FRANÇOIS TRUFFAUT, UNO DELLA “VAGUE”

François Truffaut, il sentimento del cinema francese, e anche la poesia, l’ironia, la commedia drammatica. Tutti i suoi film hanno ricevuto consensi. Effetto notte (1973), ad esempio ha segnato un cambio di direzione nella sua carriera, aprendone un altro con Adele H., una storia d’amore (1975), un film che lui stesso paragonò a Il ragazzo selvaggio (1970), perché è una storia vera e che paragonò a Le due inglesi (1972), in quanto storia d’amore appassionata.

    “Adèle H.(Isabelle Adjani) è la figlia minore di Victor Hugo; la conoscono in pochi; Victor Hugo ha avuto due figlie, ma tutti conoscono la maggiore, Leopolidine, che è morta annegata; La gente non sa niente di Adèle che seguì i genitori in esilio a Guernesey per raggiungerlo ad Halifax, nella Nuova Scozia, dov’era andato in guarnigione. Lo inseguì per anni, lui non voleva, ma lei se n’era fatta un’idea fissa. Ecco, il film è la storia di questo amore ostinato ed infelice, e di questo inseguimento. Era un mio vecchio progetto. Ci pensai per la prima volta nel marzo del 1969. Una docente universitaria americana, miss Frances Vernor Guille, insegnante al collegio di Wooster, nell’Ohio, aveva pubblicato una piccola biografia di Adèle intitolata Diario di Adèle Hugo. La lessi nella collezione “Bibliotèque Introuvable“, presso le edizioni Minard, e pensai di ricavarci un film. Ne parlai con Jean Gruault col quale avevo scritto il soggetto de Il ragazzo selvaggio, ed ebbi subito il suo consenso. Ebbi anche quello di miss Guille che si disse disposta a collaborare con noi, e, sia pure con qualche difficoltà iniziale, ebbi anche quello di Jean Hugo, pronipote di Victor Hugo. Nel frattempo, però, pur lavorando al soggetto di Adèle, realizzai altri tre film. Mi succede spesso di far passare degli anni dal momento in cui ho l’idea di un film ed il momento in cui poi lo realizzo. In genere mi succede quando il film è difficile, perché scrivo un primo soggetto, che lascio lì qualche mese, poi lo riprendo e ne riscrivo un secondo. Nello stesso tempo mi capita di girare degli altri film, ma intanto il soggetto va avanti. Non è mia abitudine abbandonare un progetto avviato; anche se dopo ho dei dubbi, non rimetto mai in discussione quel momento iniziale in cui ho deciso di fare il film. L’importante è non avere mai dubbi sul momento in cui tutto è cominciato. Del resto, credo che un film ci guadagni a maturare, a sostare per un po’ nella testa. L’idea de Il ragazzo selvaggio, per esempio, che è del 1970, l’avevo avuta almeno quattro anni prima”.

In realtà, ci sarebbe da chiedersi cosa abbia incuriosito Truffaut nella storia di Adèle Hugo; cosa lo abbia indotto ad investire impegno ed energie, oltreché anni di riflessione. A tal proposito, le sue dichiarazioni furono di tenore sicuro e certo:

    “Per prima cosa la possibilità di fare un film in cui Victor Hugo ha una grandissima importanza e in cui, invece, non si vede mai. Si parla di lui, arrivano delle sue lettere, forse si sente persino la sua voce, ma non lo si vede, anche se è sempre e costantemente “presente” in tutto il film. In secondo luogo mi ha interessato, l’aspetto solitario, a senso unico, di quella storia d’amore. Ho realizzato molti film d’amore, alcuni su delle coppie, uno sull’amore a tre, Jules e Jim (1962); Adèle, invece, è un film d’amore con una sola persona in scena, una sorta di “a solo” musicale, quasi una scommessa. E infine mi ha interessato la possibilità di fare un film “ripetitivo”. La stessa situazione, infatti – l’insistenza di Adèle nei confronti dell’ufficiale che non l’ascolta nemmeno – si ripete di continuo. In una commedia, il riso lo si può ottenere con la ripetizione, io nel mio film, con la ripetizione ho cercato invece di ottenete l’emozione. Una scommessa anche questa”.

Truffaut segue logiche trasversali nell’ideazione del prodotto che ha in testa, e relativamente a questo lungometraggio tracciò una definizione ben precisa:

    “Mi è difficile parlare in termini generali di un mio film. Dal punto di vista visivo è un film molto “chiuso; fra quattro mura, senza accenti sulla cornice d’epoca; Non c’è mai un totale di strada, non ci sono comparse in costume.Un film rigoroso, addirittura rigido, senza indulgenze per il revival, per la mode rétro. Dal punto di vista del tono, del racconto, è una storia romantica, di fantasia, costruita però su fatti veri. Mentre giravo Il ragazzo selvaggio mi sono accorto di amare moltissimo la realtà. Prima credevo di detestarla, credevo di amare l’invenzione allo stato puro (odio i documentari, non li ho mai sopportati); il cinema mi piace perché finge, perché inventa, perché sa creare l’avvenimento. Invece, realizzando Il ragazzo selvaggio, che era tratto da una storia vera, mi sono reso conto della gioia che provavo mentre reinventavo dei fatti veramente accaduti. Ecco, in questo senso Adele H., una storia d’amore è un po’ la continuazione de Il ragazzo selvaggio. Anche questa volta non ho avuto bisogno di inventare niente, però ho raccontato tutto senza cercare mai di dargli il tono della realtà. Con l’aria, anzi, di inventare sempre.

    So perfettamente che tutto quello che si scrive e che tutto quello che si fa con il cinema ha un suo significato. Per quel che mi riguarda, però, debbo confessare che le emozioni vengono prima delle idee, così il più delle volte, le ragioni sotterranee che mi hanno guidato verso la scelta di questo o di quel soggetto le scopro solo attraverso ciò che la critica scrive del mio lavoro. Con il passare degli anni, comunque, sempre più mi rendo conto che davvero quello che mi interessa al cinema è la sfera affettiva. I film che realizzo si basano solo sui sentimenti, soprattutto quelli che rivelano quanto di caduco e doloroso ci sia in certe relazioni familiari o sentimentali. In ogni mio film io punto sempre sugli stessi conflitti fra sentimenti definitivi e provvisori e così finisco per filmare sempre gli stessi contrasti; e le stesse lacerazioni. Quelli che si interessano a questo tipo di operazioni – la descrizione dolce di sentimenti violenti – dicono che sono delle variazioni su un unico tema, quelli che invece a queste operazioni si annoiano, dicono che in fondo io giro a vuoto, o che pesto l’acqua in un mortaio. A voi la scelta.

    Riconosco d’aver avuto molta fortuna, professionalmente. So che non tutti i film che ho fatto erano perfetti, alcuni erano degli esperimenti, ma ho sempre tentato di non farlo avvertire. Li ho fabbricati meglio che potevo, come degli oggetti. Sì, perché il film è un oggetto, e non è possibile che sia un oggetto perfetto perché in gioco ci sono troppe variabili fuori controllo, a differenza che succede, invece, con un libro. Fabbricando, però, quest’oggetto, indipendentemente dai risultati, mi sono sempre sentito felice. Ecco, questa, forse, potrebbe essere la caratteristica della mia carriera, la gioia di fabbricare, di inventare, lì in studio, mentre giro. La gioia, per esempio, di fare incontrare due personaggi. Uno sale le scale e bussa a una porta, l’altro, dal di dentro, dice “Avanti!“. La scena, però, la si può rappresentare in un modo diverso: nessuna risposta a quello che bussa, lui allora scende e l’altro lo incontra sulle scale, mentre sta salendo. Non è niente, lo so, ma mi basta, in studio, per darmi quasi le vertigini. Nell’attimo in cui decido di ritardare l’incontro di due personaggi o magari di non farlo accadere ho la sensazione netta di creare la vita e di disporre di un potere addirittura favoloso. E di un potere, badi, che puoi esercitare senza abusi. Con degli errori, certo – degli errori “artistici” – ma nessuno dovrà poi pagarli con la vita, come, invece, gli abusi del potere politico; e sociale. Da qui la mia gioia, in studio., durante tutta la mia carriera: perché ogni volta mi scopro detentore di un potere che tanto è più assoluto e tanto più è inoffensivo; e dolcissimo.

    Tornando ai miei film, penso che potrebbero interessare anche gli psichiatri. Non so molto di psichiatria, ma so che i miei film riguardano spesso i problemi d’identità e anche quelli relativi alla sfera affettiva.: nei confronti della madre, per esempio, o del padre. Non sta a me stabilire la cifra. Non la conosco, né voglio conoscerla. La cifra de Il ragazzo selvaggio, ad esempio, che era il sentimento di paternità, io l’ho capita soltanto molti anni dopo. Prima, nei miei film, quando rappresentavo un adolescente, mi identificavo sempre con lui. Ne Il ragazzo selvaggio, invece, per la prima volta mi sono identificato con un adulto, con il padre. Ma ripeto, l’ho capito solo anni dopo. Sono stati in molti, del resto, a non capire quel film fino in fondo. Qualcuno, per esempio, ha pensato che il “Dottore”, il padre, fosse troppo autoritario, che si fosse sbagliato e che il ragazzo lo avesse voluto solo “addomesticare”, come fosse un animale. Io, invece, volevo solo affermare che il ragazzo avrebbe voluto provare la sensazione di “esistere”, e anche se il Dottore si era sbagliato, era comunque riuscito a far sentire al ragazzo che esisteva e che quella era la sola cosa importante. In realtà, io sono un po’ al margine del mio tempo, soprattutto della cosiddetta “controcultura”, mentre io, invece, sono per la cultura, totalmente. Sono molti gli slogan di oggi in cui non credo affatto. Quello, ad esempio, che sostiene che la cultura appartiene ai ricchi. Non è vero! Il cinema, per esempio, è un’arte popolare ed è anche dei poveri; e i libri, anche i classici, si possono trovare ovunque a prezzi modestissimi. Il ragazzo selvaggio era un ragazzo della foresta che veniva avviato alla cultura, il contrario di quello che oggi voglio i movimenti studenteschi, gli hippy e quegli studenti privilegiati che pretendono invece di tornare nella foresta. Ma sono “idee di lusso” che possono coltivare solo dei privilegiati, Chi, come me, ha avuto una giovinezza povera, senza privilegi, è tutto per la cultura; senza riserve”.

Quali gli orientamenti di François Truffaut relativamente al rapporto cinema, politica e società?

    “Se la politica diventa una passione, dev’essere più energica del cinema, allora bisogna abbandonarlo e mettersi politicamente al servizio della gente. Senza mezze misure. Non trovo onesto fare politica con lo strumento “cinema”, puoi trascinare lo spettatore dove vuoi, da una parte all’altra. Faccio qualche esempio. In un film io mostro un uomo che al mattino si fa la barba, saluta affettuosamente la moglie, va in garage, sale in auto e si avvia in ufficio, al suo lavoro. A una curva, all’improvviso investe un bambino… Lo spettatore prova subito, per l’uomo che ha conosciuto all’inizio, una grande compassione. “Poveraccio – pensa – chissà i guai, adesso, ed era così simpatico!“. Immaginiamo ora il film dal punto di vista del bambino. Pensiamolo che fa colazione, che dice arrivederci alla mamma, che prende i suoi libri e si avvia, buono buono, a scuola. Alla curva, l’auto lo schiaccia. “Quel pirata della strada! – lo stesso spettatore, dirà – meriterebbe la galera!“… Adesso, vorrebbe linciarlo. Davvero, è solo un giochetto, per un regista di cinema, condurre lo spettatore a provare i primi sentimenti o i secondi. Ed è per questo che il cinema, secondo me, ha delle responsabilità di cui non deve assolutamente abusare. Hitchcock fa benissimo a suscitare simpatia per la vittima indifesa e odio per un criminale nascosto nell’ombra. Ma fa film gialli che sono solo macchine per divertire. Chi invece queste macchine le costruisce per motivi politici, per far scendere la gente in piazza, allora fa qualcosa che assolutamente non accetto.

    “Questo per ciò che riguarda la politica. Per quel che concerne la società sono abbastanza pessimista. Mi sento un individualista feroce, forse a causa della mia infanzia. La vita l’ho conosciuta durante la guerra, ossia in un periodo in cui erano tante le cose sgradevoli che ti condizionavano: la borsa nera, i collaborazionisti, le “soffiate”, e tanta ipocrisia. Senza arrivare al disprezzo, mi sono nutrito di scetticismo. Ero un bambinetto che chiedeva l’elemosina, quando gli americani sono arrivati a Parigi e sono diventato uno di quei bambini che li aspettava alle fermate della metrò per accompagnarli ai bordelli. Un po’ come i piccoli sciuscià italiani. Ho imparato presto a sbrigarmela da solo, con la completa sfiducia negli altri. Dopo, quando sono riuscito a realizzare le mie ambizioni – come scrivere e e fare cinema – ho sentito che non dovevo leggere la mia vita in chiave di rivalsa e di vendetta, evitando di regolare i conti con il passato, benché sia rimasto sulla difensiva e pensando spesso solo a me stesso. Un individualista, lo ripeto, un isolato. Non voto, non mi sento francese, non mi sento neanche un cittadino. Lo stesso ragionamento lo applico alla religione. Qualche volta me ne dispiace, ma proprio non riesco a sentirmi parte di questa società. Del cinema, sì, il cinema è la mia famiglia, molto più di quella vera perché è fatto solo di persone che ammiro: Jean Ronoir, che è più che mio padre, André Bazin, che era un fratello…”.

Truffaut ha un’idea complessiva del cinema moderno, ed ha, inoltre, una collocazione ben precisa del suo cinema inserito nel contesto più generale.

    “Il cinema, oggi, è senz’altro più intelligente. Ed è un bene. Sta diventando però anche più intellettuale; ed è già meno bene. Penso, infatti, che il cinema debba continuare ad essere un’arte popolare. Sono convinto che un film deve arrivare a tutti, non concepisco l’idea di un cinema per un pubblico specializzato. In Italia, ad esempio, è così. Il cinema è un’arte popolare, in molti altri Paesi, invece, si rivolge solo a determinate élite. Questo è preoccupante. Anche qui, però, il mio individualismo mi impedisce di dare giudizi globali, generali, preferisco parlare di singoli autori, scelti caso per caso… In Francia, ad esempio, quello che ammiro di più (e che in Italia è poco noto perché i suoi film sono intolleranti al doppiaggio) è Éric Rohmer, il più responsabile, il più intelligente, il più artista. Tutti i film da lui diretti sono superbi. Di tutto il cinema contemporaneo, invece, la carriera più bella, a mio avviso, è quella di Ingmar Bergman. Mi affascina l’ostinazione che accomuna tutti i suoi film, che poi si somigliano tutti, ma che, allo stesso tempo, rivelano attraverso gli anni un’evoluzione costante.

Quanto a me, il cinema è la mia vita. E questo riassume tutto”.

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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