LE CATENE DELLA COLPA (1947) DI JACQUES TOURNEUR. RIFLESSIONI SULLA SCENEGGIATURA

Oggi film così non se ne fanno più, verrebbe da dire di fronte a questo capolavoro, considerato uno dei pilastri del cinema noir, tanto da essere stato inserito, come già abbiamo visto per Una moglie, nel National Film Registry della Library of Congress. La sceneggiatura è di Daniel Mainwaring, James M. Cain, Frank Fenton.

   O meglio, più che film così non se ne fanno più bisognerebbe dire film così non se ne possano fare più. Perché è semplicemente impressionante il numero di sigarette che Robert Mitchum accende, praticamente una dopo l’altra. Oggi, appunto, non sarebbe possibile.

    Eppure proprio questo numero impressionante di sigarette contribuisce a disegnare l’immagine perfetta del detective privato, private eye, che in inglese fa più figo. Un uomo tormentato, alle prese con sfide sempre più complesse e, spessissimo, con donne bellissime ma traditrici. E infatti proprio una dark lady, una splendida Jane Green, più languida che algida, detterà i tempi e il destino di Mitchum, opposto, in questo film, a un altrettanto grande Kirk Douglas. I due ci metteranno 20 anni per ritrovarsi sullo stesso set.

    Altra cosa che colpisce, fin dalle immagine, è la fotografia, un chiaroscuro straordinario, che carica il nero, come a voler dichiarare da subito che sì, il film avrà un epilogo triste. Molto triste, se consideriamo che, cosa abbastanza rara, in un finale shakesperiano a morire saranno. No, non aggiungiamo altro. Ricordiamo solo che a fronte del classico epilogo con la dark lady in manette e il private eye trionfatore e padrone della piazza, qui qualcosa cambia.
Sarà merito, o colpa, del regista, Jacques Tourneur, figlio d’arte e soprattutto reduce da tre grandi successi ma nel campo dell’horror. Con Le catene della colpa Tourneur si misura con una serie di canoni classici del cinema hollywoodiano. Alcuni li abbiamo già visti, il detective privato, la dark lady, altri sono il peso del passato, il destino, al quale è inutile sfuggire.

    La trama è complessa, qualcuno l’ha definita ingarbugliata. E certamente tanto chiara non è. D’altra parte, come spesso accade nel cinema, anche qui siamo di fronte all’adattamento di un romanzo, e quindi non c’è da stupirsi se ci si trova di fronte a una buona dose di letterarietà. L’autore del romanzo, Daniel Mainwaring (Ma aveva pubblicato sotto pseudonimo, Geoffrey Homes, e così firma anche l’adattamento e la sceneggiatura), fa anche parte del pool di sceneggiatori incaricato di dare respiro cinematografico al film. E niente da dire, il lavoro è ottimo.

    Da notare che in questo tipo di cinema la voce fuori campo spesso rappresenta uno strumento molto usato. Ma gli sceneggiatori devono aver pensato che la voce fuori campo avrebbe ulteriormente appesantito una trama di per sé, come detto, farraginosa. Per cui ricorrono a un piccolo espediente, quello di far raccontare tutto l’antefatto, la “colpa”, da Mitchum alla donna con la quale ha una relazione al momento in cui parte la storia. Questo permette di rendere la voce fuori campo meno presente, mediata. Di limitarla a poche scene invece di farla diventare elemento portante. Con il risultato di alleggerire di tantissimo la storia.

    Ma non è questo il solo pregio della sceneggiatura. Ce ne sono altri. Per esempio, i dialoghi, scarni, secchi. Non siamo ancora all’hard boiled, ma sicuramente anche le linee di dialogo rendono il film scorrevole. E poi, sempre la sceneggiatura, è bravissima a far sfilare la storia sotto i nostri occhi, in modo chiaro, comprensibile, priva di forzatura, per oltre un’ora. Poi, anche loro si sono dovuti arrendere e sì, qualche farraginosità c’è. Ma credo che fosse inevitabile.

    Nel complesso un film straordinario. Vera pietra miliare da recuperare per tutti gli amanti del genere. E del cinema in generale.

ANTONIO TURI 

Redazione – ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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