GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA, IL GATTOPARDO SICILIANO DELLA LETTERATURA ITALIANA

Premio Strega, Principe illuminato, eroe di guerra, letterato, il successo postumo di un’icona della sicilianità.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 12º duca di Palma, 11º principe di Lampedusa, barone della Torretta, Grande di Spagna di prima Classe nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896, figlio di Giulio Maria Tomasi (1868-1934) e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò (1870-1946).

    Da sempre molto legato alla madre Beatrice – donna di carattere che influì non poco sulle sue scelte di carriera – lo stesso non può dirsi del rapporto con il padre Giulio Maria, uomo freddo e distaccato, da cui acquisì i sopracitati titoli il giorno della sua morte, il 25 giugno 1934.

Sembrerebbe che il casato dei Tomasi di Lampedusa abbia origini bizantine, nonché una discendenza dalla famiglia Leopardi di Recanati – esattamente quella del celebre poeta romantico de L’infinito (1825). Rimasto figlio unico dopo la morte della sorella maggiore Stefania, avvenuta a causa di una difterite nel 1897, Giuseppe Tomasi studiò, da bambino, secondo un’educazione prettamente familiare e con l’ausilio di una maestra privata. La madre gli insegnò il francese, e la nonna gli leggeva i romanzi di Salgari. L’arte entrò da subito nella sua vita, tanto che nel piccolo teatro della residenza di Santa Margherita Belice, assistette per la prima volta a una rappresentazione dell’Amleto, recitato da una compagnia di girovaghi.

    Nel 1911 Tomasi di Lampedusa frequentò il liceo classico a Roma e in seguito a Palermo. Sempre a Roma nel 1915 s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, senza terminare gli studi. Nello stesso anno prese parte alla Grande guerra come ufficiale d’artiglieria; nella disfatta di Caporetto ebbe la peggio, fu catturato dagli austriaci che lo imprigionarono in Ungheria. Riuscito a fuggire, tornò a piedi in Italia. Dopo quest’ultima esperienza, Tomasi di Lampedusa scelse di dimettersi dal Regio Esercito con il grado di Tenente. Tornato così nella sua casa in Sicilia, viaggiò per il mondo assieme alla madre Beatrice, svolgendo studi sulle letterature straniere. Nel 1925, insieme al cugino Lucio Piccolo, si recò a Genova, dove si trattenne circa sei mesi, collaborando alla rivista letteraria Le opere e i giorni.

    Il 24 agosto 1932, a Riga (Lettonia), Tomasi di Lampedusa sposò in una chiesa ortodossa la studiosa di psicanalisi Alexandra Wolff Stomersee, detta Licy, figlia del barone tedesco del Baltico Boris Wolff von Stomersee e della cantante italiana Alice Barbi, la quale – a sua volta – nel 1920 aveva sposato in seconde nozze il diplomatico Pietro Tomasi, marchese della Torretta, zio di Giuseppe. I due andarono a vivere con la madre di lui a Palermo, ma ben presto l’incompatibilità di carattere tra le due donne – e la sua costante presenza nella vita di Tomasi di Lampedusa – fece tornare Licy in Lettonia. Nel 1940 venne richiamato alle armi per prendere parte alla Seconda guerra mondiale ma, essendo a capo dell’azienda agricola ereditata, fu presto congedato. Si rifugiò così – con la madre – a Villa Piccolo (Capo d’Orlando), dove poi li raggiunse la moglie Licy, per sfuggire ai pericoli della guerra.
Nel 1944 fu nominato presidente provinciale della Croce Rossa Italiana di Palermo e poi presidente regionale, fino al 1946.

    Il 1953 è un anno importante nella vita del Principe. Tomasi di Lampedusa iniziò a frequentare un gruppo di giovani intellettuali di cui facevano parte Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Mazzarino, con cui nacque un’amicizia importante, al punto da adottarlo qualche anno dopo. Gioacchino fu ribattezzato, così, Gioacchino Lanza Tomasi. L’anno successivo, a San Pellegrino Terme con il cugino Lucio Piccolo, assiste a un convegno letterario dove ebbe modo di conoscere Eugenio Montale e Maria Bellonci. Si dice che fu al ritorno da quel viaggio che iniziò a scrivere Il Gattopardo, ultimato due anni dopo, nel 1956 e pubblicato l’11 novembre del 1958.

    All’inizio il manoscritto de Il Gattopardo non fu preso in considerazione dalle case editrici Mondadori e Einaudi a cui fu inviato in lettura. Il manoscritto fu giudicato negativamente da Elio Vittorini (così come Il dottor Živago di Pasternak e Il tamburo di latta di Grass), all’epoca influente lettore per Mondadori e curatore della celebre collana I gettoni per l’editore Einaudi – il quale lo bocciò per entrambe le case editrici rimandandolo all’autore, e accompagnando il rifiuto con una lettera di motivazione che scoraggiò, e non poco, Tomasi di Lampedusa.

    L’opinione negativa di Vittorini, un clamoroso errore di valutazione, fu da lui ribadita anche successivamente, quando Il Gattopardo divenne un caso letterario internazionale – tanto da permettere al Principe d’essere insignito del Premio Strega nel 1959. L’opera di Tomasi di Lampedusa in bilico tra romanzo storico e biografico, riuscì ad esprimere l’incoerente adattamento al nuovo nonché l’incapacità vera di modificare sé stessi e quindi l’orgoglio innato dei siciliani. Il Gattopardo fu il best-seller planetario del Secondo dopoguerra (con oltre centomila copie vendute), tanto da diventare parte dell’immaginario collettivo venendo citato da Eduardo De Filippo in Sabato, Domenica e Lunedì (1959), e divenendo l’ispirazione dell’aggettivo “gattopardesco” – con accezione negativa – legato all’apparente trasformismo delle classi dirigenti italiane e ispirato anche dalla frase: “Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”

    Tomasi di Lampedusa non poté, comunque, fregiarsi del successo della sua opera. Nel 1957 gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni, e morì il 23 luglio a Roma, non prima, però, di aver adottato come erede l’allievo e lontano cugino Gioacchino Lanza di Assaro. La sua salma fu inumata il 28 luglio nella tomba di famiglia al Cimitero dei Cappuccini di Palermo.

    Curiosamente, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa morì lontano da casa come il “suo” principe di Salina de Il Gattopardo. Non avendo eredi, i suoi titoli nobiliari andarono allo zio Pietro Tomasi Della Torretta, che morì nel 1962 senza lasciare discendenti diretti ma solo collaterali. Succedette il cugino Giuseppe Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa.

    Dell’epopea della pubblicazione de Il Gattopardo, e degli ultimi di vita del Principe, esiste un’opera cinematografica – Il manoscritto del Principe (2000) di Roberto Andò – qui interpretato da Michel Bouquet. Ma il nome di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel cinema, è legato indissolubilmente all’adattamento cinematografico della sua opera letteraria: Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti con Burt Lancaster, Alain Delon e Claudia Cardinale, tra i più grandi film italiani di tutti i tempi.

  De Il Gattopardo, e della relativa immortalità letteraria prima, e cinematografica poi grazie al preziosissimo lavoro di Visconti (vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel ’63) – specie nella cura scenografica e dei costumi (candidati agli Oscar 1964) – resta un’importante lezione per i posteri, la celebre frase: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” e di come, in Sicilia, i cambiamenti avvenuti nell’isola più volte nel corso della storia, hanno adattato il popolo siciliano ad altri “invasori” senza tuttavia modificare dentro l’essenza e il carattere dei siciliani stessi; un qualcosa che se Tomasi di Lampedusa riconduceva – nel contesto narrativo – al presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare più che mai attuale, un mutamento senza contenuti, un’accettazione passiva, perché ciò che non muta è l’orgoglio (e la mentalità) del siciliano.

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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