GIOVANNI VERGA, QUEL LETTERATO DEL CIRCOLO UNIONE

Apriamo con un flashback: con l’immagine di Giovanni Verga che, negli ultimi vent’anni circa della sua lunga esistenza (1840-1922), appare completamente immerso – per usare espressioni che saranno poi di Vitaliano Brancati e di Ercole Patti – nella sonnolenza, nel “miele torpido” della provincia siciliana, della natìa Catania, dove egli si era trasferito definitivamente nel 1893.

    Qui, infatti, egli vive in modo appartato, riservato, assillato da problemi economici, preoccupato, in modo quasi maniacale, dall’amministrazione del suo matrimonio, chiuso ad ogni novità, dedito ad un’attività letteraria estremamente limitata, e all’abitudine quotidiana che lo conduceva dalla casa di via Sant’Anna al Circolo Unione di via Etnea, dove -come scrive Giulio Cattaneo – trascorreva le uniche ore di distensione […] giocando a carte o a biliardo, ma più spesso seduto a un tavolino all’aperto. Quanti venivano a trovarlo, anche da lontano, di rado riuscivano a fargli dire una parola. Di letteratura figurava non interessarsi quasi più e, con stupore dei suoi visitatori, era capace di rimanere silenzioso per tutta una serata, limitandosi magari a un rapido commento incerto, piuttosto salace, sull’avvenenza di una popolana che passava in quel momento per la via Etnea.

    Sull’atteggiamento verghiano di questi ultimi anni, sul suo lungo silenzio letterario, sono state avanzate delle ipotesi, diverse spiegazioni: c’è chi (come Luigi Russo e Natalino Sapegno) ha parlato di un incupirsi del suo pessimismo; c’è chi ha messo in risalto le difficoltà incontrate dallo scrittore (che in quel momento stava lavorando a La Duchessa di Leyra, terzo romanzo del “ciclo dei Vinti“), nella rappresentazione di una società radicalmente diversa da quelle affrontate ne I Malavoglia e in Mastro Don Gesualdo (dimenticando che, comunque, tali ambienti il Verga aveva dimostrato di sapere ben descrivere nei romanzi giovanili); c’è chi – come Gino Raya – ha posto l’accento, invece, sul fatto che, in questo periodo, il cantore, il poeta della roba è diventato l’uomo della roba, un conservatore e difensore dell’ordine costituito, che vive in una atmosfera piuttosto quieta se non pigra, in cui le veglie milanesi cedono il posto al tressette del Circolo Unione, la produzione letteraria ai pro-memoria legali per interminabili liti.

    Tuttavia, anche in questo periodo, la sua operosità intellettuale è sicuramente superiore a quanto comunemente si creda e si dica: qualora si tenga conto che quest’espressione sottintende non solo l’attività letteraria e teatrale, ma qualsiasi impegno culturale.

    Se ne ha una prova con la pubblicazione, da parte dello stesso Raya, delle lettere che Verga ha scritto all’amica – ed amante – Contessa Dina Castellazzi di Sordevolo, in quasi trent’anni: qui si notano, certamente, le sue preoccupazioni economiche, con i limoni di Nuovalucello o per l’esito delle cause con Mascagni e Sonzogno prima, Puccio e Monleone dopo; ma si vede anche che il Verga s’interessa e lavora attivamente nell’ambito di quel cinema che, comparso sul finire del secolo scorso, ai primi del Novecento si andava sempre più diffondendo, ottenendo un grande successo di pubblico, pari solo alla diffidenza, se non all’ostilità, che, pur con parecchie eccezioni, il mondo intellettuale continuava a riservargli.

    Il nostro excursus critico-storico si prefigge di analizzare il rapporto Verga-cinema prendendo in considerazione il duplice aspetto che tale rapporto presuppone: vale a dire, l’interesse di Verga nei confronti del cinema e l’atteggiamento del mondo del cinema nei suoi riguardi. Esso, nella sua prima parte, si basa naturalmente su tutte le lettere scritte da Verga o a lui rivolte, che costituiscono la più importante, forse unica, fonte di documentazione sull’argomento, e tiene conto anche delle riflessioni contenute nei fondamentali ed esaurienti lavori di Sarah Zappulla Muscarà e di Gino Raya.

Verga versus cinema

    Nel momento in cui il cinema dei primi tempi vuole “nobilitare”, le sue oscure origini di divertimento adatto a gusti tutto sommato poco esigenti, e vuole darsi una patina di cultura, deve fare in modo che gli si accosti proprio quel mondo di intellettuali e di scrittori che più mostra di disprezzarlo. Per ottenere questo scopo non ha che una strada praticabile, quella del denaro, dinanzi a cui scrittori ed intellettuali si ricordano del vecchio detto latino che recita: pecunia non olet. Così fan tutti (o quasi). Così fa certamente Giovanni Verga che – costantemente assillato, in tutta la sua vita, da problemi di denaro – non poteva certo rimanere insensibile al fascino di questa nuova arte e – soprattutto – alle grandi potenzialità economiche in essa insite, tanto che è sicuramente tra i primissimi scrittori ad accostarvisi (nonostante le sue reticenze e resistenze). Infatti, volendo schematizzare al massimo, l’atteggiamento di Verga nei confronti del cinema fu in perfetta sintonia con quello di buona parte degli altri intellettuali e scrittori dell’epoca, per i quali – come osserva acutamente Giuseppe Petronio – «il cinema era ciò che per il borghese (piccolo, medio, alto) era la prostituta»: un male necessario a scaricare su di sé la concupiscenza maschile, così come il cinema, scaricando su di sé le basse voglie del volgo, poteva consentire al teatro di mantenere intatta la sua verginità, artistica. Il che, ovviamente, non doveva impedire allo scrittore di fornicare qualche volta col cinema, a fini di rinomanza o di guadagno, proprio come il disprezzo per la prostituta non impediva al borghese di fornicare con essa».

La fotografia

    Già Verga, come hanno dimostrato i risultati delle preziose ricerche di Giovanni Garra Agosta, si era accostato, con grande passione, alla fotografia, mostrando notevole interesse nei confronti della fotocamera, che venne definita la novità del secolo, da cui furono attratti anche altri scrittori: Capuana, De Roberto, Zola che – come Verga – si cimentarono personalmente in riprese fotografiche. Per essi, la fotografia non è solo un oggetto di moda, ma un importante strumento di lettura e riproduzione della realtà, che si accosta notevolmente alla loro poetica; un oggetto che – peraltro – entrò a far parte (direttamente o indirettamente) della vita quotidiana di persone di ogni ceto sociale. Ve n’è un’eco ne I Malavoglia, quando Verga descrive, nel primo capitolo, lo stupore e l’agitarsi prodotto nei familiari dal ritratto che ‘Ntoni militare spedisce a casa.

    I soggetti preferiti da Verga sono soprattutto la gente e i paesaggi della Sicilia: scorci di vie, sguardi e atteggiamenti di contadini, campieri, massaie, giovanetti, che sembrano tratti dalle pagine delle novelle e dei romanzi di impianto veristico: ed infatti, esiste indubbiamente una relazione, uno stretto legame di parentela fra la narrazione oggettiva, impersonale (che, sia pure impropriamente, è stata definita “fotografica”) e la sua attività di fotografo.

    Ma la fotografia è anche la più diretta precorritrice del cinema, che, non a caso al suo apparire, fu chiamato, per moltissimo tempo, “fotografia animata” (ed anche Kinefotografo, termine poco noto da non confondere con Kinetografo, ma abbastanza attestato, specie in Sicilia): e ciò può servire a spiegare – aldilà della “molla economica”, che è sicuramente prevalente – l’interesse di Verga nei confronti del cinema: il quale, oltretutto, occupa attivamente i suoi ultimi undici anni di vita, dal novembre del 1909 (quando Verga aveva 69 anni) all’agosto del 1927 (cinque mesi prima della sua morte).

Il primo approccio al cinema 

    Verga si accosta ai cinema per la prima volta nel 1909: si tratta del suo più grande successo, cioè di quella Cavalleria rusticana che, tratta da una sua novella, era stata poi dal Verga stesso rielaborata in un dramma, presentato per la prima volta al Teatro Carignano di Torino il 14 gennaio 1884, prima che Pietro Mascagni, su libretto di G. Targioni-Tozzelli e G. Menasci, ne traesse un’opera che avrebbe contribuito a perpetuarne il successo, anche a livello popolare.

    Fu l’A.C.A.D. (Association Cinématographique des Auteurs Dramatiques) di Parigi, diretta da monsieur R. Agnel, a fargli la richiesta per lo sfruttamento cinematografico del soggetto. Verga, senza farsi troppo pregare, diede l’autorizzazione, senza limiti, per tutti i paesi, in cambio della cifra di 500 franchi (anche se, in lettere successive, si parla di 500 lire italiane) da dividere fra lui e la sceneggiatrice, Giulia Dembowska (anche nota con lo pseudonimo di Giulia Darsenne); ma si disinteressò completamente della faccenda, tant’è che quando la Dembowska, con molta correttezza, gli inviò la copia della sceneggiatura chiedendogli di intervenire a suo piacimento, egli gliela rimandò indietro senza neppure leggerla per intero.

    Il film, realizzato nel 1910 da Émile Chautard o – come sembra più plausibile – da Raymond Agnel, non piacque per nulla a Verga, che così ebbe occasione di scrivere a Dina: «Figurati che di Cavalleria rusticana ne fecero una rappresentazione che io non arrivavo a capire quando andai per curiosità a vederla. Ma tant’è così serviva a loro. (Catania, 17 gennaio 1972). Quel che è certo è che, ben presto, Verga comincia ad avere sempre più frequenti richieste per la cessione dei diritti cinematografici relativi a Cavalleria rusticana, cosicché sempre più egli si pente dell’incauta cessione all’A.C.A.D. del 1909, da cui – dopo vari tentativi – riesce a “liberarsi” molti anni dopo, grazie all’aiuto dell’amico Federico De Roberto.

NINO GENOVESE E SEBASTIANO GESÙ

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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