DE ROBERTO E IL CINEMA, UN RAPPORTO TORMENTATO

Un solo film, poca televisione, qualche documentario e progetti irrealizzati

Federico De Roberto – autore dell’ormai celeberrimo (ma più citato che letto) “I vicerè” – appartenente ad una nobile famiglia siciliana, nasce a Napoli (1861) da madre catanese (donna Marianna degli Asmundo), ma trasferitosi presto a Catania, dove si è formato, vi trascorre (interrotta dalla lunga parentesi milanese) gran parte della sua vita fino al 1927, anno della morte.

    Al contrario di molti coevi letterati, il rapporto tra De Roberto e il cinema – negli anni in cui si comincia ad avvertire l’esigenza di “sceneggiatori di professione” – risulta essere purtroppo pressoché inesistente. O, per dirla meglio, i tentativi compiuti dallo scrittore di porgere al cinema le proprie competenze di letterato professionista falliscono, ed egli resterà in vita incredibilmente del tutto ignorato dall’impetuosa crescita della “settima arte”. Non che in seguito abbia intasato il grande schermo (unica trasposizione cinematografica è il relativamente recente I Vicerè), ma la sua opera monumentale ha più lambito i media (cinema, televisione, documentari) piuttosto che penetrali, restandone sostanzialmente ai margini.

    Un primo, traslato, accostamento risale al 1907, a seguito dell’incarico affidatogli di coordinare il ricco e meticoloso catalogo (pubblicato l’anno dopo) dell’ “Esposizione Agricola Siciliana”, allocata a Catania in “Piazza d’Armi” (poi “Esposizione”, quindi “Verga”), dove nel “padiglione delle attrattive” viene montato anche un cinematografo. Colpito dallo straordinario successo di pubblico accorso copioso all’avvenimento, De Roberto coglie con lucida chiaroveggenza i primi sintomi della società di massa nella manifestazione dello sciamare di quella “folla straordinaria – scrive – … che è spettacolo a sé stessa”. La stessa folla anonima di uomini qualunque che diventerà protagonista di uno degli ultimi grandi capolavori del cinema muto: La folla (1928) di King Vidor. Di un contatto più diretto, se così può essere definito, dà notizia nel luglio 1915 “La Vita Cinematografica”, la più importante rivista nazionale del cinema muto. Nella sontuosa sede del “Teatro Massimo Bellini”, a beneficio del Comitato di preparazione (l’Italia è appena entrata in guerra), si rappresenta «una recita di “Romanticismo”, l’immortale lavoro del Rovetta, data dagli ex artisti dell’ “Etna Film” (la più grande casa di produzione catanese, sorta nel 1913 per iniziativa dell’industriale Alfredo Alonzo, n.d.a.). Prima dello spettacolo il cav. De Liguoro (napoletano di nobili origini, metteur en scène di punta della “Etna”, n.d.a.) disse un splendido proemio al lavoro di Rovetta, dettato dall’illustre scrittore nostro Federico De Roberto…».

    Nel 1912 lo scrittore si ritrova nei panni di “press-agent” dell’amico Verga, in merito alla possibilità (rimasta lettera morta) di adattare per la “Cines”, attraverso la mediazione del giornalista-critico teatrale Domenico Oliva, opere verghiane e sempre a De Roberto si rivolge (1916) per acquistare i diritti di “Cavalleria rusticana”, il regista-drammaturgo e critico teatrale romano Ugo Falena. Il film, effettivamente poi girato a Catania per la “Tespi Film”, è l’ “unica riduzione cinematografica autorizzata dall’illustre Autore, che presiede personalmente alla messa in scena”, ma dà luogo ad un lungo contenzioso giuridico con una coeva Cavalleria rusticana, tratta dalla fortunata opera lirica di Mascagni e diretta da Ubaldo Maria Del Colle (forse il più prolifico regista del muto) per la “Flegrea Film”, che incautamente ne acquista i diritti dalla “Sonzogno”. I susseguenti contenziosi – tutti accorpati e discussi dal Tribunale di Roma (22 giugno 1917) – in giudizio vedono soccombere “Sonzogno” e il maestro di Cerignola, il quale in un’intervista – rilasciata a “Film” nel maggio 1916 – si era spinto a definire “Cavalleria” una “cosa troppo personale”. Nel 1917 fallisce il progetto di girare “La lupa”, tratto dalla novella di Verga (in quegli anni celebrato dal cinema), a cui De Roberto presta la propria collaborazione alla sceneggiatura, che Giovanni Pastrone (regista del celeberrimo Cabiria) avrebbe dovuto dirigere per la “Silentium Film” di Milano, già alacremente impegnata nella trasposizione di altri lavori verghiani e di cui il padre del verismo diverrà addirittura socio-produttore. E un altro fallimento registra la sceneggiatura de “I carbonari della montagna”, romanzo storico di Verga pubblicato a Catania a spese dell’autore (1861), seccamente respinta dalla stessa “Silentium”.

    Importante, ma tiepido riconoscimento dell’influenza letteraria di Di Roberto sul capolavoro di Visconti Senso (1954), arriva molti anni dopo dal saggio di Guido AristarcoMiti e realtà nel cinema italiano” (“Il Saggiatore”), mentre contestualmente la neonata televisione italiana manda in onda il documentario Narratori italiani regia di Franco Sapori, che “riscopre” “I Vicerè”, somma fatica dello scrittore “catanese”. La scarsa, ma non inesistente, attenzione riservata dal piccolo schermo prosegue nel 1961 con la trasposizione del racconto Il rosario regia del siciliano Enrico Fulchignoni, approntato per la serie Teatro in dialetto, in onda il 26 febbraio 1961, un ciclo che “si sviluppa secondo un criterio storico-cronologico e propone un’antologia organica del panorama drammaturgico in dialetto”. Tra gli interpreti le siciliane Livia Cordaro e Stella Aliquò. Un secondo racconto, La paura regia di Flaminio Bollini, denuncia degli orrori della guerra, va in onda lo stesso anno su RAI 2 per la serie Racconti dell’Italia di ieri.

    De Roberto, Capuana, Verga fotografi (1977) documentario di Francesco Carlo Crispolti, un ricordo di Primissima (1981) per la rubrica Attualità del TG1 e il progetto non realizzato della RAI (1989) de “I Vicerè”, di cui insistentemente e vanamente si parla nei corridoi di via Teulada, chiudono gli anni ’80 televisivi, ma non la perenne ghettizzazione cinematografica dello scrittore. Nel 1999 Marco Bellocchio rifiuta una proposta di Sergio Silva (allora direttore di “RAI Cinemafiction”) di realizzare un film tratto da un racconto drammatico di De Roberto (ambientato in una trincea sul Carso), che «cinematograficamente – dichiara il regista – avrebbe evocato Orizzonti di Gloria. Io però mi ricordai della “Balia”, una novella di Pirandello…Così decisi per questa ipotesi».

    Infine I Vicerè (2007), dopo innumerevoli corteggiamenti, diventa finalmente anche un film. Decorativa ed elegante, diretta in due versioni (una televisiva, trasmessa in due puntate su RAI 1 nel novembre 2008) da Roberto Faenza, l’opera è un tour de force di sceneggiatura, che disinvoltamente sopprime la massima parte della ramificata ragnatela dei personaggi, ne semplifica la psicologia, scivola in plateali scadimenti folcloristici e, in definitiva, coglie solo le componenti più banali del romanzo, intessendo tra l’altro un linguaggio più televisivo che cinematografico, malcelato dalla versione “breve” per il grande schermo. La iattura cinematografica di De Roberto prosegue…ancora oggi.

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