LUIGI CAPUANA. MALÌA, E LE MUTAZIONI CINE-TEATRALI

Fra il 1903, l’anno in cui la “Compagnia Drammatica Dialettale Nino Martoglio” esordisce a Milano con La zolfara di Giuseppe Sinopoli e il 1919 quando, al teatro Argentina a Roma, Nino Martoglio fonda la compagnia del “Teatro Mediterraneo”, si snoda la storia del teatro dialettale siciliano, italianizzato sui set cinematografici degli anni a venire; in questo lasso di tempo, tra crisi fine secolo e guerra mondiale, impegnano le proprie energie in una drammaturgia dialettale Luigi Capuana, Luigi Pirandello e Rosso di San Secondo e conoscono versioni dialettali dei propri lavori Giovanni Verga e Federico De Roberto.

    Ma il teatro dialettale non nasce ora in Sicilia. Basti pensare al successo che I mafiusi della Vicaria di Mosca e Rizzotto conobbero, a partire dai 1863, nei teatri dell’Isola prima, e, successivamente fuori Sicilia. Per qualche decennio, dopo l’Unità, teatro popolare e teatro colto, teatro regionale e teatro nazionale si muovono lungo strade diverse, prima dell’avvento, per gemmazione, del cinematografo. In Sicilia i teatri popolari, fra cui il “Machiavelli” di Catania (fondato nel 1864 dal puparo Angelo Grasso), si distinguono per un repertorio, nel quale, accanto agli spettacoli dei pupi, prevalgono drammi strappalacrime, sul tipo delle Due orfanelle, e spettacoli di varietà che daranno modo ad Angelo Musco di segnalarsi agli inizi della carriera. Si produce quindi una sfasatura tra le condizioni dei palcoscenici isolani e le aspirazioni della cultura dominante, inserita per la prima volta in un circuito nazionale, e con la realtà, i bisogni, le aspirazioni della nazione costretta a fare i conti.

    È evidente che, almeno nella prima fase del progetto di costruzione di un’Italia unita, le tendenze centripete debbano prevalere su quelle centrifughe e le esperienze regionali finiscano coll’essere svalutate. Si spiega quindi l’avversione nei confronti del teatro dialettale da parte di Cesare Trevisani che, incaricato dal ministro della Pubblica Istruzione Berti di stendere una relazione sulle condizioni della letteratura drammatica, augurava per il decoro e l’unità morale della nazione, che sparisse “fin la memoria dei vari dialetti, affinché nelle varie parti d’Italia s’udisse solo la favella italiana”. Trevisani non era il solo a pensarla così, se in quegli stessi anni Luigi Capuana, scrivendo la prefazione alle sue recensioni teatrali raccolte in volume, si dichiarava decisamente contrario a qualunque esperimento di teatro dialettale, dal momento che esso è «inferiore per i mezzi che usa, inferiore del suo contenuto che non esca e non può affatto uscire da una certa classe sociale, inferiore per le intenzioni artistiche che sono messe al secondo, al terzo, all’ultimo posto nella mente dello scrittore. Vuoi dire inoltre vita locale, provinciale, frazionatamente, analisi, preciso un ridestare, come dice il Tommasi per la malattia ordinaria, uno svegliare tutte le energie occulte della materia, le quali nel servizio della vita erano rimaste latenti come tante forze in istato di tensione».

    A parte ogni considerazione sul provincialismo e sulla scarsa elaborazione formale di questo teatro, Capuana teme che il dialetto divenga il tramite attraverso il quale facciano sentire la loro voce forze sociali finora tenute da canto dalla cultura dominante (non è un caso che nello stesso momento in cui pronuncia in maniera inequivocabile la condanna del teatro dialettale, si affretti a proclamare capolavoro Le miserie di ‘Monssù Travet di Vittorio Bersezio).

    Con questi presupposti teorici non bisogna meravigliarsi se fino agli inizi del nuovo secolo il teatro dialettale siciliano viva relegato in teatrini popolari, ai margini della scena nazionale, mentre una vera e propria rivoluzione drammaturgica si compie al Teatro Carignano di Torino nel 1884, con la rappresentazione di Cavalleria rusticana. È noto come anche Verga provò radicata avversione per la letteratura dialettale. Un’avversione durata a lungo, se ancora nel 1911, mentre si lascia convincere da Martoglio ad un rifacimento dei propri drammi (ma lo spingevano a ciò soprattutto considerazioni economiche), scrive a Luigi Capuana, nei frattempo convertitosi al nuovo teatro, che «il bravo poeta Di Giovanni scrivendo ccu la parrata girgintana non si fa capire da nessuno comu si avissi scrittu turcu», e quindi aggiunge: «precisamente voi, io, e tutti quanti scriviamo, non facciamo che tradurre mentalmente il pensiero in siciliano, se vogliamo scrivere in dialetto; perché il pensiero nasce in italiano nella nostra mente “malata di letteratura”, secondo quello che dice vossìa, e nessuno di noi, né voi, né io, ne il Patriarca San Giuseppe riesce a tradurre in schietto dialetto la frase nata schietta in altra forma – meno qualche poeta popolare –  e anche quelli, a cominciare dal Meli, che sa non sono di letterario ma di umanista. E poi, con qual costrutto? Per impicciolirci e dividerci da noi stessi? Per diminuirci in conclusione? Vedi se il Porta, ch’è il Porta, vale il Parini fuori di Milano. Il colore e il sapore locale sì, in certi casi, come hai fatto tu da maestru, ed anch’io da sculareddu; ma pel resto i polmoni larghi».

    In altra lettera dello stesso anno, ironicamente scritta in siciliano, Verga contesta a Capuana il carattere ibrido del suo dialetto: «Viditi ca non vi sapiti sentiri mancu vossia stissu ‘nni Lu cavaleri Pidagna (al cinema nel 1932 con Zaganella e il cavaliere, diretto dai registi Giorgio Mannini e Gustavo Serena, e sceneggiato da Amleto Palermi; ancor prima, nel 1926, fu tradotto per il cinema nel Il cavalier Pedagna da Mario Gargiulo) tra la bedda parrata nostra taliana e chidda di lu tiatru Macchiavelli?… Lu culuri è lu sintimentu lucali? D’accordu ccu vui. Ma vossignoria lu sappi fari di veru maestru nta dda bedda Malìa, e ora mi la futtistivu ppi darila a li pupara! L’aiu fattu iu puru stu piccatu di mettiri li me figghi a cammareri, ppi lu malidittu bisognu, ma non l’haiu vulutu futtiri io».

    Si è già detto della radicata avversione di Capuana, negli anni giovanili della permanenza fiorentina, nei confronti dei teatro dialettale. Come spiegare allora il passaggio da un rifiuto così netto ad un’accettazione altrettanto esplicita? Nel 1910, nell’articolo Il Teatro siciliano destinato al “Giornale d’Italia” del 4 ottobre (poi prefazione alla prima edizione, Reber, del suo Teatro dialettale siciliano)’ Capuana afferma che un teatro dialettale in Italia potrà nascere solo attraverso la fondazione dei teatri dialettali. E non solo perché le compagnie dialettali sono migliori di quelle in lingua, ma perché la società italiana al suo interno presenta delle grandi differenze, e un borghese romano ed uno napoletano, o piemontese o siciliano manifestano in maniera diversa i loro sentimenti. Bracco, Verga, Di Giacomo, Martoglio, io stesso, continua Capuana, «tutti abbiamo dimostrato, secondo le diverse forze dell’ingegno, che c’è qualcosa di nuovo di originale, da cavare dai fondo ancora poco esplorato della vita regionale italiana, anche senza ricorrere al valido aiuto della forma dialettale, strumento di incomparabile efficacia, non potrà negarlo nessuno».

    Del resto, già in una lettera a De Roberto del 5 maggio 1887, Capuana aveva scritto che nell’opera drammatica bisogna concedere qualcosa al mondo esteriore e al colorito locale, e solo le classi popolari, a differenza di quelle medie, che si assomigliano tutte, presentano caratteri regionali particolari. Quindi, nell’articolo La dinastia dei Grasso, pubblicato su “L’opera” di Palermo del 3 aprile 1907, Capuana esaltava l’attore dialettale costretto dagli stessi personaggi che deve rappresentare «ad assoluta sincerità di gusto, di accento e d’espressione» e ripeteva un giudizio di Ugo Ojetti, secondo il quale il teatro italiano deve rassegnarsi ad essere dialettale o a non essere.

    Scrivendo poi l’articolo Il Teatro siciliano a giustificazione di una decennale attività di autore dialettale lo scrittore di Mineo chiarisce perfettamente i motivi che lo hanno spinto a mutar parere in sintonia col mutar dei tempi.  Superfluo in questa sede ricordare l’adesione al naturalismo di Zola e alle opere dell’amico Verga, manifestata a più riprese. È stato l’esempio di Cavalleria a far tentare a Capuana sin dai 1891, con Malìa, un teatro d’ambiente siciliano.Ormai questo teatro e l’uso dei dialetto non costituivano più un attentato all’unità nazionale. Fatta bene o male l’Italia, i pericoli che potevano venire dal di fuori o dal basso erano stati, almeno in parte, esorcizzati. C’era anzi negli uomini della nuova Italia il desiderio di far luce su realtà locali finora poco conosciute, ed anche le coscienze meno avvertite si erano rese conto che l’unità culturale non poteva essere raggiunta in tempi brevi con un processo dall’alto.

    Un teatro d’ambiente regionale e in dialetto diventavano, dunque, per Capuana un contributo prezioso alla formazione di una cultura nazionale, oltretutto non c’era il pericolo paventato agli inizi, che esso potesse significare «uno svegliare tutte le energie occulte della materia viva, le quali per servizio della vita erano rimaste latenti come tante forze in istato di tensione». E ciò perché l’immagine di Sicilia proposta da Capuana nelle novelle d’ambiente paesano e nel teatro dialettale è immagine idillica di una terra dove i contadini sono buoni, ossequenti, pazienti, e non liberi pensatori, incendiari e assassini. La società dell’Isola rimane per Capuana ancorata ai principi di un mondo rurale e patriarcale, che mantiene intatti i principi della famiglia, dell’onore e della roba.  Il passaggio avviene, a partire dal 1902, con la traduzione di Malìa, tradotta in italiano da Giusti-Sinopoli.

    Anche in Malìa, come in Cavalleria rusticana, c’è un dramma d’amore che si conclude con un omicidio. Ma all’interno del modello intervengono avvenimenti e modelli non irrilevanti che conferiscono all’opera una dimensione inedita. Il dramma che si svolge nell’animo di Jana, con esito fisiologico distruttivo, tra dovere e sentimento, tra senso dell’onore e passione, è fatto nuovo nella storia del teatro siciliano. Jana non possiede la vitalità e l’esuberanza estroversa di Santuzza, di Lola, di ‘gna Pina, ma è donna incerta, nevrotica, in preda a continue crisi fisiche e psichiche.

    È Jana che con la sua passione mette in crisi l’ordine familiare prestabilito, è lei che spinge il cognato Cola ad una passione distruttiva e toglie la serenità al fidanzato Ninu. Al di là del modo di impostare la vicenda e del procedimento naturalistico di origine verghiana, un’incrinatura si verifica all’interno della struttura consolidata. La crisi che minaccia la famiglia di massaru Paulu (il padre di Jana) è una crisi inarrestabile, che procede con l’inesorabilità di una malattia inguaribile. La malattia di Jana diventa allora metafora scenica della malattia che mina il costume tradizionale della Sicilia. Lo scrittore è costretto, suo malgrado, a prendere atto di un un mutamento di orizzonti, e fedele al metodo di indagine naturalistica, registra l’esito patologico che questa crisi ha nella psicologia degli individui.

    La soluzione del caso è affidata al gesto tradizionale dell’omicidio, ma questo, se da una parte serve a ristabilire un ordine sociale scosso, dall’altra non può ricucire le lacerazioni di una psiche turbata. Malìa venne trasposto in pellicola nel 1912, interpretato da Cesira Archetti Vecchioni, Mariano Bottino, Augusto Mastripietri. Più tardi, nell’epoca del sonoro, nel 1946, Giuseppe Amato ne dirige la versione cinematografica più nota, provvedendo anche alla sceneggiatura. Anna Proclemer nel ruolo di Jana, María Denis in quello di Nedda e Roldano Lupi in quello di Nino, il fidanzato di Jana (il film è anche stato Nastro d’argento per la musica di Enzo Masetti).

    Ancora un matrimonio (ma questa volta la situazione è solo comica) è al centro de Lu paraninfu, grande successo di Angelo Musco, che dà vita al personaggio di don Pasquali Minnedda, brigadiere di Finanza a riposo, la cui unica preoccupazione è quella di combinare matrimoni e far sposare le due sorelle brutte ma ricche. Sul grande schermo nel 1933 come Paraninfo, diretto ancora da Amleto Palermi).

    E poi Don Ramunnu, il risultato più compito conseguito sulla scena da un Capuana che scivola inavvertitamente verso verso toni e situazioni pirandelliani. Sembra che per la prima volta Capuana prenda coscienza della tragicità immanente ad una condizione sociale che per altro non e in grado di contestare. Ma oltre questo risultato non può andare. Come il protagonista del suo dramma anch’egli non fa che prendere atto, con senso di impotenza, dei mutamenti avvenuti nella compagine sociale e testimoniarli con la sua arte.

    La conclusione di questo teatro è affidata a Prima di li Milli, scritta in lingua e poi tradotta in dialetto dal nipote di Luigi, Ludovico Capuana. Lo scrittore rievoca in maniera ingenua e commossa gli avvenimenti che nel 1860 portarono all’unificazione della Sicilia col resto d’Italia. L’opera è dunque documento eloquente dell’ideologia unitaria di un Capuana che ha rinnegato da tempo le posizioni separatiste dei suo maestro Leonardo Vigo.

    Congedandosi dall’attività di scrittore, Capuana fa rivivere sulle scene l’avvenimento più importante della sua formazione politica e culturale. Alla luce di questa formazione si capisce anche il sentimento con cui ha indagato nell’anima della sua Isola. Il suo teatro dialettale è stato un contributo alla costruzione di un teatro e di una cultura nazionali, il contributo di un siciliano che nella sua produzione ha riversato l’amore per la sua gente, ma sempre ha guardato ad essa con l’ottica di un intellettuale dell’Italia unita.

GUIDO NICASTRO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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