SEDOTTA E ABBANDONATA. LA CRITICA SOCIALE DI PIETRO GERMI

  Purchè non si sappia ma, soprattutto, purchè non se ne dica male: onore, rispettabilità ed integrità morale. Don Vincenzo Ascalone docet!

  Tre anni dopo Divorzio all’italiana (1961) Pietro Germi torna a girare in Sicilia per un’altra graffiante zampata sulle miserie e sull’arretratezza culturale del meridione, fra codici, valori ed usanze ataviche dure a morire che vengono messe a nudo attraverso l’arma della critica sociale. Una critica che viene stilisticamente realizzata con l’utilizzo della satira e del linguaggio grottesco della Commedia di costume, scegliendo all’uopo un cast artistico di tutto rispetto e totalmente funzionale alla riuscita della pellicola.

  Germi con Sedotta e abbandonata intende, ancor più impietosamente rispetto alla sua precedente produzione, strappare dai volti caricaturali dei personaggi la maschera deforme dell’ipocrisia e dell’egoismo sociale, fatto di sopraffazione dei sentimenti e dei bisogni altrui in nome della propria reputazione e onorabilità.

  La giovane quindicenne Agnese Ascalone (Stefania Sandrelli) cede alle avances del suo futuro cognato, Peppino (Aldo Puglisi), durante un afoso pomeriggio mentre tutta la famiglia riposa. Rimasta turbata dall’evento, la ragazza fa di tutto per cercare di espiare la propria duplice colpa: essersi abbandonata alla concupiscenza e contestualmente aver tradito la sorella Matilde. Gli strani comportamenti di Agnese destano però preoccupazione presso i familiari che iniziano ad indagare con sospetto. Sarà la madre a scoprire il segreto che la figlia ha cercato strenuamente di occultare fino a quel momento, grazie al ritrovamento del frammento di una lettera. Ma c’è di più. Agnese è incinta e la notizia precipita il padre, Don Vincenzo (Saro Urzì), nel dramma più totale, trovandosi di fronte all’assoluta necessità di dover “sistemare” la figlia, nel frattempo condannata alla reclusione nella propria stanza. La soluzione è rappresentata dal classico “matrimonio riparatore”, unico espediente che possa lavare l’onta di un simile affronto e preservare così la reputazione della famiglia agli occhi di tutto il paese. Ma le evidenti difficoltà rendono tutto più complicato del previsto: Peppino è costretto a rinunciare alle nozze con Matilde ma al tempo stesso si rifiuta categoricamente di sposare una donna che, sebbene da egli stesso, si è lasciata sedurre così facilmente. Tra accuse reciproche, stratagemmi e peripezie varie la storia prenderà una piega farsesca e Don Vincenzo, come un Deus ex machina, cercherà nella sua intransigente risolutezza di sistemare la questione esattamente per come si era ripromesso di fare. Fino alla fine dei suoi giorni.

  Che Germi avesse un rapporto di amore-odio nei confronti del Sud dell’Italia era già palese nella sua prima, dissacrante produzione ambientata in terra sicula, laddove però, forse, si ride meno amaro e con più leggerezza rispetto a questo secondo episodio sui (mal)costumi popolari. Sedotta e abbandonata è in tutto e per tutto una commedia, ci mancherebbe, ma il tono è costantemente sopra le righe, sconfinante nell’umor nero, che trasuda di situazioni talmente bizzarre da risultare assurde. La critica sociale imbastita dalla regia di Pietro Germi mette a nudo la limitatezza di quella concezione, purtroppo ancora esistente in talune realtà di provincia, dell’apparenza sociale e della pressione che questa impone sulla mentalità e sui modelli di comportamento che in qualche caso “deviano” da ciò che è considerato universalmente accettabile. Salvare la faccia diventa indispensabile, sempre e comunque, a dispetto della realtà contingente e della felicità altrui, ma continuando ad ostentare quell’ipocrisia intrinseca che vuole tenere salda la maschera sul viso.

  Don Vincenzo, interpretato da un grandissimo Saro Urzì, è un uomo tutto d’un pezzo, dalla concezione granitica e arcaica del capofamiglia: un individuo vulcanico, dal temperamento sanguigno e irascibile, che detiene il potere patriarcale e lo mette in pratica esercitando un controllo pressoché dittatoriale. Emblematico il voler leggere preventivamente la corrispondenza tra la figlia Matilde e il fidanzato e concedere loro un massimo di tre minuti per salutarsi davanti la porta di casa. Dispensa consigli moraleggianti quando, invece, una volta fuori dalle mura domestiche vorrebbe intrattenersi, assieme ai suoi amici, con alcune prostitute appena arrivate in paese.

  Il suo bisogno di uniformarsi a tutti i costi, guadagnandosi il rispetto della gente, si proietta anche e soprattutto sugli altri. Non esita a mettere Peppino alle strette, facendogli scrivere una lettera di rinuncia alle nozze con l’ingenua Matilde – che per tutto il tempo non capisce nulla di ciò che le succede intorno – e costringerlo a sposare la “svergognata” Agnese. Ma Peppino, con il suo bigottismo sprezzante, non accetta una donna che non sia più illibata, pur essendo stato lui stesso a sedurla, perché a suo dire “l’uomo ha il diritto di chiedere, e la donna ha il dovere di rifiutare”.

  Nell’economia della pellicola il maschilismo rappresenta un elemento preponderante ed ingombrante, fastidioso nella sua prepotenza, relegando la figura della donna a una posizione marginale e senza possibilità di ergersi in qualche modo dal contesto casalingo (da notare come la cucina di casa Ascalone abbia sempre stoviglie sporche in giro…).

  Matilde accetta passivamente il nuovo marito “raccattato” dal padre, un barone locale caduto in disgrazia (Leopoldo Trieste), mentre la madre (che segna sul calendario i cicli mestruali delle figlie) e le altre figlie rimangono inermi sullo sfondo.

  Agnese, una splendida Stefania Sandrelli, è l’unica che ad un certo punto vuole scrollarsi di dosso il peso della sua vergogna, cercando di far valere la sua volontà allorquando, ormai disillusa e piuttosto schifata da quanto accaduto, non vuole più saperne di sposarsi. Ciò suscita le ire del padre che cerca continuamente di rincorrere soluzioni machiavelliche e, contestualmente, di tenere a freno le maldicenze della gente (come quando costringe la famiglia a sorridere platealmente pur nel mezzo della bufera).

  Tutti finiscono nel mirino della critica di Germi, tutti messi a nudo e tutti derisi per la loro miseria e povertà d’animo. Gli unici ad essere dispensati sono forse solo le forze dell’ordine, i Carabinieri, a cui il regista guarda ancora con fiducia e benevolenza.

  Dal punto di vista squisitamente tecnico la pellicola è curata ed elegante, con una bellissima fotografia in bianco e nero di Aiace Parolin, che riesce nell’intento di esaltare le immagini, soprattutto quel bianco a tratti abbagliante delle scene esterne, girate a Sciacca (AG), che restituisce alla perfezione la solarità di quei luoghi. Pregevole inoltre l’utilizzo del grandangolo che deforma in maniera iperbolica i volti dei protagonisti, in particolare quello dell’istrionico Saro Urzì, ridotto ormai com’è ad una maschera grottesca. Vincenzo Licata, scrittore saccense nei panni del “traffichino” Pasquale Profumo, supporterà Germi e la produzione per l’ordinaria amministrazione locale.

  Sedotta e abbandonata è un’istantanea (ahinoi!) fedele della Sicilia degli anni ‘60, una ricostruzione veritiera e feroce, che diverte e fa riflettere al tempo stesso. Una pellicola certamente autoriale ma che non ha pretese di intellettualismo e che si lascia godere anche a distanza di più di 50 anni: vecchia sì, ma non invecchiata.

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