PIER PAOLO PASOLINI, REGISTA GENIALE PER CASO

Di Pier Paolo Pasolini (nato a Bologna il 5 marzo 1922), Alfredo Bini, produttore di tanti film racconta come nacque, e come finì, una collaborazione che portò il grande scrittore e poeta a realizzare autentici capolavori del cinema. E fu proprio Pasolini a imporre a Bini di far lavorare, come assistente, un certo Bernardo Bertolucci

    «Guarda che Pier Paolo sta andando su e giù per la salita di San Sebastianello, è disperato, secondo me si butta dalle scale.» Fu grazie a questa telefonata del regista Mauro Bolognini che Alfredo Bini riprese i contatti con Pasolini. E fu allora che si consolidò uno dei più straordinari sodalizi della storia del cinema italiano: quello tra l’autore del romanzo Ragazzi di vita e il produttore livornese. I due avevano già lavorato insieme. Pasolini nel 1959 era stato uno degli sceneggiatori de Il bell’Antonio, la prima pellicola prodotta da Bini. Quando nel 1960 Federico Fellini diede un parere negativo per il finanziamenti di Accattone (anche il critico Tullio Kezich riteneva che i primi provini avessero «immagini traballanti», Bini corse ai ripari.

    «Chiamai Pasolini», racconta il produttore, «rivedemmo insieme il materiale che aveva girato. Era brutto, una cosa scombinata, girata da un dilettante domenicale. Però si capiva che aveva qualcosa da dire e che voleva dirlo sinceramente. Non sapeva usare la macchina da presa, ma sarebbe bastato mettergli vicino le persone giuste. Pier Paolo era un’idrovora, una spugna. Dopo un po’ imparava tutto. Sapeva esattamente quello che voleva realizzare. Nei cinema parrocchiali del Friuli aveva visto e rivisto Dreyer, Mizoguchi, Murnau, Ėjzenštejn, Chaplin. E poi gli venivano idee a getto continuo. Durante una cena ne poteva tirare fuori cinquanta.» Il problema era realizzarle cinematograficamente. Per Accattone, Bini mise al fianco di Pasolini un “assistente” che aveva già avuto esperienze di regia, Leopoldo Savona. «Poi Pier Paolo mi chiese di prendere anche Bernardo Bertolucci. Ricordo un battibecco al bar di piazza Ungheria perché io non lo volevo. “È intelligente”, insisteva lui. “Se segue il film imparerà.” E allora io acconsentii.»

Bini non voleva Anna Magnani

    Bini, burbero buono, vive  a metà tra un motel sulla via Aurelia (quattro stanze e una pompa di benzina) e il nuovo ufficio in un attico romano da dove cercò di rilanciare il suo lavoro: da un po’, tra questioni legali con la ex moglie Rosanna Schiaffino e incompatibilità caratteriale con i nuovi sistemi di produzione, ha qualche difficoltà a realizzare le sue idee. Sogna un rinascimento del cinema italiano («Il primo fu nel dopoguerra, quando le “majors” statunitensi erano impegnate a contribuire al fondo iniziale della Bnl per il credito cinematografico, pagando una tassa di cinque milioni di lire per ogni film doppiato») che passi attraverso «il rinnovamento del glorioso Centro Sperimentale di Cinematografia, e un’aggregazione delle poche sale indipendenti rimaste, guidata dall’Istituto Luce».

    Bini è un vulcano di idee. Nel cassetto, tra i mille carteggi pasoliniani, foto sparse e copioni ingialliti, ha nascosti molti progetti pronti a entrare in produzione: dall’Infemo di Dante Alighieri, alla vita di Niccolò Machiavelli, passando per il De bello gallico e la vita di Guglielmo Marconi («Si dowebbe chiamare Wreless»). Nella sua carriera ha prodotto più di cinquanta film. Ha lavorato anche con Roberto Rossellini, Luigi Comencini, Ugo Gregoretti, Luis Buñuel, Claude Chabrol e molti altri. Con Pasolini ha realizzato Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Sopralluoghi in Palestina, Comizi d’amore, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini e Edipo re. «Ormai però», spiega mentre sulla spiaggia deserta di Capalbio gli passa accanto un cormorano, «le cose sono cambiate. Prima il produttore era la persona intorno a cui girava tutto il film, il mozzo della ruota. Non esiste più questo ruolo.» E non esistono più nemmeno rapporti produttore-regista come quello che si era creato tra Bini e Pasolini: sempre professionale, a volte amichevole, altre paterno. Durante le riprese di questi otto film Bini si occupò un po’ di tutto: dall’organizzazione della conferenza stampa per Accattone al festival di Venezia («Dove ci avevano tirato uova e ortaggi») all’amministrazione dei problemi di censura («Erano continui»). Dall’individuazione dei collaboratori più adatti («Per la sigla, che faceva “Alfredo Bini presenta: Uccellacci e uccellini, presi le musiche di Ennio Morricone e la voce di Domenico Modugno») fino alla soluzione delle beghe minori («Il corvo di Uccellacci e uccellini lo addestrai a casa mia») e alla difficile gestione del casting. «Per Mamma Roma», racconta il produttore, «Pasolini insisteva a volere Anna Magnani. A me non piaceva. Alla fine chiamai Ferruccio Ferrara, l’agente dell’attrice, e gli dissi: “Va bene, ma non vi do una lira”, lui diventò verde dalla rabbia e alla fine ci accordammo per una percentuale sugli utili, cioè niente. La Magnani in quel film ci stava come un würstel su una torta di panna».

    La storia della collaborazione tra Pasolini e Bini e della realizzazione di queste otto pellicole (in cinque anni) dovrebbe raccontata in un film. Roba da Oscar. A parte le scene “impegnate’ («Ore e ore sulle inquadrature o in sala montaggio per decidere cosa tagliare e cosa ridoppiare») e quelle processuali ci sarebbe tutta una parte comica con Bini nella parte del genitore responsabile e Pasolini (che aveva qualche anno in più del produttore) nella parte del monello disobbediente. «Ovunque andassimo, racconta Bini, «di notte Pasolini si infilava da qualche parte. A Porto Sudan, in Africa, lo tirai fuori da una tenda di beduini all’una di notte. Al Cairo riuscì a scomparire per varie ore. “Non so dove sia, è sparito. Volevo portarlo a cena, avevo invitato tutta la gente più importante e lui è sparito, mi disse un amico a cui lo avevo affidato. Oppure si metteva a dormire, copriva con striscette di carta tutti gli spiragli di luce, si piazzava i suoi tappi ermetici a tenuta stagna ed era impossibile svegliarlo. Una volta, a Kartum, per buttarlo giù dal letto dovetti quasi sfondare la porta della sua stanza.»

Le tensioni con Pasolini

    Tra i due però ci furono anche momenti di forte tensione. «Una volta», borbotta Bini, tirando giù qualche moccolo, «gli ho proprio menato. E non è stato nemmeno semplice perché era un finto gracile. Dopo la fine del montaggio de La ricotta, lui di nascosto cambiò il nome al più spregevole dei personaggi e lo chiamò Pedote, come un magistrato dell’epoca. Ovviamente non fu questa la  causa, ma ci fu un processo per vilipendio della religione e la sua furbata non ci aiutò. Pasolini si beccò quattro mesi di condanna e la pellicola venne sequestrata. E si che La ricotta è il suo film migliore. Quarantacinque minuti di una bellezza indiscutibile. Ispirati alle Deposizioni di Rosso Fiorentino e di Pontormo. Stupendi per i colori, la forma e la struttura drammatica. Con Orson Welles tra i protagonisti.» Il processo per La ricotta fu uno dei motivi che impedì la realizzazione di un altro film (Padre selvaggio) che si sarebbe dovuto girare in Africa e a cui Pasolini teneva molto. Tanto che scrisse una poesia (E l’africa?) in cui ricorda anche il litigio con Bini: «Il broncio sotto il baffo rosso, giallognolo, era spia di qualcosa di sacro che gli succedeva in petto. E io: “Non lo sapevo, come potevo saperlo, è solo un anno che faccio questo lavoro!”». Anche se poi non venne mai realizzato, per trovare i luoghi giusti dove fare le riprese di Padre selvaggio (la storia del figlio di un capo tribù dell’Africa centrale tornato nella sua terra dopo tre anni di studi a Londra) il produttore e il regista fecero una lunga spedizione al centro del Continente nero, alla quale parteciparono per un breve periodo anche Dacia Maraini e Alberto Moravia.

    «Una volta», racconta Bini, «beccai Alberto che all’alba, di nascosto, si fregava un po’ di marmellata prima che venisse spartita in quattro. Fu proprio un bel viaggio.» Durante il quale, fra l’altro, Bini e Pasolini parlarono come non avevano mai fatto. «A Roma chiacchieravamo abbastanza poco e solo per cose di lavoro. In Africa invece siamo stati ore e ore ai bordi delle piste o di notte sotto le stelle a discutere sulla vita e soprattutto sulla morte, un argomento su cui Pier Paolo tornava spesso. Nel corso di quella spedizione lo vidi anche piangere, per ben due volte. Di fronte a un gruppo di negri che spaccavano pietre sotto il solleone, mi disse: “Vedi, sono uomini come noi e guarda come sono ridotti, come bestie”. E poi qualche lacrima gli venne davanti alla messa celebrata da padre Calovini, il prete che ci ospitava nella sua capanna, con l’accompagnamento dei tamburi africani. Tanto gli piacque quella Missa Luba che poi la inserì nel film Il Vangelo secondo Matteo

«Ci venimmo a noia, senza motivo»

    Il Vangelo è un altro film che rischiò di non uscire a causa della condanna di Pasolini per La ricotta. «Andavo dalle banche per ottenere finanziamenti», spiega Bini, «ma quando sentivano parlare di un film sulla vita di Cristo fatto da un condannato per vilipendio della religione mi prendevano per matto. E così i ministeri e i distributori. Allora escogitai il trucco del film civetta, Comizi d’amore girammo alcune interviste sui problemi sessuali degli italiani e ne approfittammo per fare i sopralluoghi per trovare i posti giusti dove girare il Vangelo (in Puglia e in Calabria) visto che avevamo stabilito che la Palestina non era il luogo adatto.» Durante le riprese di questo film Bini sentì Pasolini affrontare il discorso dell’omosessualità. «Fu inevitabile, dal momento che ci trovammo di fronte a ragazzotti calabresi che ammettevano di aver avuto giovinezza rapporti tra di loro. Si sorprendevano che noi ci sorprendessimo. Prima di allora neanche una parola, un gesto. Solo le sue scomparse improvvise potevano far capire qualcosa, soprattutto quando avvenivano dopo dodici ore di lavoro. Già perché Pasolini lavorava sul serio, era un motorino sempre al massimo dei giri.» Stakanovismo e meticolosità del regista vennero fuori soprattutto durante le riprese del Vangelo. A Matera arrivò a girare settanta inquadrature al giorno dalle quattro di mattina alle nove di sera. «Aveva i piedi fasciati che gli facevano male», ricorda Bini, «ma andava avanti. Le inquadrature per il “discorso della Montagna” furono anche motivo dell’ennesima litigata. Avevamo i soldi contati, e lui, malgrado io fossi contrario, rimase due settimane a girare tra gli uliveti nella campagna di Tivoli.

    «Il risultato fu pessimo. Allora ci riprovò a Monte Cavo, ma anche quelle riprese non potevano andare: Gesù sembrava un predicatore rompiscatole. Ci trasferimmo in Puglia e anche qui non si riuscì a ottenere nulla di buono. Alla fine ebbe una botta di genio e decise di rischiare il tutto per tutto con un primo piano a tutto schermo di Cristo che durava 322 metri di pellicola. Girata nello “Studio 3 De Paolis” con un fondo fatto di teli neri.» Soluzioni anni Sessanta, ma efficaci. Come quella per realizzare la carrellata di centoventi metri durante la quale Accattone-Citti parla con la moglie. «C’era la strada sterrata», ridacchia il produttore, «e non sapevamo come fare. Risolvemmo sgonfiando le ruote di una vecchia Chrysler e i colpi delle buche vennero attutiti.» Oppure quella del Vangelo per far camminare Gesù sulle acque: «Avevamo chiamato Jacques Natanson, un super esperto di effetti speciali. Era simpatico, ma i suoi trucchi non funzionavano. Alla fine andammo a Ostia e insieme a Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, sistemammo una trave di legno a pelo d’acqua e la macchina da presa in asse. La scena venne perfetta».

    La collaborazione di questa strana coppia terminò con la realizzazione dell’Edipo re nel 1967 («Ci eravamo venuti un po’ a noia, senza un motivo preciso»). Anche se lui non lo vuole ammettere («Non voglio mica fare la figura di quelli che si prendono meriti che non hanno»), fu anche grazie a Bini che Pasolini divenne un grande regista. E per questo forse sull’Enciclopedia Garzanti alla voce Alfredo Bini si legge: «. . . con i suoi film ha contribuito al rinnovamento del cinema italiano».

VITTORIO ZINCONE

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