavori del calibro di Blade Runner (1982) di Ridley Scott e Guerre stellari, la saga fortunata ideata da George Lucas ed iniziata nel 1977. È un film che piacque molto allo stesso Adolf Hitler nonostante le origini ebraiche di Lang ed il suo rifiuto ad aderire nazismo (al contrario della moglie Thea) con la conseguente scelta volontaria dell’esilio dapprima in Francia e poi in America.

    Lang aveva inteso le future mosse del Führer, ma quest’intuizione non lo corruppe. Lang gli preferì la fresca libertà d’artista, scartando anzitempo il giogo brutale dell’autocrazia totalitarista.

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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