IL MANOSCRITTO DEL PRINCIPE (2000), UN MAESTRO CLANDESTINO E I SUOI DUE ALLIEVI

Il film Il manoscritto del principe è stato restaurato e presentato alla Festa del Cinema di Roma 2019. Di seguito un’analisi tratta dal libro La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò (Edizioni Kaplan, 2013 e 2017) di Marco Olivieri.

Incipit.

Bianco e nero. In dissolvenza, antiche bellezze corrose dal tempo. Affreschi, statue e palazzi, muri scrostati, immagini che mantengono un loro fascino elegante ma che soccombono, lentamente, di fronte alla forza inesorabile della decadenza.

La macchina da presa inquadra un 33 giri in vinile che gira. Stacco.

Uno sguardo sui tetti della città di Roma. Zoom all’indietro, sostenuto da una musica sospesa, con l’ouverture del Tristano wagneriano, alla scoperta di un’abitazione.

La cinepresa esplora gradualmente, come in un labirinto, tre stanze aperte, un grande quadro seicentesco, uno spazio ampio ricco di libri e cultura, volumi pregiati, una scrivania, un antico comò e, infine, un uomo al pianoforte, che accompagna la musica del 33 giri e tenta fino all’ultimo di non ascoltare un telefono che squilla: la voce di un amico/rivale, lo scopriremo in seguito, che non vuole udire.

Anche questa può essere una metafora della memoria.

Ricordare è faticoso e, a volte, è necessario erigere muri fra sé e gli altri, fra sé stessi e il passato.

Epilogo.

Gli amici di un tempo, di una vita precedente, si salutano a distanza.

Un analogo saluto – un cenno delle mani, con un braccio lievemente alzato – era avvenuto tanti anni prima, nel palazzo del maestro, con un lungo ed elegante corridoio a sancire la distanza, in un giorno speciale: un Capodanno ricco di attese, nonostante l’inevitabile crepuscolo del principe.

L’uomo è di nuovo al pianoforte. Mentre suona, chiude gli occhi, ispirato.

La macchina da presa procede in avanti e attraversa lo spazio fino a fermarsi su una fotografia appoggiata sulla libreria: un uomo anziano, al centro, affiancato da due giovani. L’anziano, con un sorriso lontano, cinge affettuosamente la spalla di uno dei due, anche lui sorridente. L’altro giovane sembra quasi fuori posto. Non sorride e guarda fisso, dentro gli occhiali, e serio, qualcosa che rimane nascosto.

Con quest’immagine si conclude il film.

Scrive Roberto Andò nel libro Diario senza date o della delazione:

“Sono nato e cresciuto in una città morta. Posso dire questa enormità perché una città – Palermo, ad esempio – ha comunque una sua possibilità di rimanere quello per cui è nata, cioè una dimora, anche quando fisicamente le cose che la compongono – le case, le strade, l’eco monumentale del suo passato, il bilancio tra ciò che potrebbe perdersi e il bagliore del futuro – si sbriciolano come le ossa, la calce, il gesso.”

Possiamo collegare queste parole evocative, e prima ancora lo sguardo amaramente poetico su una città di fantasmi in Diario senza date, alla fuga di immagini in dissolvenza che ritrae dettagli e scorci di vari palazzi palermitani nei titoli di testa del film Il manoscritto del principe, tra i fasti del passato e il senso di decadenza che pervade l’intera pellicola, in un bianco e nero iniziale che lascia il posto alla fotografia a colori di Enrico Lucidi, attenta alle zone d’ombra dell’esistenza. Come si intuisce sin dalle prime sequenze, che ricostruiscono l’atmosfera e il respiro profondo del film, la storia racconta, attraverso il flashback iniziale, un’esperienza decisiva per la formazione esistenziale e culturale di due giovani molto diversi tra loro per classe di provenienza e propensioni: il rapporto di Marco Pace e Guido Lanza – nella realtà rispettivamente Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomasi – con il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, negli ultimi quattro anni della sua vita, dal 1953 al 1957, a Palermo. Anni nei quali il principe viveva come un clandestino (afferma la voce off di Lanza, per sottolinearne l’alterità) e stava scrivendo quello che sarebbe divenuto Il Gattopardo. Romanzo che nel film si intravede nella forma del manoscritto, prima che il libro (dopo la morte del suo autore) diventasse un successo internazionale e un classico della letteratura.

Per il regista, autore della sceneggiatura con Salvatore Marcarelli, i testi di Orlando (del quale viene estremizzato, nei panni di Pace, l’aspetto piccolo-borghese) e Lanza Tomasi (accentuando i suoi aspetti dandy) contengono il germe narrativo di un film che si assume la responsabilità, come ogni finzione che si rispetti, di fantasticare su personaggi veri.

Nel cinema di Andò la memoria riveste un ruolo centrale. Sostenuto dalle delicate ed evocative musiche di Marco Betta, con attenzione sottile ai dettagli e alle passioni inespresse, vera e propria cifra emotiva e stilistica del film, Il manoscritto del principe racconta quanto la memoria possa costituire una condanna, un tormento, per Marco Pace, quando Guido Lanza lo cerca dopo tanti anni. Entrambi sono ormai sessantenni e, complice l’iniziativa di Guido, riaffiora il ricordo di Marco del primo incontro con il principe Tomasi di Lampedusa, con l’avvio di un rapporto ambivalente, di odio e amore, tra il maestro e l’allievo. Il rivale, quello che diventerà il figlio adottivo del principe, appare affine, per classe sociale ed educazione, al principe. Tuttavia, Lanza risulta distante culturalmente da Lampedusa e più superficiale rispetto al borghese e letterato Pace, preda di una sofferenza interiore che si esplicita nelle espressioni soffocate, nei piccoli gesti e nell’incertezza dell’agire.

A sua volta, il principe incarna il senso di decadenza di chi, al crepuscolo della propria vita, si nutre delle passioni e dell’entusiasmo dei due giovani allievi. Egli trasmette loro il proprio patrimonio inestimabile di cultura e conoscenza in un triangolo sentimentale che presenta anche sfumature omosessuali. Il film gioca espressivamente sul non detto, sulla reticenza tipicamente siciliana e la dissimulazione dei sentimenti attraverso un codice magro, secondo la definizione di Tomasi di Lampedusa. La verità degli affetti non è mai detta ma sempre colta tramite gesti e grida represse. L’aristocrazia, arrivata alla fine della sua gloriosa storia, in una Palermo che tende a dimenticare, non può che rassegnarsi, come il principe, a vendere i propri beni. L’unica eredità ragionevole, davvero universale, è quella letteraria, e non quella dei palazzi destinati a morire e dei beni ormai perduti.

Così acquistano un particolare significato i segni di antica bellezza, le rovine, i resti, che in dissolvenza campeggiano nei titoli di testa, in una Palermo mai oleografica. Il principe che cammina fiero e da solo, con il bastone, nella sua città, una realtà che stenta a riconoscere e nella quale rimangono solo tracce dello splendore di un tempo, è come un reduce da una guerra o da un mondo che non esiste più. Un sopravvissuto.

Nel film assistiamo a una continua evocazione del fasto passato in contrapposizione a un oggi segnato dalla decadenza economica della classe aristocratica. Una crisi quasi sempre (con qualche cedimento) negata dalle parole del principe – interpretato con finezza introspettiva da Michel Bouquet – e dalla sua consorte, la principessa Alessandra Wolf, chiamata dal marito Licy, di origine baltica e figura chiave per l’approdo della psicoanalisi a Palermo, impersonata da un’attrice simbolo del cinema d’autore come Jeanne Moreau.

Il disfacimento è profondamente interiorizzato nei loro gesti misurati e nella tristezza dei loro sguardi, mitigati solo dall’ironia di Lampedusa. Tuttavia, per non aggravare il malessere del marito, è la stessa Wolf a ridimensionare il problema economico, sapendo quanto sia pesante per il principe, costretto a vendere i cimeli di famiglia al banco dei pegni, accettare le asprezze del presente.

Marco Pace da giovane è Paolo Briguglia, il quale incarna con verità interpretativa il volto acerbo e il passo goffo di chi vive un disagio profondo e, all’età di sessant’anni, un lacerato Laurent Terzieff. I suoi silenzi e la sua dolente espressività ci ricordano che la memoria è fonte di rancori e incomprensioni. I tentativi di incontrare Marco, dopo tanti anni, da parte di Guido Lanza (ruolo interpretato da giovane da Giorgio Lupano, strafottente e superficiale, e da sessantenne da Massimo De Francovich, che fa intuire la maturazione del personaggio), riattivano la ferita, il dolore del ricordo. Un rapporto conflittuale con il maestro reso ancora più drammatico dal silenzio, dall’assenza di un giudizio, da parte di Tomasi di Lampedusa – il quale, come Stendhal, per tutta la vita aveva forse voluto la stessa cosa: «realizzare un capolavoro» – sul romanzo scritto dal giovane.

Roberto Andò valorizza un personaggio imponente come Lampedusa senza soccombere di fronte a un romanzo, Il Gattopardo, così impegnativo per le riflessioni sollecitate sulla Sicilia, e ricostruisce con finezza un triangolo letterario ed esistenziale, persino amoroso nelle sue pieghe meno esplicite, inserendo una nota dolce e amara al tempo stesso. Qui il ricordo appare segnato dalla tristezza e dalla malinconia, senza cedere alla retorica, e trovando una cifra stilistica autonoma rispetto al suo produttore, Giuseppe Tornatore. La regia riesce a valorizzare l’azione cinematografica, nonostante la forza letteraria del personaggio centrale, facendo sì che la parola si armonizzi con la dinamicità del linguaggio cinematografico. Domina una riflessione originale sul tema del talento, tra competizione, veti e silenzi omissivi – con la letteratura, la musica e, in maniera sotterranea, gli affetti come terreni di battaglia – grazie a un’indagine appassionante su una Sicilia intellettuale sequestrata dalla superbia e dall’autocensura.

Un altro tema centrale del Manoscritto del principe è la psicoanalisi, già presente in Diario senza date e fondamentale in Viaggio segreto. Qui è vista di sottecchi, quando il principe sbircia nella stanza dei segreti, quella della moglie psicoanalista in ascolto dei suoi pazienti. Il principe guarda con pudore, si ferma sulla soglia, e si porta dietro una consapevolezza forse di matrice psicoanalitica quando afferma la verità del corpo, dell’azione, del gesto inconsapevole rispetto alle parole, anche quelle bellissime e affascinanti della letteratura, nella sequenza chiave del confronto/scontro con l’allievo Marco Pace.

Così come sono ricche di rimandi psicoanalitici le due case principali del film, due veri e propri spazi della mente: quella di Tomasi di Lampedusa (palazzo Mazzarino di Palermo come set), densa di echi del glorioso passato, e l’abitazione romana (dominante nelle sequenze iniziali e finali) di Marco Pace, simbolo di una memoria culturale, tra pianoforte e rimandi letterari, che sembra risentire di quella stessa polverosa decadenza che, da giovane, l’allievo aveva respirato nella dimora del maestro.

Il ricordo dei tre, bloccato in un’immagine, in un giorno lontano, e perduto, sancisce la fine della storia, in un film elegantemente crepuscolare e denso di toccanti chiaroscuri. La macchina da presa sembra custodire lo stesso pudore degli affetti dei protagonisti. Ad esempio, quando osserva a distanza la scena nella sequenza del cimitero. In altri momenti, si concentra sull’articolazione del punto di vista dei singoli personaggi, con un uso del montaggio volto ad esaltare singole sfumature.

Il racconto, mai piegato a un ordine narrativo funzionale all’azione, allude insistentemente alle rovine della memoria per illuminare le latenze che muovono i singoli destini. Il cineasta va alla ricerca di un tempo ritrovato, consapevole che un’opera proustiana ha bisogno di solide fondamenta fatte di letteratura, poesia, cinema, arte, ma anche sguardo psicoanalitico e sottili sfumature sentimentali, con riferimenti una realtà interiore, intrapsichica, che mai si potrà rivelare in tutta la sua compiutezza. Il viaggio è segreto, alla ricerca di quell’attimo prezioso chiamato ricordo, e nemmeno l’amore per la letteratura, tesoro eterno e più grande di ogni meschinità o debolezza, può mitigare il peso del conflitto. La forza distruttiva delle emozioni e dei sentimenti, che attraversa maestro e allievo, supera ogni sapienza.

Il manoscritto del principe ha ricevuto unanimi consensi dalla critica e apprezzamenti anche da parte di esponenti significativi del cinema e della cultura, compresi i diretti interessati. Appena uscito il film, un entusiasta Andrea Camilleri ne ha lodato «l’eleganza, la discrezione, il pudore» e il coraggio nel rifiutare ogni concessione spettacolare.
Senza l’incontro da giovanissimo con Leonardo Sciascia, il rapporto fra il maestro e gli allievi non sarebbe stato così ricco di sfumature. È lo scrittore ad avere insegnato ad Andò che in Sicilia «la scrittura è innanzitutto delazione», con «il risentimento ferito, foriero di vendetta, rivolto a chi rivela ciò che deve rimanere taciuto». Un’accusa che accomuna Sciascia e Tomasi di Lampedusa: gli scrittori più significativi per l’identità siciliana sono segnati da una non appartenenza rispetto al proprio ambiente e considerati alla stregua di traditori. Così sarà per Il Gattopardo e per Le parrocchie di Regalpetra.

La scrittura e il cinema rappresentano dunque un’occasione preziosa per denunciare in chiave artistica il vuoto e l’orrore, la Sicilia assuefatta all’omertà mafiosa (da qui la delazione contro il silenzio che gli ingiusti vorrebbero imporre) e il degrado antropologico della nazione italiana. Così si esprime l’autore su Palermo: «Pure quando ci vivevo, mai mi sono sentito stabile e residente in questa città, come se ogni giorno dovessi lasciarla, volessi andare via». Forse era semplicemente questo che voleva raccontare: «La paura di non appartenere più a un luogo».

Un’altra figura fondamentale è quella del poeta Lucio Piccolo, cugino di Tomasi di Lampedusa, nel film interpretato da Leopoldo Trieste. L’attore è straordinariamente verosimile per adesione interpretativa, in un impasto indovinato di tragico e buffo. Per il cineasta, il mondo dei Piccolo esprimeva la più assoluta refrattarietà alla cura e l’estrema resistenza aristocratica all’interpretazione della psiche. Come psicoanalista freudiana, nella Palermo degli anni Cinquanta, la principessa Licy compie infatti un tradimento di classe, introducendo un elemento di rottura sociale. Al pari dell’alterità letteraria di Lampedusa, anche lei è un’intrusa.

Piccolo incarna qui un poeta di viaggi sospesi tra il sonno e la veglia per salvare qualcosa da un disastro che forse è già avvenuto ma che potrebbe replicarsi ancora più terribile nelle sue conseguenze. Nel suo gioco a nascondere si cela l’amore primigenio del regista per tutto ciò che è evocativo. Suggestioni, ombre, sogni e misteri da trasformare in cinema.

MARCO OLIVIERI

ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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