ANDREJ TARKOVSKIJ, REGIA NON CONVENZIONALE

Tra gli esponenti del cinema sovietico di maggior rilievo va ricordato Andrej Tarkovskij, che non ebbe la possibilità di assistere alla tanto auspicata caduta del Muro di Berlino e che ha firmato capolavori indimenticabili del cinema mondiale, come Solaris (1972), Lo specchio (1975), etc., prima di lasciarci nel 1986.

Circa il primo titolo, Tarkovskij, ebbe sempre un’ideazione ben precisa:

    “Leggendo il romanzo di Stanislaw Lem da cui l’ho tratto sono stato colpito non dall’argomento fantastico, ma da una considerazione realistica dei complicati problemi che l’uomo domani dovrà affrontare, a seguito del progresso scientifico. Nello spazio, l’uomo e la coscienza umana si troveranno davanti a fenomeni sconosciuti. Ma quale sarà la misura morale per definire un comportamento umano in questo nuovo sistema di coordinate? Come si troverà l’uomo in una situazione inumana? Sono domande che prima o poi dovranno essere affrontate seriamente. Difficile sopravvalutare l’importanza dell’evoluzione scientifica nel mondo di oggi. A maggior ragione bisogna fare di tutto per impedire che i suoi risultati siano utilizzati contro l’umanità, ma la loro importanza crescente. Per questo mi è sembrato interessante raccontare la storia di un uomo chino sul suo passato nella speranza di poterlo rivivere diversamente grazie alle possibilità offerte dal pianeta Solaris. Nel romanzo, infatti, Solaris è un cervello gigante in cui si materializzano le immagini che i protagonisti tengono nascoste nel fondo delle loro anime. Per questo, uno dei protagonisti ritrova la moglie che si è suicidata e della cui morte si sente colpevole. Ma è impossibile ricreare il passato, perché il passato è irreversibile. Il mio protagonista soffre profondamente di non poter cambiare più nulla né di rifarlo in modo diverso, comunque quel suo desiderio basterà a purificarlo.

    Tutti i miei film, in definitiva, parlano della stessa cosa e tutti i miei personaggi hanno un elemento in comune: quello di dover superare un ostacolo. Il problema di fondo che mi sono posto con Solaris è stato quello di aiutare i personaggi a dire la verità fino in fondo. Che è anche un problema della generazione coeva”.

Ci siamo chiesti, giacché Tarkovskij non è stato colpito dall’argomento fantastico di Lem ma da una considerazione realistica, può Solaris definirsi realista come, ad esempio Andrej Rublev (1966)?

    “Io penso che l’arte sia soltanto un simbolo della realtà, un simbolo, però, che dev’essere comprensibile. Da qui le discussioni e gli scontri a proposito del realismo socialista. Io ho l’impressione che l’arte, nella sua forma, possa fissare la verità, fermare la verità. La verità, se vogliamo, nessuno la conosce, l’arte comunque ha il diritto di fissare questa verità anche in una forma che non sia del tutto chiara. L’unica cosa in cui l’arte non deve sbagliarsi è nella scelta del bersaglio.Se io sparo, devo sapere contro chi o che cosa sto sparando. Cose sparano contro di me, devo sapere chi è che spara.

In Solaris il bersaglio è quello di aiutare gli uomini più semplici e diversi che la sostanza del problema è la presa di coscienza di loro stessi, come quando uno si sveglia di notte all’improvviso, e sa subito, nel dormiveglia, dove sono sua moglie, suo figlio, sua figlia. Ma solo questa presa di coscienza, si sveglia completamente. Lo stesso accade per i problemi morali e spirituali della coscienza. Quando uno è solo, in quel momento può avere inizio la vita della sua personalità, la sua presa di coscienza. Mai in situazioni opposte. Mai nella sicurezza. Quelli che capiranno questo potranno diventare spettatori del mio film. E sono quelli per i quali ho realizzato anche Lo specchio“.

Tarkovskij e l’arte come si combinano e quanto sono consonanti, verrebbe da chiedersi? Che rapporto intercorre tra l’artista e l’arte?

    “Noi abbiamo dimenticato cosa significa offendere il sentimento della propria dignità. Noi abbiamo provato ormai di tutto. L’unica cosa che ci rimane ancora da provare, e che dobbiamo ancora vivere profondamente, è il sentimento della dignità individuale. Un padre difende l’onore della figlia. Il rapporto tra l’artista e l’arte è il medesimo. L’arte non dev’essere un mezzo per guadagnare. Sarebbe come vivere sul lavoro, sulla vita della propria figlia.

    Per ciò che riguarda la mia concezione d’arte cinematografica è il suo realismo, dato che i suoi principi si basano sull’identità con la realtà, sulla fissazione dell’immagine presa isolatamente. Com’è possibile constatare anche nei miei primi film di Eisenstein. Lo specifico del cinema è fissare il tempo. Il cinema opera con questo tempo afferrato, “impresso”, come una unità di misura estetica e che si può riprodurre all’infinito. Nessun’altra arte dispone di un mezzo simile. E più l’immagine è realista e più vicina è alla vita, e più il tempo diventa autentico, non fabbricato, ma ricreato. Sì, certo, è un tempo fabbricato e ricreato, ma si avvicina a tal segno alla realtà che ne è assimilato e vi si confonde.

    Faccio un esempio, qul film geniale con cui tutto è cominciato e che risale addirittura all’Ottocento: L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) di Louis e Auguste Lumière. Durava solo mezzo minuto, ma via via che il treno si avvicinava la gente in sala era presa dal panico e scappava. Credo che l’arte cinematografica sia nata proprio in quell’istante. Non era nata solo una nuova tecnica, né un nuovo sistema di riprodurre l’immagine del mondo. Era nato un nuovo principio estetico: quello in base al quale, per la prima volta nella storia delle arti e della cultura, l’uomo aveva scoperto il modo di fissare il tempo, di imprimerlo direttamente. Scoprendo anche la possibilità di riprodurre a piacere questo tempo sullo schermo, di tornarci sopra. L’uomo era in possesso della matrice del tempo reale.

    Il tempo impresso nelle sue forme e nelle sue manifestazioni formali: questa per me è l’arte del film. Volendo, l’essenza della creazione cinematografica potrebbe essere definita anche una scultura nel tempo. Come uno scultore prende un blocco di marmo e vedendovi all’interno i contorni della sua futura opera, così il cineasta prende un blocco di tempo inglobandovi tutto un insieme brulicante e smisurato di fatti, un lasso di tempo non dettagliato, e poi vi toglie tutto il superfluo, lasciandovi solo gli elementi del film futuro che si rivelerà nella composizione dell’immagine cinematografica”.

Circa il cineasta Andrej Tarkovskij nell’ambito del cinema sovietico. Potremmo considerarlo un innovatore a ragion veduta?

    “Condivido la definizione che ha dato di me la critica francese quando ha scritto che io lavoro senza rompere le tradizioni. E dirò di più: sono convinto che non si possa creare un’opera seria senza darle le basi di una tradizione. E questo per due ragioni. La prima p che un russo non può uscire dalla sua pelle, ossia dal legame che lo uniscono al suo Paese, da tutto quello che ama, da tutto quello che è stato fatto in passato nel cinema e nell’arte, insomma tutto quello che rappresenta la sua terra e il Paese dov’è nato. Questa è la ragione principale, quella che mi autorizza a sentirmi un regista tradizionale. La seconda ragione è che il cinema cosiddetto “nuovo”, quello che nella ricerca di rinnovamento, tenta per principio, di rompere con la tradizione, è per sua stessa natura un cinema sperimentale. E si pone come punto di partenza della evoluzione futura dell’arte. Io non mi sento il diritto di sperimentare perché ho un atteggiamento fondamentalmente serio nei confronti di tutto quello che faccio; voglio ottenere subito i risultati, e questi non vengono mai subito o nel corso di una sperimentazione. Eisenstein poteva affidarsi tranquillamente alle sperimentazioni perché ai suoi tempi il cinema era soltanto agli inizi. Per lui, la sperimentazione era la sola strada possibile. Oggi non c’è più motivo di comportarsi così, date le tradizioni che ormai l’arte cinematografica s’è data e conquistata. E comunque, per quel che mi riguarda, non mi cimenterei mai in sperimentazioni. Ci vuole tempo e forza, mentre, invece, io ritengo che sia necessario creare a colpo sicuro. Un artista non deve creare delle brutte copie, ma deve procedere per tentativi, deve creare film sicuri, già “in bella”.

Questi i concetti netti e profondi di Tarkovskij relativamente alla settima arte. C’è da chiedersi chi ha considerato come suo ispiratore nel cinema sovietico.

    “Aleksandr Dovzhenko è stato il primo cineasta sovietico che abbia sentito in modo particolare il problema dell’atmosfera e dalla cui opera trasparisse l’amore appassionato per la sua terra. Condivido gli stessi ideali. I suoi film, lui li creava come creava quei frutteti e giardini che coltivava e innaffiava con le sue stesse mani. Il suo amore per la terra e per gli uomini faceva sì che i suoi personaggi fossero tutt’uno con il suolo, come se fossero direttamente scaturiti. Vorrei proprio assomigliargli in questo. Se non ci riuscissi sarebbe per me un grande dolore”.

Ci si chiede, a proposito de Lo specchio, qual è stata la sua spinta motivazionale, gli elementi che ha voluto risaltare e come mai?

    “Ha anche un sottotitolo: Una bianca, bianca giornata l’ho preso dall’ultima riga di una quartina d un poema di mio padre, Arsenij Tarkovskij: C’è una pietra vicino al gelsomino – sotto quella pietra è nascosto un tesoro – mio padre è sul sentiero – una bianca, bianca giornata… un poema sull’infanzia. Quindi, un film sull’infanzia e sulla Madre. Insieme con Aleksandr Misharin che ha collaborato con me alla sceneggiatura, abbiamo pensato ad un film che esprima quello che l’infanzia significa per tutti, un film che spieghi quella nostalgia che ciascuno si porta dentro. Un film, di conseguenza, dedicato alla Madre, alle sue gioie, ai suoi dolori, ai suoi sacrifici, al suo destino e alla sua immortalità. La Madre, ma anche, e prima di tutto, mia madre, perché la storia, che comincia nel 1932, l’anno in cui sono nato, per arrivare fino ai nostri giorni, è in un certo senso rivissuta da me, in modo autobiografico. La vita di una Madre, perciò, che è mia madre, gli anni giovani del suo lavoro in una tipografia, la fattoria dove si trasferì con i due figli prima della guerra, le prove durissime del tempo di guerra, la partenza e poi l’attesa ansiosa dell’uomo amato… Rappresentati attraverso il mio modo di vedere oggi la vita; e la giovinezza di mia madre.

Solaris era una mia interpretazione del romanzo di Lem e mi è stato subito abbastanza semplice definirla. Così come, dopo, mi è stato semplice rappresentarla. L’atteggiamento verso ciò che si legge, per di più scritto da un altro, una volta formulato, è sempre piuttosto preciso; e stabile; dopo, basta rimanervi fedeli. Questa volta, però, si tratta di una storia originale basata su dei ricordi miei personali. Ecco come si costruisce l’idea di questo film. E non è mai troppo semplice formulare un atteggiamento verso le proprie esperienze di vita e verso noi stessi. O, comunque, non è facile formularlo in maniera univoca e definitiva. Perché cambia e varia con noi, mentre lo assumiamo, mentre ricordiamo.

    La struttura narrativa si riferiscono alle pagine dedicate alla vita della protagonista che si alternano ad altre dalla cronaca reale, relative agli episodi più tipici o più salienti di quegli anni, i primi voli nella stratosfera prima della guerra, la Spagna del 1936, certi eventi bellici. L’autenticità realistica, insomma.di avvenimenti occorsi in passato si accompagna attraverso l’inquietudine nostalgica dei sogni di oggi. Unificando i “piccoli” ricordi d’infanzia e i “grandi” avvenimenti che hanno sconvolto il mondo Il tutto visto però, lo ripeto, attraverso gli occhi con cui vedo “oggi” mia madre, la mia infanzia, la vita.

    La mia regia, attraverso una serie di episodi gli uni reali gli altri di fantasia e a prima vista in contrasto tra loro, tende a creare un’immagine inimitabile e concreta di una vita umana, sforzandosi di riprodurre in ogni episodio quello che chiude in sé di unico e di irripetibile: sia come ambiente, sia come tempo, misura e atmosfere psicologiche. Con l’ambizione di rappresentare non solo “un” avvenimento che può verificarsi in un certo momento con certe persone, ma un determinato avvenimento. Quando realizzai L’infanzia di Ivan (1962) mi resi conto che tanto più una scena suscita nell’autore una reazione “personalissima”, tanto più dopo, inevitabilmente, arriva a trasmettere la stessa emozione allo spettatore. Anche adesso, così ne Lo specchio, ho fatto in modo che ogni immagine riproponesse, di ogni avvenimento, l’unica versione possibile, la sola variante ottimale, quella che racchiude in sé – sentita dall’autore e da chi la vive – l’emozione più individuale e personale. Anche per quel che riguarda le cose, naturalmente, il “materiale”, che, per rappresentarli nella loro giusta luce, vanno prima esattamente conosciuti, sentiti, amati. Per questo, insieme con Georgij Rerberg, il direttore della fotografia, abbiamo definito, rivisto, “ripensato” parecchie volte ogni particolare, studiando ad esempio molto da vicino il ruscello dove sguazzavano due ragazzi di campagna, perché il fango che li sollevava dal fondo, la profondità e il colore dell’acqua, il “carattere delle alghe non dovevano essere “neutrali”, ma dovevano parlare la lingua con cui parlavano all’autore”.

In altre parole, Tarkovskij evolve radicalmente la sua modalità di azione e quindi anche i contenuti della sua opera.

    “Per la prima volta non ho cercato di filmare un soggetto, anche se filtrato dalla mia interpretazione personale, ma di fare oggetto del film la mia stessa memoria, la mia concezione del mondo, la mia comprensione o incomprensione di qualcosa, e, in definitiva, i miei stati d’animo. Perché il film fosse soprattutto il processo di maturazione della mia idea, anche se l’autore, in quanto tale, non appare mai in campo, pur essendo sempre fuori campo, ovviamente, con il suo racconto, che nel modo più indipendente possibile dalle altre arti e dalla letteratura in primis, ricostruisce il passato combinandolo con la cronaca del vero. Facendovi scaturire anche degli elementi morali: quelli che sono insiti nell’arte e nella vita e quelli che, in senso filosofico e non estetico, riguardano l’atteggiamento dell’arte rispetto alla vita. Chiedendo con assoluta onestà la partecipazione dello spettatore alla memoria dell’autore, alla sua esperienza, ai suoi dubbi, ai suoi tormenti e alle conquiste della sua mente. In modo che il cinema sia, per chi lo fa e per chi lo riceve, un sorta di atto morale purificatore”.

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

GALLERIA FOTO

GALLERIA VIDEO