RAINER WERNER FASSBINDER, IL FAUTORE DEL NUOVO

Nato il 31 maggio 1945 a Bad Wörishofen in Germania, e fondatore, con Alexander Kluge, del Nuovo cinema tedesco, Rainer Werner Fassbinder ha firmato numerosi lungometraggi, testi teatrali, radiodrammi, regie teatrali, serie TV e si produsse anche come attore. Tra i suoi film, significativo ma poco esaminato, figura Effi Briest (1974), dall’omonimo romanzo di Theodor Fontane (Fontane – Effi Briest oder: Viele, die eine Ahnung haben von ihren Möglichkeiten und Bedürfnissen und dennoch das herrschende System in ihrem Kopf akzeptieren durch ihre Taten und es somit festigen und durchaus bestätigen), presentato nel 1974 al Festival di Berlino. Fontane, che morì nel 1898, ha pubblicato il romanzo, tre anni prima, ossia nel 1895. Nei film precedenti, Fassbinder si è sempre ispirato a temi attualissimi, mentre per Effi Briest ha rivolto lo sguardo su un’opera ottocentesca.

  “Da quando faccio cinema, avevo voglia di portare Effi Briest sullo schermo. Anzi, avrei voluto, addirittura, che fosse stato il mio primo film. Ma, in quegli anni, non mi sentivo ancora sicuro. E poi, era un progetto troppo oneroso per uno che stava appena cominciando, come primo film. Non mi sento lontano da fontane, anche se ha vissuto nell’Ottocento. Il suo punto di vista sul mondo, sulla vita, è uguale al mio. Anche lui polemizzava con il suo tempo, ma anche lui vi interagiva. Ne registrava, cioè, e anche molto lucidamente, gli errori, ma non faceva nulla per cambiarli. Sentendo che non poteva farci nulla. Lo stesso atteggiamento, per intenderci, di Visconti e di Chabrol nei loro film. Che non è diverso dal mio e da quello di molti miei amici tedeschi. Capiamo perfettamente che il sistema borghese non funziona più, e vorremmo distruggerlo, sostituirlo con altri, ma ci rendiamo conto che non è compito cui possiamo far fronte; così, pur criticandolo, lo accettiamo. Usandolo, se non condividendone i principi. In un’altra cosa ancora mi sento vicino al punto di vista di Fontane sulla società: nel fatto che analizza la realtà sotto prospettive diverse, in modo non unilaterale. Come dovrebbe essere sempre il nostro rapporto con la vita: complesso, aperto, pronto a capir tutto, ad accettare tutto. Senza pregiudizi, faziosità, esclusioni. Senza partiti presi, insomma”.

  Il romanzo di Fontane venne portato sullo schermo per ben tre volte: Il romanzo di una donna (1939), ad opera di  Gustaf Gründgens, Rose d’autunno (1955) di Rudolf Jugert e Effi Briest (1970), diretto da Wolfgang Luderer, inizialmente per il mercato dell Repubblica Democratica Tedesca. La traduzione di Fassbinder, però, presenta alcune differenze.

  “Non ho mai visto il film di Gründgens. Degli altri due la mia interpretazione si distingue per il fatto che “non” è un’interpretazione. Il mio film è semplicemente e unicamente una “lettura” del romanzo, la sua esatta trascrizione. Ho filmato il libro com’era. Vedere il film sarà come leggere il libro. Non ho interpretato nulla, ho riproposto tutto così com’era stato scritto. Sarà lo spettatore ad “interpretare”. Esattamente come fa il lettore quando legge. Credo fermamente in questo tipo di cinema che non mette tra lo schermo e lo spettatore la personalità esibizionistica dell’autore, con le sue interpretazioni personali, Questo è uno dei principi della scuola del Nuovo cinema tedesco: proporre con obiettività e distacco perché, dopo, possano entrare in azione l’immaginazione dello spettatore e le sue possibilità di interpretazione”.

   Il Nuovo cinema tedesco, ovvero Neue Deutsche Welle, nasce in occasione del principale festival del cortometraggio tedesco, dove ventisei giovani registi firmano il “Manifesto di Oberhausen“, dando così vita al nuovo corso cinematografico teutonico: “Papas Kino ist tot” (“Il cinema di papà è morto“); l’ispirazione è di chiaro riferimento alla Nouvelle Vague francese.

  “Dopo il 1933, con l’avvento del nazismo, in Germania si è fatto solo un cinema di Stato che, volutamente, ha trascurato, o, peggio, rinnegato tutto quello che si era fatto prima. Dopo il ’45 si è ripartiti da zero imitando i film mediocri e commerciali stranieri. Un grave errore, perché ancora una volta si è trascurato il cinema tedesco che aveva avuto tanta risonanza prima del ’33 e durante la Repubblica di Weimar. Con pessimi risultati culturali e con risultati commerciali che, buoni agli inizi, dopo qualche anno sono diventati anch’essi cattivi. Qualche autore, allora, e qualche produttore, hanno creduto di trovare la soluzione al problema imitando ancora una volta i film stranieri, i buoni, però, quelli di categoria “A”, anziché i mediocri, di categoria “B”. I risultati , sia culturali che commerciali, non sono stati deludenti, ma i prodotti erano solo d’imitazione. Ancora non si poteva parlare di cinema tedesco. A questo punto qualcuno ha cominciato a ricordarsi del cinema tedesco pre-1933, di Lang, Murnau, Pabst. E ha pensato che quelli dovevano essere i maestri. Ed è così che è nato il Nuovo cinema tedesco, di cui sono uno dei fondatori.

  La mia posizione all’interno del movimento è un po’ speciale perché, con Effi Briest e contando anche i cortometraggi e un film in otto puntate per la televisione, ho realizzato venti film in otto anni. Non ho studiato per diventare regista. Non c’erano nel ’66, né scuole né accademie di cinema, come adesso a Monaco e a Berlino. Per cominciare ho realizzato due cortometraggi, ma non facevo parte di nessun clan, così nessuno mi ha preso in considerazione. Allora ho fatto teatro, poi nel ’69 ho realizzato il mio primo lungometraggio. E a questo punto mi sono chiesto: cos’è meglio, realizzare ogni anno un solo film – costoso, d’impegno – o invece realizzarne molti, e a basso costo? Scelsi la formula dei molti film a basso costo perché, ripeto, non avendo frequentato nessuna scuola e, per imparare, dovevo fare dei film, tanti film. Li ho fatti e penso d’aver imparato meglio di molti altri”.

  Fassbinder è un autore di svolta, nonché di impegno e rinnovamento, crediamo per il cinema tedesco e non solo. Un’istantanea riassuntiva della suo operato fino ad ora.

  “Fino al 1970 sono stato tra quelli che imitavano gli stranieri, di categoria “A”, italiani e francesi soprattutto. I miei modelli sono stati Antonioni, Visconti, Godard, Truffaut. L’ultimo film di questo periodo è stato Attenzione alla puttana santa (1971). Dopo il 1970, quando mi accorsi che l’imitazione degli stranieri ci portava in un vicolo cieco, i miei modelli sono stati gli autori tedeschi antecedenti al ’33. I film del primo periodo sono piaciuti a me, a lei, ai miei amici e a un pubblico ristretto. I film del secondo periodo, a cominciare da Il mercante delle quattro stagioni (1972) sono stati apprezzati da un pubblico più vasto. Per fortuna, però, hanno continuato a piacere anche a me, a lei, ai miei amici e al pubblico ristretto cui erano piaciuti quelli del primo periodo”.

  Una sintesi tra l’opera cinematografica e l’opera teatrale di Fassbinder s’impone, ma, soprattutto, il parallelismo è sempre stato una sua costante.

  “Chi fa cinema, per farlo bene, deve fare anche teatro. Il teatro insegna molto. Per prima cosa, a trattare con le persone, con i “personaggi”. Il teatro è più intenso, più concreto, concede più tempo, non soffoca con problemi tecnici, finanziari. E poi insegna a lavorare con gli attori. L’ho percepito anche nei film di altri registi: se fanno anche teatro, i loro attori recitano meglio. Non ha idea di quanto possa essere importante per un attore prima di tutto in teatro. La continuità, il lavoro di gruppo, l’affiatamento; è per questo che, chiuso da tempo l’Antiteater a Monaco, adesso penso di aprire un teatro stabile a Francoforte che penso di chiamare TATTeater am Turm – (Teatro alla torre, t.l.) dove lavoreranno tutti quelli che, da sempre, fanno cinema insieme a me. Quello che impareranno lì servirà poi per i film. Sarà, del resto, un teatro collettivo, nell’interesse di tutti vi decideranno cosa si farà, come si farà, perché si farà.

  Dal cinema mi aspetto che sensibilizzi il pubblico preparandolo ad alcuni fondamentali mutamenti: di gusto, di cultura,. Lo so, certi si aspettano anche le rivoluzioni. Non li contraddico. Personalmente, però, l’arte e la rivoluzione insieme li considero un paradosso. Mentre l’arte che cambia una società – il suo gusto, la sua cultura – è già una rivoluzione”.

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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