ROBERT BRESSON, DEL CINEMA E DELLA VIRTÙ

Il poeta più austero del cinema francese,  Leone d’oro a Venezia per Diario di un parroco di campagna (1951), da Bernanos. Il suo film “sotto esame” è Lanciltotto e Ginevra (1974), sul1e gesta dei cavalieri della Tavola Rotonda e sugli amori dolorosi e contrastati di Lancillotto per Ginevra, moglie di re Artù.

Cosa l’ha indotto ad occuparsi di un tema come quello del Gral e della Tavola Rotonda?

    «L’idea di trarlo dalla nostra mitologia nazionale e una situazione: quella dei cavalieri che tornano al castello di re Artù senza il Gral. Senza il Gral, vale a dire senza l’assoluto, senza Dio. Il Gra1, un simbolo cristiano. Ma anche un simbolo che si ritrova nelle vecchie leggende celtiche pagane. Così come, stranamente, il mito greco di Orfeo e Euridice si ritrova nel Chevalier à la charrette che risale a1 XII secolo».

Può parlarmi de1 film?

    «Ci sono dei cavalli, dei cavalieri armati, un torneo… il più possibile anacronistici. Per essere creduti, il passato bisogna coniugarlo al presente».

C’è anche della violenza, comunque, e un grande amore.

    «La violenza è quella delle grandi avventure bretoni, in cui il sangue scorre a fiotti. L’amore… Lancillotto e Ginevra sono Tristano e Isotta senza filtro magico. Un amore predestinato, un amore-passione alle prese con ostacoli insormontabili. Sono questo amore e le sue fluttuazioni a dare al film il suo movimento».

Anche questa volta, naturalmente, il soggetto lo ha scritto lei, da solo.

    «Certo, perché è necessario, fin dal principio, essere padroni assoluti delle proprie idee. Soprattutto quando si preferisce improvvisare. I dialoghi, ad. esempio, li avevo scritti in anticipo, ma li ho modificati poi via via che giravo il film. Ho notato spesso che quello che non riesco a risolvere sulla carta scrivendo, lo risolvo poi nel modo migliore, sul posto, mentre giro».

Lancillotto e Ginevra è il suo primo film di massa e al di fuori, perciò, dalle sue abitudini. Non si è sentito un po’ a disagio dirigendolo?

    «Contrariamente a quello che si pensa, se uno sa fare il meno, sa fare anche il più. E poi la massa non impedisce che ci si occupi anche del dettaglio, suggerendo anziché mostrando, oppure dando la precedenza al sonoro. Ira sequenza del torneo, ad esempio, è stata montata tutta in funzione dell’udito… come la maggior parte delle altre sequenze, del resto ».

Neanche questa volta attori professionisti. È in polemica con loro?

    «Tutt’altro. Molti sono anche miei amici. Sarebbe come se si dicesse a uno: “Sei pittore, e allora sei in polemica con gli scrittori”. Amo il teatro, amo gli attori. Ma non potrei mai lavorare con loro. Ho bisogno degli anonimi, di quelli che definisco i miei “modelli”. Una volta li sceglievo in base alle loro affinità morali con i personaggi. Adesso, per sceglierli, mi basta che non vi contrastino. E questo perché 1’esperienza mi ha insegnato che la realtà contiene una serie infinita di possibilità che si scoprono soltanto dopo. Così mi affido al fiuto; e alla fortuna. E, naturalmente, anche alla voce. La voce è una cosa “divina”. Isolata dall’aspetto fisico di qualcuno, aiuta quasi sempre a non sbagliare. O a sbagliare pochissimo».

E come li dirige questi suoi «modelli»?

    «Non si tratta cli dirigere un altro, ma se stessi. Il resto è telepatia».

Pubblicazioni di riferimento: Positif (AA. e Nrr. VV.), Image et son (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Cinématographe (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.)

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