“E NON VOGLIO ESSER SOLO. HO UN’INFINITA FAME D’AMORE DI CORPI SENZ’ANIMA” – PASOLINI E SUA MADRE.

Pier Paolo Pasolini ebbe un rapporto molto intenso con la madre Susanna, la quale patì la tragedia di sopravvivere ai suoi due unici figli: anni prima della morte di Pier Paolo, il figlio Guido fu, infatti, ucciso durante le lotte partigiane.

    Forse anche per questa dimensione “duale”, in Supplica a mia madre Pasolini la elegge ad essere insostituibile: “Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data“.
Questo rapporto “esclusivo ed escludente” darà pregevolissimi frutti, dalla poesia alla prosa.
Contestualizzando questo tema in ambito cinematografico, il riferimento a Mamma Roma (1962) è istintivo, direi quasi scontato: il film ha per protagonista Anna Magnani nel ruolo di una prostituta che, liberatasi del protettore, si ricongiunge finalmente al figlio quindicenne, che aveva abbandonato da bambino.

    Quest’opera è chiaramente la rappresentazione dell’amore come assenza di libertà: all’originario pappone si sostituirà, infatti, uno sfruttatore ben più esigente, il figlio appunto, che – malgrado gli sforzi della madre – non potrà ne’ vorrà inserirsi socialmente, perché attanagliato da una sorta di peccato originale. Il riscatto della donna, costretta nuovamente a prostituirsi per soddisfare le crescenti richieste del figlio, alla fine fallirà: il ragazzo morirà ed il momento del trapasso sarà iconograficamente rappresentato da Pasolini con un chiaro riferimento pittorico al Cristo Morto – il Regista escluse, tuttavia, ogni riferimento al Mantegna, citando, invece, soggetti caravaggeschi – eleggendo, così, la protagonista a Madre Celeste universale.

    Sia pure con dinamiche e contesti diversi, l’intenso rapporto Madre-Figlio è rinvenibile anche nel successivo Il Vangelo secondo Matteo, scritto e diretto da Pasolini nel 1964. Un film, questo, che mise d’accordo tutti: i cattolici elogiarono l’opera per la rispettosa coerenza dei fatti rappresentati al testo evangelico; i comunisti manifestarono il loro consenso, perché videro in questo Cristo una figura rivoluzionaria, pronta a contestare i Farisei – simboli di una religione diventata strumento di oppressione politica – e, al tempo stesso, costretta a difendersi dai soldati di Pilato, iconograficamente rappresentati come picchiatori fascisti.

    Pasolini, dal canto suo, dedicò espressamente questo film alla “cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII“, quasi a voler consacrare un parallelismo tra la semplicità del suo Gesù e quella di Papa Roncalli, il “Papa buono” per l’immaginario collettivo; ma sopratutto figura fortemente stimata dal Regista, in quanto rinnovatore del dogma, per l’avere indetto nel 1958 il Concilio Vaticano II.

    Il Cristo rappresentato in questo film è davvero innovativo: non tanto perché interpretato da un giovane sindacalista catalano (Enrique Irazoqui), ma soprattutto per l’essere stato concepito, non già come figlio di Dio, ma come un uomo divino, un uomo cioè che, per infinita bontà e carità, supera ogni canone e misura dell’umana natura.

    E forse proprio per questo – l’aver cioè messo in second’ordine il rapporto Padre-Figlio – emerge tra tutti la figura della Madonna, non a caso interpretata da Susanna Colussi, madre del regista.
Ella, ai piedi della Croce, assisterà al trapasso di Gesù e da questi – con infinito lirismo di Pasolini – sarà quasi allontanata, per impedire che una Madre assista alla morte di suo Figlio.
Due film certamente diversi per i temi rappresentati, ma entrambi religiosamente convergenti su una figura materna, destinata a prevedere e sopravvivere.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

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