NINNI BRUSCHETTA, DA MESSINA A… “BORIS”, UN TALENTO PER TUTTE LE STAGIONI

Da messinese doc, quindi cresciuto on la punta calabrese dello stivale dinanzi al viso, a distanza di uno stretto, Antonino “NinniBruschetta parlò così di ciò che rappresenta per un siciliano l’attraversare e vivere lo Stretto di Messina.

“Lo Stretto si deve attraversare e interpretare. La nostra civiltà, la civiltà siciliana, è privilegiata perché ha una sacralità, penso alla zona dionisiaca di Siracusa, alla magia di Agrigento e al territorio di Messina abitato dalle leggende della fata Morgana. Da questa parte c’è lo spirito che si incarna nella materia, dall’altro lato… c’è il fatto di essere passati! Attraversare lo Stretto è importante perché vuol dire confrontarsi con gli altri. Ma, nello stesso tempo: lo Stretto non va attraversato per curare quello che abbiamo qua.”

Nato il 6 gennaio 1962, è un talento precoce Bruschetta. A soli ventuno anni fonda una sua compagnia teatrale – la Nutrimenti Terrestri – dove si distinguerà come raffinato regista alternando a soggetti di critica sociale, altri ben più elevati del Bardo Shakespeare. Una solida esperienza che nelle successive decadi vedrà Bruschetta adattare sul palco opere come I carabinieri (1993) di Beniamino Joppolo, Corruzione al Palazzo di giustizia (1999) di Ugo Betti e L’istruttoria – Atti del processo in morte di Giuseppe Fava (2006), al Giulio Cesare (1998), Antonio e Cleopatra (2001) e Amleto (2016) di William Shakespeare. Nella metà degli anni Novanta, per la precisione tra 1996 e il 1999 è stato il direttore artistico del Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Al contempo, Bruschetta s’impone in ambito cinematografico. Si fa notare dal regista siciliano Francesco Calogero che lo sceglie come interprete e co-sceneggiatore per La gentilezza del tocco (1988) e Visioni private (1989), opere a metà tra il meta-cinema e la meta-critica dal sapore morettiano d’indubbio interesse artistico. Cresce così la sua presenza sul Grande schermo prendendo parte a Caldo soffocante (1991) di Giovanna Gagliardo, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 44esimo Festival di Cannes, Libera (1993) di Pappi Corsicato, presentato al Festival di Berlino 1993 e vincitore del Nastro d’argento come migliore opera prima, Il giudice ragazzino (1994) di Alessandro Di Robilant, tutto incentrato sulla figura del giudice siciliano, Rosario Livatino, impegnato nella lotta alla mafia e infine assassinato il 21 settembre 1990.

Tutti ruoli da comprimario che gli valgono la fama di brillante caratterista. Un pedigree che grazie alla sua mimica inconfondibile gli permette di prender parte a opere ben più rilevanti del calibro de I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, L’uomo in più (2001), frizzante esordio di Paolo Sorrentino, nonché quello sopra le righe del cantautore Franco Battiato: Perduto Amor (2003). Altre partecipazioni degne di nota corrispondono a Il siero delle vanità (2004) di Alex Infascelli e Mio fratello è figlio unico (2007) di Daniele Luchetti. Un eclettismo produttivo di cui parlò così nella sua seconda opera letteraria, Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista:

“Se c’è una cosa che ho imparato facendo questo mestiere, è di non fare mai previsioni. Ho girato cose che sapevano di sfiga lontano un miglio e che poi invece si sono rivelate un successo. E viceversa. Ho capito molto rapidamente che il pubblico è una variabile incontrollata e che tutto ciò che succede al di là dello schermo è imprevedibile, del tutto privo di regole. Se non fosse per questo, mi accingerei a scrivere il Requiem della fiction italiana che, a naso, sembrerebbe crollata, deceduta improvvisamente negli ascolti e soprattutto nella qualità. Dopo le saghe mafiose, il terrorismo, il falso patriottismo, dopo aver proposto in tutte le salse le scuole e gli adolescenti, dopo aver decretato il declino dello sceneggiato in costume, dopo i papi, i santi, i preti, dopo gli instant movie non riusciti, fino ad arrivare alla satira della fiction stessa, cosa altro ci potrà essere?”

Contemporaneamente, a partire dai primi anni duemila, Bruschetta prende parte ad alcune delle fiction più rilevanti del panorama seriale italiano: La squadra (2002), Paolo Borsellino (2004), R.I.S. – Delitti imperfetti (2006) e Don Matteo (2000 – in onda). Il più importante di tutti i ruoli però, quello che gli ha dato notorietà internazionale consolidandosi nell’immaginario collettivo è quello del direttore della fotografia Duccio Patané della serie Boris (2007 – in onda). Personaggio sopra le righe, irriverente, nel pieno dello stile narrativo della creatura di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, reso grande dal talento istrionico del Bruschetta-interprete, di cui ha piena consapevolezza il Bruschetta-autore, parlandone così:

Il mio personaggio è, ovviamente, un non protagonista (anche se un non protagonista d’eccezione) e si chiama Duccio. […] Lui è qualcosa di un non protagonista. Duccio è un non protagonista che ti cambia la vita. Se da allora una parte di me è diventata Duccio, direi che è del tutto normale, è lavoro, ma se una parte di Duccio è diventata me è stato grazie a quel pomeriggio così sfigato.

La fuori-serie italiana – divenuta poi pellicola a pieno titolo nel 2011 con Boris – Il film – capace d’insinuarsi nei meandri dei palinsesti per poi sovvertirne la percezione. Un gioiello seriale e filmico Boris, passato quasi in sordina in onda su Fox ma divenuta leggendaria tra streaming e server pirata, capace di giocare con l’inerzia di quello stesso sistema artistico-industriale fatto di narrazioni stereotipate, spiegoni e un pubblico da ravvivare di puntata in puntata, giustificandone perfino la voglia di un revival voluto e bramato da una solidissima fan-base a distanza di dieci anni dalla toccata-e-fuga cinematografica. Qualcosa di cui Bruschetta ha cercato di dare una spiegazione, in relazione al rapporto con la sua carriera:

Boris è stato il più grande successo della mia vita professionale, anche se non tutti sanno di cosa stia parlando. Sì, è così. Certe volte, quando i fan delle grandi serie che vanno sulle TV generaliste (Distretto di polizia, Squadra antimafia, Fuoriclasse ecc…) mi fermano per strada, non sanno neppure cosa sia Boris, non lo hanno mai visto, addirittura non ne hanno mai sentito parlare. So che per chi lo ha amato può sembrare assurdo: a loro sembra che l’unica serie TV del mondo sia quella! In verità, Boris ha creato un pubblico che non è un vero e proprio pubblico televisivo, ma è enorme e dura nel tempo. È stata la prima serie italiana a passare in streaming e si è distanziata dagli altri prodotti tanto quanto li ha stigmatizzati.
Nessuno se la prenda, ma solo Boris e altre due o tre serie italiane hanno avuto questo effetto, cioè un effetto “mito”. Ed è perché c’è una verità che è stata raccontata in libertà, è un’idea, una creazione degli autori, che l’hanno realizzata, con noi, nel rispetto solo della loro idea, che era, evidentemente, vincente. […] Quando mi hanno fermato a Centocelle, a Floridia o alla Vucciria, ho capito che il fan di Boris è diverso perché è con te, perché crede in quello che quel personaggio racconta e ammira il fatto che tu l’abbia saputo raccontare. Per me il vero successo è questo.

Nella parentesi tra una declinazione di Boris e l’altra, Bruschetta consolida la sua posizione da caratterista divenendo sempre più ricercato tra i registi nostrani e non. Dall’infelice ma interessante To Rome with Love (2012) di Woody Allen a Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno sino a La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif, Quo vado? (2016) e Il vegetale (2018) di Gennaro Nunziante, La linea verticale (2018) di Mattia Torre, La concessione del telefono (2020) di Roan Johnson e Cosa sarà (2020) di Francesco Bruni. È questo Ninni Bruschetta, piena espressione di come gavetta e duro lavoro diano sempre i propri frutti. Un talento istrionico e sempre sul pezzo. Un artista per tutte le stagioni con la Sicilia e la sicilianità nel cuore.

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