ALESSANDRO BLASETTI. PADRE DEL CINEMA MODERNO

Uno dei Padri del cinema italiano, fondatore, con Rossellini, De Sica e Visconti del neorealismo che, con Quattro passi fra le nuvole, anticipò fin dal 1942. Romano autentico,  esordì nel cinema nel 1929, con Sole, in cui Alberto Cecchi vide cominciare « non la rinascita ma addirittura il rinascimento del cinema italiano ». Fra le sue opere maggiori, 1860, del 1933 (definito da Georges Sadoul « uno dei pochi film di valore girati in Italia negli anni Trenta »), Un giorno nella vita, 1946, logico sviluppo delle sicure intuizioni realistiche Quattro passi fra le nuvole, Prima conunione, 1950, premiato a Venezia; cui seguirono film che, spesso, concorsero, tra i primi, a creare mode, ad avviare generi o filoni.

Vogliamo cominciare con le tue dichiarazioni di non voler più dirigere film d’autore? Qualcuno ha detto che, dopo averle fatte, hai continuato invece a realizzare film.

    « Una sola volta ho dichiarato di lasciare il campo ai giovani: nel febbraio del 1965. La comprensibile gioia con cui fu appresa la notizia nell’ambiente, fece presto dimenticare quello che, contemporaneamente, avevo precisato: e cioè che, rinunciando alle ambizioni dell’autore, non rinunciavo affatto alle esigenze del professionista, esigenze non soltanto materiali perché, dichiaravo, per me il lavoro è necessario alla vita come l’aria, l’acqua, il pane. Avrei perciò seguitato la mia professione con il solo limite di non contraddire le poche cose dette fino a Io, io, io… e gli altri, che sarebbe stato, ed è stato effettivamente, il mio ultimo film d’autore ».

L’autore del film, per te, è sempre l’autore del soggetto e della sceneggiatura?

    Il cinema – dissi a Venezia, in una conferenza tenuta per l’Unesco e qui lo ripeto – è il fiore dell’arte germinato nella nostra era collettivistica: un’arte collettiva. Il regista è autore unico delle opere fallite. È lui che sceglie, è lui che conduce, è lui che conclude. Se non ha saputo scegliere, condurre e concludere la colpa è soltanto sua. Ma quando si esalta Rossellini per Roma città aperta non si possono lasciare nell’ombra, tanto per fare due primi nomi, Sergio Amidei ed Anna Magnani. E Flaiano e Pinelli e Gherardi possono essere ignorati parlando di Fellini? Riconoscimenti, questi, che non tolgono nulla alla determinante importanza artistica di Rossellini e di Fellini, tolgono loro soltanto il declassante sospetto di appropriazioni indebite. E danno a ciascuno il suo, stabilendo finalmente che mentre romanzo, pittura, scultura e musica richiedono e comportano che sia uno solo l’autore, il cinema comporta e richiede il contributo artistico di una collettività.  Quando con i miei due zibaldoni Altri tempi e Tempi nostri detti il via ai film ad episodi (come introduzione nelle cineteche dell’equivalente di quel che sono i libri di novelle nelle biblioteche) lo feci anche a dimostrazione, in corpore vili, di questo mio punto di vista. E accoppiando Pirandello a De Amicis e Moravia a Marotta, più che dimostrare, come volevo, con la massima evidenza, quale fosse l’importanza del testo nel complesso dell’opera-film, schiacciai talmente il mio intervento di regista da giustificare l’equivoco dell’interpretazione che mi si attribuisce. Riuscii però nell’intento; fu da allora che l’attenzione della critica non si accentrò soltanto sul regista ma fu chiamata a tener conto del peso, più o meno ma comunque sempre rimarchevole, dei suoi collaboratori ».

Qual è il tuo film che ti è più caro?

    « Ho sempre detto Un giorno nella vita perché nacque nei giorni più fervidi della fratellanza nel mondo, quando perfino i francesi dettero alla loro patria importanza non superiore alle patrie altrui scoprendo e decretando nascita e trionfo di una cosa non loro: il nostro neorealismo. Ma come potrei dire oggi – cioè, ormai, lasciar detto – che mi è meno caro il primo film, Sole, se non altro per la inverosimile fatica giovanile che costò ai miei amici (ed a me) riuscire a farlo sorgere dalla palude che aveva sommerso – e tutti credevano per sempre – il cinema italiano? E dovrei relegare in un cantuccio 1860 perché alcuni saggisti del massimalismo di sinistra gli rimproverano di essersi concluso a Calatafimi (momento determinante per l’unità d’Italia che i film si proponeva di celebrare), anziché a Bronte con le sue sacrosante ma non pertinenti implicazioni sociali? E dovrei dimenticare Vecchia guardia – altro film presentimento di neo-realismo dopo i due precedenti – film cui debbo di avermi fatto chiudere per sempre il periodo della mia balorda credenza che possa esistere buona fede in politica? E Quattro passi fra le nuvole che aprì la mia collaborazione con Cesare Zavattini e fece parlare i francesi, insieme con Roma di città aperta, della nascita di un neorealismo italiano? In forza di quel paterno amore che ciascuno ha per se stesso mi sembra difficile che un regista possa chiamar figlio uno dei suoi film e figliastri gli altri, specie quando ne ha messi al mondo parecchi ».

Qual è allora il film che rifaresti oggi tale e quale?

    « Nessuno. Perché non son sicuro che riuscirei a fare altrettanto bene quello che le circostanze mi misero in condizione di far bene. Mentre forse mi verrebbe peggio quel che volessi correggere perché venne male ».

Come giudichi il cinema italiano di oggi?

    « Non è possibile esprimere un parere sul cinema italiano di oggi perché oggi un cinema italiano non c’è più. C’era, qualunque sia il giudizio che se ne possa dare, negli anni Trenta. C’era subito dopo la guerra, negli anni Quaranta e in gran parte dei Cinquanta. Dagli anni Sessanta in poi il nostro prestigio, forse anche accresciuto, si è fondato però su singoli artisti i cui interessi sono diversi e lontani come lo sono Visconti e Fellini, Antonioni e Rosi, Petri e Bertolucci, De Sica e Pasolini. Complessivamente si possono trarre conclusioni confortanti nel rilevare una serietà sempre più diffusa, un impegno sempre più determinante nella ultima generazione dei Damiani, Vancini, Montaldo, Bellocchio, Cavani ed altri; impegno e determinazione che possono risolversi a volte, debbo rilevare, in armi a doppio taglio quando, per la rigorosa osservanza di contenuti e di forme, per il rifuggire dallo spettacolo (dico spettacolo non spettacolare) come da una vergogna, approdano al risultato di allontanare dalle sale proprio quelle masse alle quali si dirigono e che rifuggono, a loro volta in quanto spettatrici, dalle lezioni e dalle requisitorie ».

Come si è inserita la tua trasmissione televisiva L’arte di far ridere nella tua lunga carriera cinematografica?

    « Si è inserita nella mia non breve carriera televisiva (cominciata quindici anni fa), fase terminale della mia carriera cinematografica. Si è inserita, cioè, come una delle tappe conclusive sulla strada della mia sempre più cosciente convinzione che chi lavora per lo schermo, piccolo o grande che sia, come prima operazione deve prefigurarsi l’immenso pubblico al quale si rivolge, il pubblico di oggi, per cercare umilmente temi che gli siano accessibili e linguaggio che lo attragga, lo interessi e, nello stesso tempo, lo prepari gradualmente a diventare il pubblico sempre più progredito di domani; e di dopodomani. Se la sua vocazione, invece, e il suo estro gli impongono di esprimersi senza questi limiti, nella indipendenza totale dal livello della massa, allora deve accettare i campi, dichiarati, dell’esperimento e dell’avanguardia, e rivolgersi al pubblico della libreria e del teatro, che è anche quello della saggistica, in grado di apprezzare nuove forme e nuovi contenuti, idoneo a registrarli nella storia del progresso dell’arte audiovisiva e pronto quindi ad affidare alla carta stampata il nome di chi, lavorando per sé, è riuscito – quando accade che riesca – a far opera valida per tutti. (Chi scrive, invece,  sulla pellicola o sul nastro magnetico scrive sull’acqua perché la materia di cui si serve e cui si affida si deteriora rapidamente, si sfalda, si disperde in cenere nel corso di pochi decenni. E dunque conviene che egli cerchi almeno di essere utile, per dare validità a suo lavoro nella breve stagione in cui vi si accinge). L’ arte di far ridere era nata con l’intenzione di rendere omaggio a quei benefattori dell’umanità, autori ed attori, che spendono la loro vita, spesso umilissima e ancor più spesso umiliata, nella dura fatica di riuscire a far ridere, sorridere, divertire il prossimo affaticato e rattristato. Omaggio dovuto non soltanto per i casi, i più frequenti, nei quali il ridere nasce dalla frustata, dal colpo di punta, dalla messa in berlina di una critica umana e sociale; ma anche quando il ridere, che fa buon sangue, è fine a se stesso e cioè si limita a ben disporre perché si rinunci al gusto di guastare il sangue degli altri. Per l’uomo, a sera, il vuoto di buon umore equivale al vuoto della scodella e del bicchiere ».

Qual’è il tuo parere sulla televisione? Arte, strumento, linguaggio?

    « Arte? Lasciamo perdere. Non ci si avvicina alla televisione per puntare sulla approvazione del saggista rigoroso e esigente. Linguaggio? Il più semplice, il più popolare, perché destinato al più ampio raggio di spettatori. Ciò significa, in pari tempo, che la televisione è lo strumento più potente di cui si possa disporre oggi e per il quale, quindi, incombono su chi ne usa gravi e complessi doveri che si riassumono presso a poco in questa norma: “lavorare il meno possibile per se stesso“. E torno così al senso del mio ultimo film di autore Io, io, io… e gli altri che va inteso, capovolgendone l’enunciazione. Gli altri, gli altri, gli altri… ed io ».

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