PIETRO GERMI

Pietro Germi (Genova, 14 settembre 1914 – Roma, 5 dicembre 1974) è stato un regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico e televisivo italiano.

Dopo essersi dedicato prevalentemente a pellicole di stampo drammatico e dalla forte critica sociale e politica, nella fase della piena maturità cominciò ad interessarsi alla commedia, realizzando film che, pur conservando le tematiche dei suoi precedenti lavori, assumevano spiccati toni satirici e cinicamente umoristici, che lo hanno portato ad essere considerato uno dei più importanti esponenti della commedia all’italiana (lo stesso termine fu ispirato da un suo film, Divorzio all’italiana, che gli valse il Prix de la meilleure comédie alla 15ª edizione del Festival di Cannes e il Premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 1963).

Inizia la sua carriera di attore a 25 anni in Retroscena (1939), in cui lavora anche come co-sceneggiatore. Lavora sempre come attore in Gli ultimi filibustieri (1941) e in Montecassino nel cerchio di fuoco (1946). Studia a Roma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove segue i corsi di regia di Alessandro Blasetti. Nel 1945 esordisce alla regia con Il testimone, di cui firma anche il soggetto, un giallo psicologico del tutto insolito negli anni del neorealismo.

Seguono il poliziesco d’ispirazione americana Gioventù perduta (1947) e In nome della legge (1949), con Massimo Girotti prodotto da Luigi Rovere, vincitore di tre nastri d’argento e campione d’incassi. Uno dei primi film italiani sulla mafia, per il quale Germi riceve un Nastro d’argento speciale, che lo consacra come autore. Con il dramma neorealista Il cammino della speranza (1950), sempre prodotto da Rovere, Germi raggiunge per la prima volta un livello internazionale. Il film è presentato in concorso al Cannes e vince l’Orso d’argento e l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Il noir realistico La città si difende (1951) viene premiato come miglior film italiano al Festival di Venezia.

Con i suoi film successivi Germi non convince la critica, ma mantiene un rapporto privilegiato con il pubblico. Nel 1952 dirige La presidentessa, adattamento per il cinema dell’omonima commedia teatrale di Maurice Hennequin e Pierre Veber, un titolo eccentrico nella sua filmografia, e il “western sudista” Il brigante di Tacca del Lupo, con Amedeo Nazzari, tratto dal romanzo omonimo di Riccardo Bacchelli. Nel 1953 con Gelosia porta nuovamente sul grande schermo il romanzo di Luigi Capuana Il marchese di Roccaverdina, dopo la versione di appena dieci anni prima diretta da Ferdinando Maria Poggioli, e partecipa al modesto film a episodi Amori di mezzo secolo con il segmento Guerra 1915-1918.

Resta inattivo per quasi due anni, ma nel 1955, con Il ferroviere, gira una delle sue opere più riuscite e intense. Il ferroviere ottiene un notevole successo di pubblico ed è considerato uno dei capolavori del regista genovese e una fra le ultime grandi espressioni del neorealismo cinematografico italiano.

Ad esso succedono film come L’uomo di paglia (1958), e il capolavoro Un maledetto imbroglio (1959) tratto dal romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda: uno dei primi esempi di poliziesco italiano apprezzato, tra gli altri, da Pier Paolo Pasolini. Nel 1961 spiazza pubblico e critica dando alla sua carriera una svolta imprevedibile: comincia infatti a girare commedie pungenti, satiriche e grottesche.

Il capolavoro Divorzio all’italiana (1961), in cui tratteggia l’indimenticabile barone Cefalù interpretato da Marcello Mastroianni irretito dall’adolescente Stefania Sandrelli, apre questa nuova fortunata stagione della sua carriera; il film, scritto con Ennio De Concini e Alfredo Giannetti e incentrato sul delitto d’onore, riceve una candidatura all’Oscar per la miglior regia, un’altra a Mastroianni come miglior attore e ottiene quello per il miglior soggetto e sceneggiatura originale oltre ad altri prestigiosi riconoscimenti. Dal titolo del film ha preso il nome un certo tipo di commedia prodotta in Italia in quel periodo nota come commedia all’italiana.

Pietro Germi era un uomo del Nord ma il suo carattere umorale e passionale, nascosto sotto l’apparente scorza di scontrosità e intransigenza, lo faceva essere vicino alla gente meridionale di cui conosceva e criticava talora severamente il modo di concepire la vita, i pregiudizi e gli errori ma di cui anche apprezzava le qualità innate. Un rapporto di amore-odio il suo per il Sud e i meridionali che si ritrova in tanti suoi film: nel personaggio del mafioso rispettabile nella sua coerenza e adesione ad una sua legge che si contrappone alla Legge di uno Stato lontano e indifferente, come nel film In nome della legge (1949) e nel malinteso senso siciliano dell’onore di Divorzio all’italiana e di Sedotta e abbandonata, film questi ultimi degli anni ’60 dove prevale ormai in Germi, che sta perdendo la fiducia in un rinnovamento culturale meridionale, la critica corrosiva verso una società che vede incapace di scuotersi e di abbandonare le sue convinzioni secolari.

Con Sedotta e abbandonata (1964) Germi torna per l’ultima volta a girare in Sicilia, una Regione legata al regista genovese da una particolare empatia.

Ma anche il Nord non è risparmiato dalla critica corrosiva di Germi. Il 1965 è l’anno del limpido Signore & signori con Virna Lisi e Gastone Moschin, satira sull’ipocrisia borghese di una cittadina del Veneto e girato a Treviso. Il film vince la Palma d’oro al Festival di Cannes ex aequo con Un uomo, una donna di Claude Lelouch. Dirige la coppia Ugo Tognazzi e Stefania Sandrelli in L’immorale (1967), gradevole film ispirato, forse, alle vicende personali di Vittorio De Sica.

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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