IL GABINETTO DELLE FIGURE DI CERA (1924). L’AMORE COME ANTITODO ALLA PAURA DELLA MORTE

Un viaggio nell’intrigante ed originale capolavoro dell’espressionismo tedesco targato Paul Leni. Cinque sono gli anni che separano l’uscita de Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Dr. Caligari) (1919) di Robert Wiene da Il gabinetto delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett) (1924) di Paul Leni. In entrambi i casi siamo di fronte a due tra i più importanti manifesti dell’espressionismo tedesco, capolavori del cinema muto che hanno donato un grosso contributo al suo sviluppo non solo da un punto di vista contenutistico ma soprattutto tecnico ed espressivo.

    Questa volta alla stupefacente genialità di Wiene, molto abile nell’essere riuscito a creare una realtà parallela a quella dove siamo soliti vivere, in cui all’equilibrio ed alla simmetria delle singole parti si è sostituito un universo cuneiforme fatto di corpi, umani ed architettonici, esageratamente deformati e fuori da ogni logica razionale sia degli spazi ma, soprattutto, delle menti dei protagonisti. Leni, con la sua opera, l’ultima appartenente alla sua stagione tedesca, va ben oltre il limite tracciato dal suo connazionale, intessendo la trama del film come una sorta di racconto medievale; un intreccio molto originale considerando che il cinema era ancora ai suoi primi anni e, per l’appunto, un’arte fortemente in fieri, ma la sceneggiatura affidata a due nomi già famosi all’interno dell’avanguardia tedesca quali quelli di Leo Birinski ed Henrik Galeen già lasciava presagire che si sarebbe trattata di un’opera che avrebbe destato molto clamore non solo nella Germania della Repubblica di Weimar ma capace di competere, per l’appunto, con il Caligari di Wiene.

    La sua storia si sviluppa a partire da un racconto principale che fa da cornice alla trama e a cui si inseriscono altri racconti, dotati di una loro autonomia narrativa ma, al contempo, interconnessi da un sottile filo che fa sì che risultino importanti per l’economia di tutto il narrato. Un’operazione intricata quella che Leni ideò per Il gabinetto delle figure di cera, abbastanza difficile sia per la resa tecnica del film ma soprattutto per i costi richiesti per la sua realizzazione. Fu lo stesso regista a creare le complesse scenografie, fondamentali per la resa bizzarra e esageratamente irreale del film, coadiuvato da un abilissimo Alfred Junge, ma un particolare, non meno importante, riguardò anche il cast che il regista scelse per l’occasione, il gotha tra i migliori attori tedeschi, simboli della rinascita culturale della di Weimar. E, infatti, non poterono mancare le grandi star come Emil Jannings, Werner Krauss, Wilhelm Dieterle, Olga Belajeff, John Gottowt, Paul Biensfeldt, Werner Krauss ed, ovviamente, il “Cesare” di Caligari, una vera stella del cinema muto quale fu Conrad Veidt.

    Intento di Leni era quello di riunire all’interno di un unico film gli elementi fondamentali su cui si poggiava quella che per certi aspetti rappresentava la “rivoluzione” che l’espressionismo aveva portato avanti nell’arco di pochi anni: la concezione di un tempo puramente relativo, in cui passato e futuro erano due categorie della mente umana capace di vivere come sospesa in una bolla di cristallo un presente continuo in cui la razionalità cede il posto alla magia, all’occultismo, ove l’uomo scopre le sue fragilità mentali sperimentando quanto la pazzia non sia più una condizione patologica ma un universo parallelo in cui poter rifugiarsi dinnanzi all’impossibilità di trovare un senso al reale. Un progetto non folle ma ambizioso quello del regista che ricevette un cospicuo finanziamento da parte dello Stato. Tuttavia le risorse economiche non bastarono a Leni per completare il suo progetto originario che constava di quattro storie così come quattro sono le statue di cera che compaiono nei primissimi fotogrammi del film: il ladro di Baghdad, Ivan il Terribile, Jack lo Squartatore e il mago Rinaldo Rinaldini. I problemi legati al costo particolarmente lievitato nel corso della lavorazione ha costretto Leni a eliminare la parte riguardante proprio la storia del mago italiano. Tuttavia la riuscita dell’opera non fu compromessa né risultò monca di una sua parte anche perché già con le tre storie presenti si riesce bene a rappresentare un’acuta escalation di emozioni e condizioni della mente umana, di certo proprie di chi vive in una dimensione alterata.

    La storia-cornice vede come protagonista un giovane poeta (Wilhelm Dieterle) che, rispondendo all’inserzione letta in un giornale, si reca in una fiera presso un laboratorio ove il proprietario (John Gottowt), coadiuvato dalla bella figlia, Eva (Olga Belajeff), vuole che per ogni statua di cera ivi esposta si crei una storia. All’uomo non rimane altro che sedersi in uno studiolo attiguo al laboratorio, non indifferente al fascino della giovane ragazza che lo accompagna alla stesura dei suoi racconti. E, così, si sviluppa la prima storia dall’evidente richiamo ai racconti arabi delle Mille e una notte dal tono proprio di una favola dal sapore esotico. Siamo, non a caso, a Baghdad, e protagonista è il califfo, Harun Al-Rashid (Emil Jannings), goffo personaggio riccamente adornato di collane e monili; a lui, però, appartiene anche un oggetto di particolare pregio per via dei suoi poteri magici, l’ “anello dei desideri” a cui non sta indifferente un fornaio (Wilhelm Dieterle) che decide di intrufolarsi nel palazzo del ricco signore per rubare il prezioso gioiello ed accontentare le richieste della giovane moglie (Olga Belajef), vogliosa ed insoddisfatta ma ignara di essere a sua volta l’oggetto dei desideri dello stesso sceicco. Il finale si concretizza con un divertente triangolo in cui tutti e tre i protagonisti potranno godere della fortuna favorevole seppur per diversi motivi.

    Tinte oscure e prossime al macabro si respirano, invece, nel secondo racconto ove il protagonista indiscusso è lo zar Ivan il Terribile (Conrad Veidt), personaggio emblematico e crudele, fortemente ossessionato così tanto dalla morte fino a divenire pazzo. In questo racconto le emozioni predominanti sono la paura impersonificata sia dallo stesso zar ma anche da una clessidra che, segnando lo scorrere dal tempo che separa le sue vittime dalla vita alla morte, alla fine diventerà la sua stessa condanna. Non vi può essere un lieto fine dinnanzi ad un uomo così perdutamente dannato dalla sua stessa cattiveria motivata da cause irrazionali seppure uno spiraglio di luce si intravede nella sorte di due giovani sposi salvati dalla morte proprio dalla follia dello zar. Un non senso, forse, che dà un significato alla triste storia.

    Il terzo racconto vede come protagonista il famigerato Jack lo Squartatore (Werner Krau), il serial killer che impersona il livello più alto di terrore che un uomo può provare. Qui si raggiunge anche la soglia maggiore di astrazione in quanto tutto il racconto si risolve in pochi minuti all’interno di uno spazio ampiamente rarefatto, onirico in cui il poeta (Wilhelm Dieterle), autore dei racconti della cornice iniziale, si ritrova come in una condizione di trans, braccato dal serial killer che lo insegue mentre lui è intento a fuggire cercando di salvare la sua vita e quella di Eva (Olga Belajef), la donna da lui amata. La scenografia qui è pressoché inesistente, anche la tridimensionalità abbastanza spiccata delle prime due storie qui viene come liquefatta calando lo spettatore direttamente in una dimensione eterea, quella del sogno, dell’incubo, del luogo più oscuro dell’inconscio umano in cui albergano le paure peggiori. Jack lo Squartatore ha le sembianze di un’ombra assassina che si cala all’inseguimento del povero poeta mentre la presenza della morte si fa tangibile ma non sapremo mai se, alla fine, avrà la meglio sulla vita. Improvvisamente il poeta si sveglia dal suo sogno e può abbracciare Eva oltre che porre il sigillo ad un lieto fine dell’opera.

    Nei fatti non sapremo mai se la effettivamente la vita ha segnato la sua completa vittoria sulla morte: ce lo dicono gli occhi spiritati di Ivan il Terribile magistralmente interpretato da un Conrad Veidt, attore dal singolare carisma quasi ipnotico la cui carica espressiva rimarrà singolare ed ineguagliabile in tutto l’universo del cinema muto; ce lo dice ancora la cattiveria indescrivibile sprigionata dagli occhi di Jack lo Squartatore ben incarnata da Werner Krauss, attore che ben si è prestato nella resa dell’atmosfera noir del terzo racconto.

    Quello che bisogna sottolineare è la grande bravura dimostrata con questo film da Paul Leni nel saper rappresentare un’ampia gamma di sfumature di un’emozione chiamata “paura”, forse tra quelle che più di ogni altra caratterizzano la vita degli esseri umani. E la paura è destata proprio da ciò che la ragione non può controllare, prevedere e gestire come la cattiveria, elemento altrettanto insito nell’animo umano. Dinnanzi a questa realtà della vita, però, Leni, a differenza dei suoi conterranei cineasti espressionisti, sa scorgere un angolo di pace rappresentato proprio dall’amore, sentimento presente in quest’opera e speranza di redenzione per l’umanità intera.
Ed è proprio l’amore a vincere ogni paura, cattiveria e follia. Qui Il gabinetto delle figure di cera mostra un anelito di speranza in più rispetto al Il gabinetto del dottor Caligari. In entrambi, però, ne esce sconfitta la ragione, l’unica a non poter dare un ordine al caos imperante, unica, eterna costante dell’universo. La prospettiva è quella di un ordine, un percorso verso cui tutti cerchiamo di dirigerci, smarrendoci tra i meandri del buio e alzandoci da terra ogni volta che cadiamo, sconfitti dalle avversità della storia.

    Oggi non si può dubitare dell’importante lezione che questo film è ancora capace di comunicarci, uno tra i più validi motivi per continuare a guardarlo apprezzandone il suo immenso valore.

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