LOUIS MALLE, LA MORALE È SOLO UNA SOVRASTRUTTURA INUTILE

In Francia ci fu una fase cinematografica, dopo l’eclissi di Godard, in cui Louis Malle venne considerata la guida del del cinema francese. Il suo Cognome e nome: Lacombe Lucien, uscito in Italia nel 1974, ha confermato le sue qualità migliori dandogli un posto di primo piano fra gli autori cinematografici europei.

Come è arrivato a Lacombe Lucien?

    «Ci pensavo dai tempi della guerra d’Algeria. Avevo conosciuto dei torturatori, della gente in sé normale, il cui processo psicologico ritenevo che potesse essere interessante analizzare in un film. Ho continuato a pensarci anche dopo, al Messico, nel ’71, dove mi dissero che c’era la polizia speciale incaricata di tenere a bada gli studenti anche con i mezzi più brutali e reclutata in maggioranza fra sottoproletari. Ma poi il film non si è fatto, così, al ritorno, ho avuto l’idea di scrivere un soggetto ambientato, anziché ai nostri giorni, nel 1944, nel sud-ovest della Francia, nel Lot, una regione dove adesso abito, che conosco bene e in cui durante l’occupazione la Gestapo aveva messo in atto le più crudeli repressioni».

Il protagonista, Lucien Lacombe, un diciassettenne incolto di campagna che si firma prima con il cognome e poi col nome, è un collaborazionista; uno che fa la spia e uccide per conto dei nazisti. Cosa ha voluto mostrare, e dimostrare, con la sua storia?

    «Ho voluto mostrare, per prima cosa, come un giovane contadino in presa diretta con la crudeltà della natura e violento come lo si può essere a diciassette anni, si trovi coinvolto, per un seguito di circostanze imprevedibili, in situazioni che non è preparato ad affrontare, trasformandosi in un fascista e comportandosi come tale. Ho voluto smontare pezzo a pezzo l’ingranaggio di questa corruzione; per capire come qualcuno potesse rimanervi vittima. Vittima, ma anche, intendiamoci, con tutte le responsabilità del caso. Vittima perché, prima di Lucien, della sua autodistruzione è responsabile la società. Lucien, dal punto di vista sociale, è un umiliato in partenza; suo padre, un contadino, poverissimo, è prigioniero, il suo lavoro, in un ospizio, è dei più avvilenti, e autorizza tutti a trattarlo come un essere inferiore, la propaganda, attorno, lo ha frastornato, non ha modo, così, di giudicare, di scegliere. Responsabile, d’altro canto, perché Lucien è salaud nel senso descritto da Sartre e se non è intellettualmente abbastanza dotato per riflettere (e decidere), sa rendersi conto presto dei vantaggi e dell’importanza che gli derivano da quel revolver che la Gestapo gli ha messo in mano, e ne profitta quanto può: soddisfatto, adesso, di non essere più disprezzato ma temuto. Un carattere ambiguo, perciò, pieno di ombre, di contraddizioni, non nero fino in fondo, ma neanche bianco, naturalmente. Un carattere, come autore, in cui mi era impossibile identificarmi (i miei ricordi del ’44, anche se avevo solo undici anni, sono tutti chiaramente dalla parte delle vittime, dei deportati), e che ho “rappresentato” proprio con la curiosità di vedere dove l’avrebbero condotto quei comportamenti di cui mi sentivo io il primo “spettatore”; e con uno scopo preciso: quello di disturbare, facendo riflettere sulle ambiguità fondamentali in mezzo alle quali viviamo. Oggi la gente, intatti, qualunque sia l’ideologia cui appartiene, si accontenta pigramente di idee belle e fatte e non guarda in faccia la realtà. Io, invece, con il Lacombe, ho voluto costringerla a farsi delle domande. E questo perché, con una società. che consente ai vari “Lacombe” di diventare quello che diventano, quanto è accaduto nel ’41 può succedere ancora: come è successo al Messico e in tanti altri paesi. “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo”. Ecco perché ho cominciato il film con questa frase dello scrittore americano George Santayana. Perché il rischio che queste cose tornino a verificarsi è sempre possibile; e presente. Basta un peggioramento della situazione economica e una inflazione tipo 1929 per scivolare verso una specie di “pseudo-fascismo” con il suo immancabile contorno di “uomini della Provvidenza”. Ci sono già questi uomini, li conosciamo. E hanno bisogno di truppa, oltre che dell’esercito e della polizia. E la truppa sono la massa dei “Lacombe” che, coinvolti in situazioni di questo tipo, si scoprono all’improvviso diversi da quello che credevano di essere, e accettano soddisfatti le armi, e le adoperano…».

 Come ha costruito il film?

    «Con la collaborazione di Patrick Modiano. I suoi tre romanzi, Place de l’Étoile, La ronde de nuit e Boulevards de ceinture, gran premio, quest’ultimo, dell’Accademia di Francia, si ambientano tutti durante l’occupazione. Era l’esperto che qui ci voleva. A lui, però, non debbo solo il clima, l’atmosfera di quei giorni, debbo, dal punto di vista della struttura del film, anche un tipo di costruzione narrativa tutta particolare: la scena che segue non è mai quella che uno si aspetta, quello che suscita l’attenzione dello spettatore – lo spettacolare e il drammatico – è sempre suggerito per via indiretta, mai mostrato; pochi tedeschi, poche battaglie, pochissimi dialoghi».

E lo stile?

    «Si affida a un ritmo che ora è lentissimo, tanto che il tempo sembra che si allunghi fino a sfrangiarsi, a dissolversi, e che ora, invece, si costruisce soltanto su sequenze brevissime, tutte annotazioni secche. E questo perché ho voluto avvicinarmi alla falsa logica dei sogni. Sono certo che, partendo da quel soggetto, molti avrebbero realizzato un film barocco-realista, sul tipo del La caduta degli Dei (1969) di Visconti. A me invece interessava soprattutto la dimensione del sogno, del’incubo, dato che si trattava di una vicenda di trent’anni fa, vera ma “ricordata”. Non il sogno e l’incubo, però, come li vede anche oggi un certo tipo di cinema, con le inquadrature deliranti, dal basso, le immagini distorte; no, come una realtà. vista quasi al rallentatore, con una logica che non è la vera logica, ma che le somiglia, che è altrettanto precisa, altrettanto implacabile. Come nei racconti di Poe, se vogliamo. La realtà, ma anche l’assurdo, l’orrido, l’abnorme. In una cifra, però, che raggela tutto, che lo placa, sostituendo ii classico al delirio. Non so chi abbia detto (forse è stato Nietzsche) che il classicismo è la negazione del sentimentale, io comunque per classico intendo il rifiuto del sentimento a favore della sensibilità; e il rifiuto della morale, vale a dire di qualsiasi, possibile giudizio morale nei confronti dei personaggi. Come arrivare, del resto, a un giudizio morale “oggettivo”? Freud sosteneva che il nostro comportamento morale è la paura che abbiamo di perdere l’amore degli altri e che quindi la morale è, in un certo modo, il non volere essere giudicati. Io sono anche pronto a credere al Trascendente, ma non posso ammettere che esista una morale assoluta. No, la morale è una sovrastruttura che corrisponde alle condizioni in cui una determinata società si trova in quel determinato momento. Prendiamo Lucien. Se i tedeschi avessero vinto, sarebbe stato giudicato in modo del tutto diverso. Così, invece, è un salaud. Ma io non ho voluto giudicarlo e l’ho rappresentato senza nessuna partecipazione “sentimentale”; con quella distanza, appunto, “classica” che mi ha permesso di considerarlo un personaggio che, date l’epoca e le condizioni in cui viveva, non aveva né poteva avere la nozione esatta del bene e del male».

Gli interpreti?

    «Degli sconosciuti. Volevo che gli spettatori non avessero l’impressione di essere al cinema, volevo che non sentissero la finzione, lo “spettacolo”. Per Lucien mi serviva un vero contadino di diciassette anni che parlasse con l’accento de sud-ovest e ho trovato Pierre Blaise. Dopo Belmondo, non avevo più visto nessuno recitare con tanta naturalezza. Ho faticato molto per mettergli al fianco dei partner del suo stesso livello. Anche Aurore Clément, nelle vesti della ragazza ebrea che ha con Lucien rapporti ambigui e difficili, è una non professionista. Gli altri sono Thérèse Giehse, un’attrice tedesca di teatro specializzata in Brecht, e Holger Lowenadler, un attore teatrale svedese; nuovo anche lui per il cinema».

Come riassumerebbe la sua carriera prima del Lacombe?

«Ho filmato pesci per tre anni. Con Cousteau. Non avevo mai diretto attori. Quando ho realizzato Ascensore per il patibolo (1958) ero sicuro che, dopo, non avrei più fatto film. Invece ho avuto il Prix Delluc, molti consensi, delle buone critiche e allora ho fatto ancora cinema. Un po’ alla… giornata, però, senza preoccuparmi di una logica interna della mia carriera e dei rapporti che un film potesse avere con il precedente, andando anzi in direzioni diverse e spesso opposte. E questo anche perché i miei film, in genere, non mi piacevano e così facevo in modo, ogni volta, di farli uno diverso dall’altro (anche se, come nel caso di Fuoco fatuo (1963), tutti mi dicevano che quella era la strada su cui dovevo continuare). È andata sempre così fino al giorno in cui ho smesso di fare film a soggetto e ho cominciato a fare documentari. Quello, per me, è stato un modo di ritornare alla vita reale. Un autore di cinema, a furia di fare cinema, finisce per tagliarsi fuori da ogni esperienza di vita. Guardi Truffaut. Dopo aver fatto cinque o sei film di seguito, per far qualcosa in cui travasare la propria esperienza ha realizzato Effetto notte (1973), che è solo la radiografia, sia pure splendida, della sua esperienza di autore di cinema dentro al cinema. Io invece ho voluto fermarmi; per uscir fuori, per fare altre esperienze accettando il cinema, la macchina da presa, solo come un prolungamento delle mie possibilità di uomo alla ricerca di nuove nozioni, di nuovi aspetti della vita. Il documentario, ecco, informando gli altri, per prima cosa ha informato me. Sulla realtà che non vedevo più, che avevo dimenticato. Dopo, mi sono sentito più pronto, più sicuro. Anche se adesso, ormai, passati i quarant’anni, scelgo i miei film con più circospezione. Un film vuol dire due anni di lavoro, di tempo non ce n’è più. Tanto e di conseguenza sento il dovere di essere esigente. Dopo Soffio al cuore (1971), prima del Lacombe, ho lavorato attorno a quattro progetti. E li ho accantonati tutti perché non mi convincevano. E del resto, il Lacombe me lo portavo dentro dai tempi dell’Algeria. Poi, quando mi sono deciso, tutto è andato liscio come l’olio. È stata la prima volta, nella mia cartiera, che mi sono sentito come un violinista perfettamente padrone del suo violino».

Cosa si aspetta dal cinema?

    «Prima, debbo avere l’onestà di dirlo, mi aspettavo solo delle soddisfazioni personali. Adesso, invece, guardo al cinema con più serietà, pensando anche agli altri, agli spettatori. Fino a qualche anno fa non pensavo che i miei film potessero essere importanti, ma quando invece ho creduto di accorgermi che lo stavano diventando, mi sono sentito delle responsabilità. Come nel caso del Lacombe, e del successo che ha avuto in Francia e in Belgio, e delle discussioni e delle polemiche che ha suscitato. Nel nostro mestiere, è fondamentale vedere che lo spettatore si fa attivamente coinvolgere da un film, riflettendoci sopra, reagendovi. Ecco, il mio ideale di film è quello che richiede allo spettatore di fare una parte del lavoro, andando oltre i miei ragionamenti e sostenendoli con i propri. Non ho niente contro il cinema di evasione, ma personalmente non mi diverte. Ho visto invece tre volte Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman e tutte le volte ho sentito che mi spalancava dentro un’infinità di porte chiedendo la mia partecipazione totale. È questo, forse, quello che mi aspetto adesso dal mio cinema: che coinvolga lo spettatore facendogli sentire tutto quello che sento anch’io; chissà, forse è difficile, è troppo, ma è un modo giusto per parlare agli altri, per comunicare. E un autore cosa potrebbe chiedere di più?».

Pubblicazioni di riferimento: Positif (AA. e Nrr. VV.), Image et son (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Cinématographe (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.)

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